Archivio: “Riflessioni”

Per chi si fosse perso l’antefatto: Sergio Sarnari racconta sul suo blog l’insoddisfazione per un acquisto di mobili e la Mosaico Arredamenti lo cita per danni, diffidando anche chiunque altro riprenda le critiche.

Ovviamente, quello che è successo è una mobilitazione generale di solidarietà con Sarnari e una forte critica per l’atteggiamento dell’azienda denunciataria che sfocia addirittura in una lezione di comunicazione sotto forma di lettera aperta.

No, non firmerò questa lettera (mi invitato anche Luca via mail); penso che chiunque sia libero di fare ciò che vuoile nell’ambito delle leggi, poi sarà un giudiche che prenderà le decisioni. Tra l’altro non ho avuto modo di leggere il post di Sarnari (dato che per prudenza l’ha rimosso) e, anche se non ho modo di dubitare che non sia stato realmente denigratorio, preferisco giudicare solo ciò che ho visto direttamente.

Non credo che serva una “lettera aperta dei blogger” (io peraltro non mi sento tale – solo solo una “persona che ha un blog”, che è diverso), o quantomeno non all’azienda. Tanto capiranno comunque l’errore di comunicaizone e, se non lo capissero, il peggio è loro! Meglio evidenziare le opportunità che sottolinea [mini]marketing che condivido in toto.

Semmai è fondamentale vigilare sul seguito di questi eventi, nel senso che se dovessero portare ad azioni d censura o, peggio ancora, di risarcimento, sarà giustro mobilitarsi ma nei confronti di chi fa le leggi e di chi le fa applicare.

Cinicamente ho salutato favorevolmente l’intera vicenda, nel senso che servono casi del genere per testimoniare alle aziende cosa succede in questi casi. Insomma, il caso Kryptonite è stato da esempio a chissà quante aziende che nel 2004 scoprirono come non relazionarsi con il mondo esterno. Bene, adesso abbiamo anche un caso italiano. Grazie Sergio, grazie Mosaico Arredamenti.

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Leggevo sul Corriere le parole del prof. De Rita a proposito del discorso del Presidente Napolitano sulla “regressione civile”. Il grande sociologo dice:

“Bisognerebbe favorire al massimo tutto ciò che aggrega. Mi rendo conto che non è facile. Ma occorrerebbe rifare le associazioni, i sidacati, i partiti, le parrocchie, tutto ciò che può ricreare un’identità positiva. Un po’ alla volta sono venuti a cadere tutti i luoghi e tutte le forme che permettevano di fare qualcosa con gli altri.”

“Incapacità a connettersi” la chiama De Rita.

Proprio riprendendendo in mano La ricchezza della Rete e L’economia della felicità (quest’ultimo che recensirò a breve), ho la conferma che potrebbe essere proprio internet il facilitatore di queste connessioni. Noi che usiamo la Rete sappiamo quanto ci permetta di “fare qualcosa con gli altri”.

Solo che la Rete è una cosa che riguarda attualmente una parte esigua della popolazione italiana, da ricercare probabilmente proprio in quel 25% che lo stesso De Rita identificava a inizio d’anno come la fascia che sostiene il PIL nazionale. O come ragionavamo nei commenti ad un post precedente a proposito di info-commerce, la quantità di popolazione “connessa” va ricercata nei 16 milioni di individui identificati dall’Osservatorio sulla Multicanalità come Open minded e Reloaded. Il problema è che l’area degli “sconnessi” (che rende meglio rispetto ai “non-connessi”) è largamente preponderante rispetto al totale…

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Leggevo sul Corriere le parole del prof. De Rita a proposito del discorso del Presidente Napolitano sulla “regressione civile”. Il grande sociologo dice:

“Bisognerebbe favorire al massimo tutto ciò che aggrega. Mi rendo conto che non è facile. Ma occorrerebbe rifare le associazioni, i sidacati, i partiti, le parrocchie, tutto ciò che può ricreare un’identità positiva. Un po’ alla volta sono venuti a cadere tutti i luoghi e tutte le forme che permettevano di fare qualcosa con gli altri.”

“Incapacità a connettersi” la chiama De Rita.

Proprio riprendendendo in mano La ricchezza della Rete e L’economia della felicità (quest’ultimo che recensirò a breve), ho la conferma che potrebbe essere proprio internet il facilitatore di queste connessioni. Noi che usiamo la Rete sappiamo quanto ci permetta di “fare qualcosa con gli altri”.

Solo che la Rete è una cosa che riguarda attualmente una parte esigua della popolazione italiana, da ricercare probabilmente proprio in quel 25% che lo stesso De Rita identificava a inizio d’anno come la fascia che sostiene il PIL nazionale. O come ragionavamo nei commenti ad un post precedente a proposito di info-commerce, la quantità di popolazione “connessa” va ricercata nei 16 milioni di individui identificati dall’Osservatorio sulla Multicanalità come Open minded e Reloaded. Il problema è che l’area degli “sconnessi” (che rende meglio rispetto ai “non-connessi”) è largamente preponderante rispetto al totale…

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Giovedì è uscito un mio articolo su Nòva (IlSole24Ore) che approfondisce l’argomento dei company generated content su cui mi sto concentrando in questo periodo. Nel link precedente ho riproposto il testo dell’articolo, mentre qui inserico un grafico che cerca di sintetizzare il concetto, ossia che oltre alla visibilità che si ottiene acquistando pubblicità, c’è quella che si può guadagnarsi attraverso al produzione, l’ottimizzazione e la condivisione dei contenuti.

company generated content keywords

Qui ho riportato l’immagine con il testo in inglese perché su Nòva le voci sono state tradotte in italiano ma non tutte rendano il significato che voloveo dargli.

Sia chiaro, non ce l’ho con la pubblicità (on/off line che sia), né penso che le aziende si debbano mettere a fare gli editori. Solo che ritengo estremante produttivo affiancare alle attuali forme di comunicazione, delle iniziative che sviluppino ulteriori touch point con le persone, attraverso contenuti pensati con obiettivi informativi, divulgativi o di intrattenimento.

Il tema dei company generated content l’ho affrontato recentemente anche con un breve video e, in parte, con un precedente articolo su Nòva. Se passate allo stand Ad Maiora a IAB Forum a Roma, conto di aver preparato con l’occasione anche qualche materiale più analitico che dettaglia il significato delle aree del triangolo. Ho un PPT già pronto solo che Slideshare è in in panne in questo periodo (pare per attacchi alla Cina): mi cosigliate un’alternativa?

Intanto sarei molto contento di ricevere feedback, punti di vista, eventuali esperienze, ecc.

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Il DDT venne abolito nel 1978 in Italia per cui magari qualcuno non sa di cosa parlo. Era un componente per gli insetticidi. Ora mi si perdonerà il gioco di parole nel titolo (parlo io che mi chiamo Lupi…) che naturalmente non vuole essere offensivo ma solo provocatorio nel guardare la lettera aperta a Vespa e la relativa petizione, come l’inizio di qualcosa di più ampio.

Sono d’accordo con Mantellini quando ritiene che non sia Vespa l’interlocutore giusto, o quantomeno non l’unico, a cui indirizzare la missiva(non condivido invece l’affermazione di Massimo: “Vespa (e la TV in generale) non sono ormai piu’ un grande pericolo“; lo sono ancora, haimé). Paolo sintetizza perfettamente:

Cercare “da” Internet un dialogo con Bruno Vespa richiede una enorme dote di ottimismo e fiducia nel prossimo

Fiducia che non mi sento proprio di dare a questo prossimo. E allora?

Lancio un’idea. Premesso che continueranno ad esserci attacchi disinformati e/o strumentali alla Rete ancora per molto tempo, suggerisco di redigere un documento più generale, stilato sulla falsa riga di quello realizzato in questo caso, che possa prestarsi ogni qualvolta si demonizza la Rete in maniera esagerata.

Attenzione però: non un manifesto che tenti di rappresentare “Il Popolo della Rete”, perché è qui lo sbaglio che a volte facciamo noi “dell’ambiente”, andandoci a ghettizzare da soli. Serve invece qualcosa che dimostri, numeri alla mano, l’entità sociale ed economica di internet. Come sappiamo, internet non è fatta di geek, blogger ed hacker, ma da un’enormità di persone che ormai sono rappresentativi della maggioranza della popolazione.

A noi che abbiamo l’opportunità di usare la Rete e quindi anche di conoscerla, spetta il compito di spiegarla, spiegarla e spiegarla ancora. Difendendola se occorre. E ribadisco: non dichiarandoci cantori di un’area tecnicologica o di frontiera, ma semplicemente utilizzatori di qualcosa che sta migliorando il mondo (a proposito leggere l’articolo di Weinberger su Nòva di oggi).

Che ne dite?

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Ci sono un paio di importanti motivi alla base della riunione di questi giorni di IAB Europe: la prima è un’evoluzione della struttura organizzativa e della mission di IAB Europe, l’altra riguarda l’inizio dei lavori per mettere su Interact 2008, ossia IL convegno europero sull’e-makgeting che quest’anno si terrà proprio a Berlino (save the date: 2/3 Giugno).

Stimolante come sempre il confronto con gli altri colleghi IAB delle numerose nazioni presenti a cui si sono aggiunti alcuni manager europei di aziende del settore tra le quali Yahoo!, AdLink, Ebay, DoubleClick, e Microsoft.

Mi porto a casa un paio di pensieri in particolare:

  • Tra i nomi che si pensa di invitare a Interact, c’è un ministro tedesco, nella fattispecie il Federal Minister of Economy & Technology. Ho fatto un sogno: nel governo italiano che spunterà dopo prossime le elezioni, qualche incosciente e rivoluzionario cambia nome e missione del Ministero delle Attività Produttive che diventa Ministero dell’Economia e delle Tecnologie… 
  • Sempre a proposito di Interact, ci si è preoccupati di identificare sia il target dell’evento che i suoi contenuti, ritrovandosi sul voler rappresentare l’e-marketing e i media digitali. La riflessione che mi è scattata è che i media digitali non sono più solo il web o la Rete (TV e radio sono di fatto digitali da tempo), così come dietro il marketing elettronico c’è l’intero mondo della comunicazione in fase di sconquasso. Ho concluso che non vedo quale possa essere di questi tempi un settore miglore di internet in cui valga la pena di lavorare.

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Con un nostro cliente per il quale facciamo l’analisi delle discussioni sui blog che li riguardano, discutevamo oggi a proposito delle reazioni a proposito del lancio di un loro nuovo prodotto.

Commentavamo in particolare l’influenza negativa che ha avuto il passaggio del comunicato stampa che presentava il prodotto, in cui si citava l’ammontare del (sostanzioso) budget pubblicitario destinato al lancio. Ebbene, diversi blog hanno ripreso questa indicazione per sparare a zero sul prezzo, secondo loro troppo alto proprio a causa della corposa spesa promozionale, oppure dichiarandosi delusi dal prodotto dal quale si aspettavano molto di più proprio perché supportato da milioni di Euro di campagna.

Insomma, se forse un tempo sbandierare un budget pubblicitario di un prodotto poteva significare “crederci” e comunque riguardava un’informazione indirizzata e circoscritta agli addeti ai lavori, oggi non è più così. Un’altro dei (tanti) modi di fare comunicazione che occorre aggiornare o quantomeno da argomentare in modo differente.


Ciao 2008, eccoci qua. Quest’anno parte col broncio. Non capisco se è l’insofferenza dell’età che avanza (al mio paese la chiamano angustia) oppure il vacillare della soglia di tolleranza alla stupidità umana. Se dovessi elencare le cose che sopporto sempre meno, rischierei di fare il post più lungo della blogosfera.

Alcune cose mi preoccupano più di altre, in particolare la società mucillagine (come l’ha definita il Censis) in cui vedo un loop bruttissimo in cui i giovani sembrano intorpiditi (neanche se la prendono più di tanto se additati come bamboccioni) ma che allo stesso tempo trovano sbarrate le stanze dei bottoni. Sconfortante è leggere che il 34% dei giovani 14-24 anni è in un segmento definito degli “indifferenti” dal Politecnico di Milano.  Chi non ha un nipote che ritiene Lele Mora un gran fico?

Anche Layla ha salutato l’anno appena finito con una visione grigia. E Massimo si chiede se ce la faremo.

Forse, come De Rita dice sul Corriere della Sera di oggi, occorrerebbe puntare su quel 25% della popolazione che regge il PIL, che produce, che innova. Solo che pur sentendomi orgogliosamente parte di questo quarto della nazione, mi chiedo se questo rapporto non continuerà a spostarsi in modo irrimediabile.

Tanto lo so come va a finire. Esaurita la pausa per brontolare, si riparte comunque; con lo stesso senso del dovere, con la stessa voglia di fare la cosa giusta. E spero che la bufera si porti via i furbi, i disonesti, le corporazioni e le caste.


Che paese strano è l’Italia. Ai momenti di calma piatta, penso ad esempio ad agosto dove siamo rimasti una delle poche nazioni al mondo a bloccare di fatto l’economia, affianchiamo i momenti di fuoco come le ultime settimane di dicembre.

Proprio non riusciamo a pianificare il business. Sembriamo tanti fiori, bellissimi per carità, ma rassegnati a muoverci tutti insieme in base a conquetidini palesemente vetuste se raffrontate col resto del mondo.

E così giù come matti a cogliere i residui dei budget (ovviamente non impegnati finora perché “non si sa mai”), oppure a presentare alle direzioni i progetti stategici per il 2008 che pare possano essere discussi tassativamente solo in queste poche ore che mancano alla fine dell’anno.

(Si è capito perché non scrivevo sul blog da parecchi giorni?)

A gennaio tutto si sgonfierà, la furia e la tensione si saranno sciolte insieme ai panettoni e questo paese riprenderà (lentamente, mi raccomando) a lavorare. Certo, non prima di metà gennaio perché occorrerà tempo per riprendersi dalle vacanze…

E non me ne voglia Bassetti. Se è vero che potremmo esportare e condividere globalmente “l’italicità”, abbiamo anche tante cose ancora da imparare.


Ad un semaforo mentre andavo a Fiumicino, anziché i lavavetri c’erano dei giocolieri. Hanno fatto un po’ di evoluzioni con i birilli, creando apprensione tra gli automobilisti in prima fila. Poi il passaggio col cappello per racimolare qualche moneta. Una ragazza dai capelli arruffatti e sporchi ha sfoggiato un sorriso divertito e intenso.

Sabato scorso ho avuto visite a casa. Grata divelta, telefono staccato, sirena dell’antifurto schiumata. Rovistati cassetti e armadi in cerca di gioielli (purtroppo già andati per via di un altro furto anni fa). Un po’ di danni, ma non hanno portato via niente, se non la nostra tranquillità già troppo spesso messa a dura prova.

Spero ci sia una possibilità concreta di poter dare da vivere a persone sfortunate in cerca di un paese migliore del loro. Ma non possiamo permettere che ciò abbassi ulteriormente il livello di vita nel nostro paese, soprattutto in termini di sicurezza.

Il tiolo del post, per i più giovani, è il nome di una canzone di Claudio Lolli degli anni 70 più o meno.


Ebbene si: anche mia figlia si diverte con Stardoll ed ha imparato velocemente trucchi e trucchetti per aumentare i sui crediti con i quali acquista accessori per il guardaroba del suo avatar. Per ora non ha speso soldi veri, anche se ogni tanto vorrebbe farlo.

Adesso sono disponibili pure i buoni regalo, per cui si può far dono di una gift card prepagata. Non oso pensare al momento in cui decidesse di chiederla (e quindi di spiegarla) ai nonni…

Giustamente Matthew Nelson su ClickZ si chiede: se te compri una carta che non vale denaro vero, la regali a tua figlia così che possa comprare vesisti virtuali ma con dollari reali, gli stai realmente insegnando il giusto atteggiamento nei confronti del denaro? O stai solo cercado di essere cool?

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Oggi ho dato una risposta ad un cliente che, mi rendo conto, può apparire piuttosto disarmante. La richiesta riguardava di illustrare alcuni casi di successo nel settore del viral marketing.

Mi è venuto da dire che i casi di successo servono solo per capire quali iniziative sicuramente NON funzioneranno (nel senso che i cloni di un’idea originale quasi sempre falliscono) e, nel contempo, non ci sono procedure standard che permettano di prevedere il successo nei social network.

Insomma: se si guardano solamente le iniziative sulla bocca di tutti, sembra tutto così facile da realizzare. Uno spot dell’epoca Carosello recitava: “semmmbra facile…”


Concludo il tris di post (qui il primo ed il secondo) dedicato al tema “human content everywhere”, per analizzare più da vicino il problema del rumore nei blog, in particolare per quanto riguarda i commenti offensivi, fuori tema o brutalmente idioti come li definisce il Prof. Epifani (@Stefano: ti leggo, ti leggo ) che rilancia il problema: che fare?

Ho già scritto della  responsabilità dell’autore del blog in primis, per cui non ci torno su, se non per affermare che dovrebbe essere sempre compito del blogger tenere un po’ d’ordine nei commenti. Cancellare lo spam, ad esempio, è una dimostrazione di attenzione nei confronti dei lettori, oltre alla testimonianza che i commenti… vengono effettivamente letti!

Nel contempo non serve pignoleggiare più di tanto. Qualche post che, diciamo così, scatena un po’ di disordine lessicale, si può tollerare. Specie su quei siti che non obbligano a registrazioni particolari per poter commentare, fatto che va visto positivamente, sapendone sopportare gli eventuali scompensi.

Il mio lato ottimistico (quello che di solito prevale), mi fa sperare che la maturazione nell’uso degli strumenti di comunicazione digitale potrà, nel tempo, attenuare i toni e stimolare un maggior senso di responsabilità comune. Penso inoltre che l’anonimato nelle discussioni, seppur legittimo di norma, sarà guardato sempre più con maggior diffidenza e con scarsa considerazione. A proposito, guardate il tool che ha scoperto Franco per scovare l’origine delle modifiche anonime fatte su Wikipedia.

Tuttavia, è necessario anche osservare che forum e commenti nei blog sono un palcoscenico bello e pronto per tanti deficienti che, in buona o cattiva fede, scatenano strali oggettivamente offensivi, almeno se consideriamo il “comune buon senso”. Riuscirà la Rete a trovare modelli di aggiustamento che mantengano il rapporto contenuti/rumore a favore dei primi? Io scommetto di si.


Lo spunto della prima parte di questo post è stata l’apertura ai commenti nelle notizie pubblicate su Google News, l’ennesimo spazio a disposizione delle persone che contribuisce a sviluppare lo scenario che ho definito “human content everywhere”. Il problema è che gli user generated content, specie quando vanno ad alimentare i commenti nei blog, scadono qualche volta in toni scurrili, offensivi e oggettivamente di scarso significato.

Alcuni lo chiamano “rumore”, altri lamentano quella che a loro pare una scarsa qualità dei contenuti presenti sui blog; c’è poi chi scade in derive generaliste secondo cui internet dovrebbe essere chiusa del tutto perché piena di robaccia. Paolo pensa che in taluni casi potrebbe aver senso chiudere del tutti i commenti e, in effetti, a leggere sfilze interminabili di insulti e offese ci si domanda che valore possano avere.

Io non ho risposte definitive, cerco però di costringermi a guardare alle persone dietro i contenuti. E penso a situazioni simili fuori dalla Rete. È come andare allo stadio con i propri figli e trovarsi in mezzo a tifosi esagitati che sfoggiano bestemmie come coriandoli. Come si fa in questi casi? Se si è “di bocca buona”, meglio vedersi la partita in TV, altrimenti si cerca di tollerare, magari scegliendo un settore dello stadio con meno probabilità di beccare ultras troppo ultra. Che ne dite, sta in piedi il paragone?

Forse dobbiamo sviluppare nuove metriche di giudizio sui contenuti online, perché fino ad oggi semplicemente non esistevano tutti questi contributi sviluppati da persone qualsiasi. Occorre anche una nuova diplomazia per gestire le situazioni più difficili ed un rinnovato concetto di responsabilità. I gestori del blog per primi devono chiarire (ed applicare) le regole su come vengono gestiti i commenti e, nel contempo, devono sviluppare un ambiente che favorisca una conversazione civile. È come avere ospiti e accoglierli in una casa disordinata: come biasimare l’ospite che si allunga sul divano e che magari si toglie pure le scarpe?

In ogni caso, la domanda che trovo fondamentale è: vogliamo davvero una Rete fatta solo di persone pettinate? O vogliamo anche i calvi? Hey, siamo disposti ad accettare i capelloni, i rasta ed i tatuati? Su questo non ho riserve: che tutti possano sempre esprimersi anche nel modo più sballato del mondo. Per questo sono disposto ad accettare il conseguente inevitabile rumore, imparando nel contempo a sviluppare atteggiamenti e tattiche che possano attenuare il problema. Sono confidente sull’intelligenza umana e sul conseguente sviluppo di un’etichetta diffusa. Ci vorrà un po’ di tempo e pazienza, ma ne vale la pena.

D’altronde quale sarebbe lo scenario contrario? Sottostare a regole che dividano tra buoni e cattivi? Definire delle leggi sui comportamenti da tenere su internet? No, per favore, no. Il buon senso non è mai stato legiferato, che sappia io.

In ogni caso il problema del rumore resta, in particolare a riguardo dei commenti sui blog. E allora? Mi sa che ci vorrà una terza parte (prometto, sarà l’ultima ); stay tuned!


Franco Folini ha raccolto una bella intervista su blog di Novedge a Andrew Keen, l’autore di “The Cult of the Amateur”. Con il suo libro, Keen ha messo in discussione la qualità e l’autorevolezza complessiva dei blog, attirandosi parecchi strali polemici.

In effetti il suo libro è in lista tra quelli che contavo di leggere, soprattutto perché volevo capire un punto di vista piuttosto diverso dal mio. La conversazione di Keen con Franco è interessante e ci sono delle riflessioni che condivido, ma in linea generale trovo che il suo approccio sia sbagliato perché, rispetto ai blog, si pone i soliti due problemi di chi guarda solo la superfice del fenomeno:

  1. la qualità media dei blog è penosa
  2. la quasi totalità dei blog non ha un modello economico sostenibile

Risposta sintetica con un doppio: “e allora?”.

Chi si preoccupa della qualità dei blog, semplicemente non apprezza il fatto che ne esistono migliaia decisamente validi ed interessanti (a me bastano questi, il problema semmai è per gli altri blog), non conosce la capacità delle persone di fungere da filtri in grado di evidenziare solo quello che funziona, non capisce la necessità di sviluppare un approccio più disincantato verso i contenuti: ce ne sono tantissimi e questa è un’ottima cosa (almeno rispetto alla situazione contraria), per cui la preoccupazione deve essere quella di saper scovare le informazioni utili e ignorare velocemente tutto il resto.

Sulla sostenibilità economica dei blog, ci sono ormai fior di considerazioni sull’economia del dono per cui non mi dilungo. Spero solo che possano esserci sempre più individui che abbiano voglia di tenere un blog e che lo facciano senza preoccuoparsi (solo) di farci soldi. Ne voglio tanti, di qualsiasi tipo, scritti da teenager e da novantenni, scrittori professionisti e aculturati illitterato. Sento semplicemente il bisogno di ascoltare le persone e non più semplicemente i media.


Franco Folini ha raccolto una bella intervista su blog di Novedge a Andrew Keen, l’autore di “The Cult of the Amateur”. Con il suo libro, Keen ha messo in discussione la qualità e l’autorevolezza complessiva dei blog, attirandosi parecchi strali polemici.

In effetti il suo libro è in lista tra quelli che contavo di leggere, soprattutto perché volevo capire un punto di vista piuttosto diverso dal mio. La conversazione di Keen con Franco è interessante e ci sono delle riflessioni che condivido, ma in linea generale trovo che il suo approccio sia sbagliato perché, rispetto ai blog, si pone i soliti due problemi di chi guarda solo la superfice del fenomeno:

  1. la qualità media dei blog è penosa
  2. la quasi totalità dei blog non ha un modello economico sostenibile

Risposta sintetica con un doppio: “e allora?”.

Chi si preoccupa della qualità dei blog, semplicemente non apprezza il fatto che ne esistono migliaia decisamente validi ed interessanti (a me bastano questi, il problema semmai è per gli altri blog), non conosce la capacità delle persone di fungere da filtri in grado di evidenziare solo quello che funziona, non capisce la necessità di sviluppare un approccio più disincantato verso i contenuti: ce ne sono tantissimi e questa è un’ottima cosa (almeno rispetto alla situazione contraria), per cui la preoccupazione deve essere quella di saper scovare le informazioni utili e ignorare velocemente tutto il resto.

Sulla sostenibilità economica dei blog, ci sono ormai fior di considerazioni sull’economia del dono per cui non mi dilungo. Spero solo che possano esserci sempre più individui che abbiano voglia di tenere un blog e che lo facciano senza preoccuoparsi (solo) di farci soldi. Ne voglio tanti, di qualsiasi tipo, scritti da teenager e da novantenni, scrittori professionisti e aculturati illitterato. Sento semplicemente il bisogno di ascoltare le persone e non più semplicemente i media.


Privacy International è un’organizzazione inglese che da una quindicina di anni indaga sulle violazioni dei dati privati. Un loro report di inizio giugno (qui il PDF) classifica i meno rispettosi della privacy e, tra questi, Google è al primo posto tra le 22 aziende analizzate.

Chiara Sottocona sul Corriere Economia di oggi (allegato al Corriere della Sera) riprende la ricerca di Privacy International, raccogliendo anche la voce di Google  e quella del sottoscritto. Il virgolettato (non mio) con cui titola l’articolo è forte: “Il vostro motore di ricerca è il vero grande fratello”.

Il mio punto di vista è netto:

  • Mi sembra evidente che la quantità dei dati personali che gestisce Google, inclusi quelli non direttamente lasciati dalle persone ma comunque desumibili, sono tantissimi e probabilmente in quantità e qualità superiore a quelli raccolti da qualsiasi altra azienda.
  • È anche evidente che l’utilizzo di tali informazioni si basa sul rapporto fiduciario tra le persone e Google, rapporto evidentemente ottimo fino a questo punto.
  • Trovo fondamentale che gli individui siano informati e consapevoli di come vengono memorizzati e utilizzati i loro dati, per cui ben vengano le occasione di dibattito come auspicato da Stefano Hesse (PR manager di Google Italia).

Insomma: nessuna corsa a fare dietrologia, ma l’invito a far girare le informazioni. Poi ognuno farà le sue scelte e dovrà essere libero e consapevole di consegnare le informazioni sulla sua vita a qualcuno oppure no.


Riflessioni sparse raccolti durante (l’ottimo) Web2.Oltre:

  • Sta finendo l’era del “reparto customer care” (Rossanigo di Microsoft), nel senso che non è più perseguibile la strategia del ricondure la gestione dei problemi ad un call center, mentre è invece auspicabile che siano tutte le persone dell’azienda le quali, ognuna in funzione del suo ruolo, possano fungere da front line nei confronti dei consumatori.
  • Assumete le persone che usano i tool 2.0 (Shuster di SystemOne) perché probabilmente hanno già assimilato il feeling con la modernità, con la condivisione, con questo tipo di networking.
  • La diffusione delle applicazioni web 2.0 avviene passando dalle persone e non dai reparti IT (Nolan di Teqlo).
  • In aggiunta alla classica catalogazione dei contenuti, tipicamente sviluppata attraverso database suddivisi scondo criteri gerarchici, si parla di “information data” Nolan di Teqlo), termine che riguarda non il significato del contenuto ma chi legge e cosa legge, aggiungendo quindi un livello esterno che ne aumenta (e spesso ne caratterizza) il senso.

(Lo so che devo ancora scrivere di Interact e dei Media Angency Days, ma in un convegn come Web2.Oltre era d’uopo fare live blogging).

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Per una volta voglio fare il garantista, anche di quei publisher di contenuti borderline che, quando si pensa agli advertiser online, vengono additati come “i cattivi” (avete presente il vero significato dell’acronimo PPC no? Pills, Porn, Casino! ).

Insomma il tema è quello dei siti che vendono link a pagamento e che per tale ragione vengono penalizzati da Google nel ranking. L’argomento, già emerso in un post di Matt Cutts, è tornato alla ribalta perché lo stesso Cutts va ad esplicitare meglio il Google-pensiero, aggiornando il suo post iniziale. Riprendendo l’analisi sintetica di Danny Sullivan, praticamente uno dei punti è:

“Examples given of bad paid links include those that have links to pages that are not related and pages hiding the fact that they are paid links”

Il che significa che se ospitate un link a pagamento non attinente ai contenuti della pagina, potreste essere penalizzati da Google. Ovviamente, nel suo post Cutts fa gli esempi più eclatanti, ad esempio un sito dedicato a Linux che ospita link a siti di Casino. No dico, e allora?

Ma sono stupido io oppure ci si scorda che la stragrande maggioranza dei portali italiani, ad esempio, ha link a pagamento in tutte le pagine? E per questo non meritano di essere nell’indice di Google? E poi come mai potrà fare Google a indicare le guidelines per cui una pubblicità è considerata attinente o meno?

Ovviamente ogni motore di ricerca può censire chi gli pare e penalizzare chi vuole. Ma allora non mi si dica più che si vogliono fare gli intreressi delle persone, perché il vero motivo per cui scattata la caccia ai “siti con i link cattivi” è solo perché non sono link che gestisce Google.

Altrimenti dovrebbero penalizzare anche tutti i siti che ospitano AdSense per tutte le volte che espone un link a pagamento dove l’algoritmo che dovrebbe contestalizzare la pubblicità, non riesce a farlo, o no?

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Leggo su eMarketer che secondo la ricerca “Global Content Survey 2007″ condotta da Accenture, la metà dei manager di aziende media e entertainment ritiene che gli user generated content saranno il loro principale problema in termini di ricavi. Un terzo di questi però ritiene che entro tre anni potrà generare business dai contenuti generati dagli utenti, anche se il 25% non sa come questo potrà accadere.

Non sono d’accordo sul fatto che gli editori potranno contare sulla monetizzazione degli UCG. C’è una realtà importante: i contenuti che generano gli individui sono tanti e non smetteranno di diminuire. E solo per il fatto statistico che l’abbondanza spalma l’attenzione, chi produce contenuti per mestiere, troverà una quantità di competitor che oggi è ancora marginale.

I media riusciranno a inglobare tali contenuti “dal basso” in gabbie pubblicitarie? Mah, non ne sono molto convinto. Anche perché cambiano le metriche che originano tale contenuto: non è più materiale prodotto e remunerato per denaro ma per mille ragioni diverse, che vanno ricercate nelle individualità delle decine di milioni di persone che pubblicano qualcosa sul web.

Piuttosto, vedo proliferare delle operazioni che creano delle vetrine, dei palcoscenici per chi ha voglia di prudurre contenuti. Quello che si baratta è la visibilità per l’autore in cambio di materiale utile per confezionare un prodotto editoriale brandizzato da qualche azienda che tipicamente NON fa l’editore di mestiere. Luisa Carrada ne segnala un paio interessanti: Coop for words e un vino che allega mini racconti noir sulle bottiglie. 

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Un caro amico, manager di una compagnia finanziaria, di risposta al più classico dei “Come va?”, ha espresso uno sconsolato “Va tutto bene, il mio solo nemico è il tempo!”

E torniamo all’argomento “tempo”. Il mio amico lo vede in modo conflittuale perché è consapevole del fatto non si riesce dominare  e perché, quando si presenta un imprevisto, ci si trova perennemente in una situazione che è già di rincorsa a deadline più o meno scadute.

Gli ho controbattuto che il vero nemico sono le interruzioni ed il tempo che serve a rientrare in concentrazione e, ancor di più, l’incapacità diffusa delle persone di assegnare e gestire le priorità. E poi sono partito con una filippica su quanto trovo assurdo che in molti (specie i più giovani) sprecano il tempo che hanno a disposizione. Per “sprecare”, qui intendo la gestione disordinata delle cose da fare, col risultato che sono gli eventi a gestire la loro vita e non il contrario.

Per un attimo mi è sembrato di fare un discorso di quelli che a 20 anni si etichettano come “pallosi” (o anche con epiteti peggiori), però guardandomi attorno sento di potermi confrontare con chiunque abbia trenta anni meno di me in quanto a efficienza.

Il tempo va rispettato. Quello proprio e quello degli altri. È come l’acqua: indispensabile per vivere e risorsa sempre più scarsa. Ci fate caso che un’espressione sempre più frequente è “Grazie per il tempo che mi hai dedicato”?


Un fattore che avevo sottovalutato in merito a DoubleClick, riguarda le informazioni che vengono gestite dai loro tool. Non solo indicazioni sui navigatori online e sui publisher clienti di DoubleClick, ma anche riguardo a tutti i principali editori online. Vediamo perché.

Come è noto, i sistemi DoubleClick permettono ai grandi siti di gestire la pubblicità che viene esposta sulle loro pagine. Ma i clienti di DoubleClick sono anche le agenzie ed i centri media, che lo utilizzano per fare il tracking delle maggior parte delle campagne online, comprese quelle pianificate su siti che non utilizano questa applicazione.

In pratica, acquisendo DoubleClick, Google avrà a disposizione moltissimi dati sulle principali campagne pubblicitarie online effettuate su migliaia di siti web, compresi ovviamente tutti i suoi competitor, ivi incluse informazioni sulla loro audience. Mmmm… in effetti suona un po’ strano.

Chiudo segnalando un articolo su ZDNet che parla di privacy boomerang.

Poi prometto di stare zitto sull’argomento per un po’

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Nessuno mi aveva dato (finora) dell’hub. Lo fa Giorgio su Marketingarena a mo’ di esperimento, comparando gli hub aereoportuali a quelli delle comunità online e attribuendo tale attributo al mio blog.

In linea di principio condivido il punto di vista a riguardo dell’importanza dei nodi di scambio, sia nella vita fisica che nelle relazioni digitali. Solo che a proposito di blog, ed in generale a riguardo dei contenuti online, temo che le conclusioni siano differenti. Riprendendo l’esempio di Giorgio, l’importanza degli hub aereoportuali è dovuta a vincoli e opportunità di tipo fisico, economico, ecc. ove determinate risorse (come lo spazio) sono finite. Inceve, a proposito di contenuti digitali, non solo lo spazio è virtualmente illimitato, ma è totalmente diverso il numero di hub potenziali perché praticamente uguale al numero degli utenti internet.

Da ciò deriva una elevata dinamicità delle sorgenti di contenuti (che siano portali, blog o altro) ed un continuo processo selettivo darwiniano. Non ci sono “blog da salvare” come scrive Giorgio perché, cinicamente, per uno che scompare ci sono quasi sempre un paio di alternative a distanza di un click.


Nessuno mi aveva dato (finora) dell’hub. Lo fa Giorgio su Marketingarena a mo’ di esperimento, comparando gli hub aereoportuali a quelli delle comunità online e attribuendo tale attributo al mio blog.

In linea di principio condivido il punto di vista a riguardo dell’importanza dei nodi di scambio, sia nella vita fisica che nelle relazioni digitali. Solo che a proposito di blog, ed in generale a riguardo dei contenuti online, temo che le conclusioni siano differenti. Riprendendo l’esempio di Giorgio, l’importanza degli hub aereoportuali è dovuta a vincoli e opportunità di tipo fisico, economico, ecc. ove determinate risorse (come lo spazio) sono finite. Inceve, a proposito di contenuti digitali, non solo lo spazio è virtualmente illimitato, ma è totalmente diverso il numero di hub potenziali perché praticamente uguale al numero degli utenti internet.

Da ciò deriva una elevata dinamicità delle sorgenti di contenuti (che siano portali, blog o altro) ed un continuo processo selettivo darwiniano. Non ci sono “blog da salvare” come scrive Giorgio perché, cinicamente, per uno che scompare ci sono quasi sempre un paio di alternative a distanza di un click.


Un vecchio detto suonava più o meno così:

Basta parlare di buoni propositi: eseguili e basta!

È così che vedo l’argomento “codice etico dei blog”, almeno per quanto riguarda questo blog. Non mi pongo delle regole aprioritaristiche, se non quelle del buon senso. E proprio perché frutto del buon senso, perché doverle enunciare? Ci sono quasi quattro anni di post che li esprimono.

Sarà che sono allergico verso gli atteggiamenti che cercano di normare e regolamentare tutto e tutti (lo so, l’ho già scritto altre volte), ed anche nell’esasperazione di sciorinare un manifesto per ogni occasione, per cui un codice per i blog mi sembrerebbe come invitare degli amici a casa anticipandogli come sarò vestito, che cibo verrà servito, quello di cui si parlerà e quello che sarà evitato, ecc. Tanto lo vedranno lo stesso, no? E solo in base all’esperienza diretta decideranno se tornare o meno. Così come proprio dalle loro facce annoiate o divertite, adeguerò il prossimo invito.

Certo, c’è il tema della responsabilità dei commenti che è più delicato. In questo blog ho messo due righe accanto al form in cui si inseriscono, specificando:

L’autore del commento si assume la responsabilità dei contenuti del commento stesso. I commenti ritenuti offensivi o non attinenti potranno essere cancellati.

Il che significa che cancello spam e bieca pubblicità. Fino ad oggi non sono dovuto mai intervenire in censure di contenuti offensivi o controversi, ma sento che sta a me intervenire per sedare eventuali risse verbali al fine di rimanere entro determinati confini di forma e sostanza. Ed in genere prediligo quei blog che curano la “pulizia degli ambienti” (tanto per rimanere nella metafora dell’invito degli amici a casa)

E quelli che lasciano i commenti a briglia sciolte? Quelli che se ci capita, per dire, mio figlio, permettono di farsi una completa cultura di ingiurie? Temo che ci tocca tenerseli, evitandoli o maturando la capacità di ignorare inpunemente la robaccia che vi incrociamo. Obbligo di identità dei commenti? Regole comportamentali? No, per favore.

I link ad altre discussioni online su questo argomento li riporta Luca.