Archivio: “Riflessioni”

Un vecchio detto suonava più o meno così:

Basta parlare di buoni propositi: eseguili e basta!

È così che vedo l’argomento “codice etico dei blog”, almeno per quanto riguarda questo blog. Non mi pongo delle regole aprioritaristiche, se non quelle del buon senso. E proprio perché frutto del buon senso, perché doverle enunciare? Ci sono quasi quattro anni di post che li esprimono.

Sarà che sono allergico verso gli atteggiamenti che cercano di normare e regolamentare tutto e tutti (lo so, l’ho già scritto altre volte), ed anche nell’esasperazione di sciorinare un manifesto per ogni occasione, per cui un codice per i blog mi sembrerebbe come invitare degli amici a casa anticipandogli come sarò vestito, che cibo verrà servito, quello di cui si parlerà e quello che sarà evitato, ecc. Tanto lo vedranno lo stesso, no? E solo in base all’esperienza diretta decideranno se tornare o meno. Così come proprio dalle loro facce annoiate o divertite, adeguerò il prossimo invito.

Certo, c’è il tema della responsabilità dei commenti che è più delicato. In questo blog ho messo due righe accanto al form in cui si inseriscono, specificando:

L’autore del commento si assume la responsabilità dei contenuti del commento stesso. I commenti ritenuti offensivi o non attinenti potranno essere cancellati.

Il che significa che cancello spam e bieca pubblicità. Fino ad oggi non sono dovuto mai intervenire in censure di contenuti offensivi o controversi, ma sento che sta a me intervenire per sedare eventuali risse verbali al fine di rimanere entro determinati confini di forma e sostanza. Ed in genere prediligo quei blog che curano la “pulizia degli ambienti” (tanto per rimanere nella metafora dell’invito degli amici a casa)

E quelli che lasciano i commenti a briglia sciolte? Quelli che se ci capita, per dire, mio figlio, permettono di farsi una completa cultura di ingiurie? Temo che ci tocca tenerseli, evitandoli o maturando la capacità di ignorare inpunemente la robaccia che vi incrociamo. Obbligo di identità dei commenti? Regole comportamentali? No, per favore.

I link ad altre discussioni online su questo argomento li riporta Luca.


In due righe a proposito delle conversazioni online, Giuseppe sintetizza perfettamente tutto:

“la libertà consiste nel discutere sul tema e che la violenza inizia laddove si comincia a discutere delle persone. E’ quello il primo bivio che porta a trascendere il rispetto”


In due righe a proposito delle conversazioni online, Giuseppe sintetizza perfettamente tutto:

“la libertà consiste nel discutere sul tema e che la violenza inizia laddove si comincia a discutere delle persone. E’ quello il primo bivio che porta a trascendere il rispetto”


Mi è scappato un commento di getto sul blog di IAB e siccome Cocomments ha fatto ancora cilecca (possibile che non ci sia ancora niente di meglio?). Lo riporto qui perché il tema che pone Cristiano è importante:

“non credete che esista una frattura tra le web agency, formate per lo più da tecnici, e il cliente/impresa che ha la necessità di capire come fare a trarre profitto dalla rete??
Ergo… la figura del consulente di vendita come la vedete o meglio… sono disposte le aziende web ad investire su una rete vendita??”

Cristiano, la frattura, come la chiami te si sta riducendo sempre di più e chi continua a trattare il web come uno strumento puramente tecnologico in luogo di un ambiente di comunicazione rimarrà sempre ai margini del mercato (o cambierà mestiere).

Sempre più spesso vedo che le web agency hanno prevalentemente skill di marketing e comunicazione, piuttosto che tecnici. E l’approccio vincente è proprio quello di considerare la Rete non (più) come un attrezzo tecnologico ma come un canale da inserire direttamente nel marketing mix (e non nel CED…).

Il mio punto di vista è che internet non si vende, ma si progetta, si spiega, si personalizza, si costruisce col cliente. E te lo dice uno che gestiva una rete commerciale di oltre 100 persone prima che esistesse il web e che insegna (anche) tecniche di comunicazione e vendita.

E le aziende ne hanno (giustamente) piene le scatole di chi vende servizi internet come se fossero robe stand-alone, isolate, come se potessero vivere di vita propria. Certo ci vogliono competenze strategiche nell’affrontare la Rete in questo modo e ritengo che proprio in questo ambito il mercato premierà chi ha da raccontare “progetti di comunicazione” e non un listino prezzi di servizi web pacchettizzati.


Ma guarda che domanda ti va a fare Massimo:

“come mai secondo voi i blog italiani piu’ letti hanno al massimo qualche migliaio di lettori?”

Ho risposto nei commenti e approfondisco qui.

Concordo con chi ha sottolineato nei commenti che “un migliaio di lettori” non è cosa da poco, specie per i blog in italiano. Mediamente il rapporto tra i più letti tra quelli in lingua inglese e i nostri è in un range tra 10 e 20 volte, giustappunto la relazione tra gli internauti italiani rispetto a quelli globali.

Gli elementi di valutazione sono comunque più d’uno. Provo a schematizzarne alcuni:

  • l’attenzione (specie quella online) sarà sempre più parcellizzata; ci sarà un po’ meno traffico per un numero maggiori di soggetti;
  • i blog sono principalmente prodotti editoriali destinati a audience settoriali e quindi limitate numericamente;
  • seppure anche in Italia sembra ci sia il raddoppio del numero di blog ogni 6 mesi, ancora non si raggiunge una massa critica tale da considerarli mezzo “popolare”;
  • la fruizione di contenuti passa ancora per la maggior parte attraverso dei filtri editoriali: l’apprezzamento per i tanti blogger-signori-nessuno (con tutto il rispetto) sarà lento da sviluppare e, in ogni caso riguarderà solo una parte (non maggioritaria) delle persone.

Aggiungo che esiste un limite direi fisiologico oltre il quale il blog se vuole diventare prodotto di massa, perde alcune sue connotazioni basilari, prima su tutte la relazione del suo autore con il resto della blogosfera. Sappiamo difatti che un blog acquista spessore e considerazione anche in funzione del suo contributo al di fuori di esso, riprendendo e partecipando alle discussioni “in giro”. Ma quando lo si inizia a vedere come mezzo destinato a un pubblico esteso (che so, mezzo milione di individui), la faccenda si complica e, in genere, si torna al vecchio paradigma del media monodirezionale. 

Infine: sono proprio i blog che ci insegnano che la quantità è una metrica spesso desueta. Quando si vanno a verificare i costi/benefici di un blog (che sia personale o aziendale) salta sempre fuori quanto la vera metrica da studiare è la qualità dell’audience che si raggiunge. O no?

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A chi è interessato alle ipotesi legate alla direzione che potrebbe prendere  Microsoft per contrastare Google nel business del search, segnalo un articolo che ipotizza alcune delle diverse strade percorribili. Non a caso il pezzo arriva da una rivista online di Seattle e va a raccogliere le suggestioni di alcuni esperti.

Qualche giorno fa John Battelle suggeriva a Microsoft e Yahoo! di fare uno spin-off dei loro rispettivi servizi di search e riunirli in una nuova azienda.

Non mi sento di fornire delle indicazioni approfondite, soprattutto quelle che riguardano possibili legami con Yahoo!. Sento però che l’unico modo NON può essere quello di contrastare Google SOLO sul search. Ricordo ne parlai proprio a Redmond già un paio di anni fa e condivisi questo concetto anche con Robin Good. Penso al libro Oceceano Blu: possibile che non trovino un modo per (tentare di) cambiare lo scenario competitivo?


Stavo rimettendo un po’ di ordine negli appunti presi durante il Search Engine Strategies di Londra ed è spuntato un foglio su cui ho annotato alcuni spunti emersi nelle sessioni dedicate al News Search e da una chiacchierata con Greg Jarboe di SEO-PR col quale ho l’onore di condividere una grande stima reciproca. Vado con gli appunti senza un particolare odine logico:

  • Sono le persone che decidono cosa è una news, perché ormai sono in grado di crearsi il proprio palinsesto informativo
  • Le press release dovrebbero essere scritte pensando alle persone come destinatari e non più solo ai giornalisti
  • Le public relation sono arte e scienza: l’arte è quella con la quale si compone  la forma ed il contenuto, la scienza serve per guidare la diffusione e la fruizione attraverso i media digitali

Greg mi raccontava di un suo cliente per il quale hanno distruibuito un comunicato stampa lo scorso dicembre. Il coverage è stato buono con svariate citazioni su riviste online (con tanto di link al sito del cliente). Un giornalista, oltre a scriverne su una rivista online, ne ha parlato successivamente anche sul suo blog personale. Ebbene, le visite scaturite dal blog sono state SEI volte quelle arrivate dal sito della rivista.

È un periodo che mi trovo spesso a parlare o scrivere di PR (uscirà peraltro un mio controeditoriale abbastanza provocatorio sul prossimo NetForum). Cerco di non parlare più di tanto di cose che non conosco e riguardo le public relation non posso certo definirmi un esperto. Però trovo incredibili le mutazioni in atto in questo comparto, quasi tutte con implicazioni che riguardano la Rete. E allora mi scappa proprio di dire la mia…


Ci sono cose mi irritano: una di queste riguarda i trucchetti e gli artifici inventati dai pubblicitari sui media tradizionali. Non so voi, ma io mi sento preso per i fondelli a leggere scritte che scorrono velocissime sotto uno spot TV, oppure frasi accellerate dette in coda ad un jingle in radio che suonano buffe quanto ridicole. A volte si intuisce un “leggere attentamente…” ma poi si perde tutto il resto, oppure si percepisce un vago “non somministrare…ecc.ecc.” letto da un marziano o evidentemente accellerato artificialmente. Per non parlare del mitico “autminconc” in coda agli spot che prevedono un concorso: l’avete mai sentito?

Il punto è che ci sono degli obblighi normativi che impongono determinate indicazioni e disclaimer. Ma gestiti in questo modo sono solo una presa in giro. Punto. Purtroppo c’è la solita consuetudine di legiferare e basta e non di verificare l’applicabilità e l’efficacia dei provvedimenti.

Ricordiamo inoltre che da mesi si parla di vietare l’assurda pratica di alzare il volume degli spot in TV. Saranno pure mass-media, ma sarebbe ora che queste masse siano trattate non come un branco di deficienti. E se lo dice uno che, alla fine, si occupa (anche) di pubblicità…

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Ci sono cose mi irritano: una di queste riguarda i trucchetti e gli artifici inventati dai pubblicitari sui media tradizionali. Non so voi, ma io mi sento preso per i fondelli a leggere scritte che scorrono velocissime sotto uno spot TV, oppure frasi accellerate dette in coda ad un jingle in radio che suonano buffe quanto ridicole. A volte si intuisce un “leggere attentamente…” ma poi si perde tutto il resto, oppure si percepisce un vago “non somministrare…ecc.ecc.” letto da un marziano o evidentemente accellerato artificialmente. Per non parlare del mitico “autminconc” in coda agli spot che prevedono un concorso: l’avete mai sentito?

Il punto è che ci sono degli obblighi normativi che impongono determinate indicazioni e disclaimer. Ma gestiti in questo modo sono solo una presa in giro. Punto. Purtroppo c’è la solita consuetudine di legiferare e basta e non di verificare l’applicabilità e l’efficacia dei provvedimenti.

Ricordiamo inoltre che da mesi si parla di vietare l’assurda pratica di alzare il volume degli spot in TV. Saranno pure mass-media, ma sarebbe ora che queste masse siano trattate non come un branco di deficienti. E se lo dice uno che, alla fine, si occupa (anche) di pubblicità…

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Chiamatela pure autoreferenzialità (ammesso che si riesca a dire velocemente senza sbagliare, dai, riprova a-u-t-o-r-e-f-e-r-e-n-z-i-a-l-i-t-à), però il modo col quale si muove la blogosfera mi piace proprio.

Mi piacciono i suoi ritmi: veloci, costruttivi (in genere), spontanei. Come un grande lago in cui ogni sasso che butti, grande o piccolo che sia, crea i cerchi concentrici che però sono in grado di collegarsi con i cerchi creati dagli altri sassi. Di più: ogni onda che si crea, trova pronte ad uscire dall’acqua altre creature, subito reattive ed in grado di contribuire a loro volta al gioco magico dei sassi e dei cerchi.

Vabbè, è un’immagine che ho in testa e che mi piacerebbe rappresentare se avessi un minimo di doti pittoriche. Dati che  scarseggiano, accontentatevi delle parole scritte più o meno d’istinto.

Era solo per motivare il piacere che mi fa essere qualche volta nei loop fatti da un post che commenta un’altro, il cui autore risponde dopo pochi minuti e aggiorna e approfondisce il giro a suon di trackback e link che contagia altri siti, altri blog. Succede velocemente, spontaneamente, come le reazioni naturali dei fiori che si schiudono al primo raggio del sole. Uno dopo l’altro.

Tuttavia, qualche volta il gioco dei sassi e dei cerchi appare forzato o, peggio, sembra provocato scientemente. Qualche post fa ho parlato di “assedio dai meme”: sono catene simpatiche e spesso utili, a patto che non diventino impositive. Voglio dire: a me piacerebbe ascoltare su mille cose il parere di alcune persone: una volta glielo chiedo per favore, la seconda gli propongo un caffè o un pranzo, alla terza… probabilmente rompo le scatole. O no?

Sarà che mi ritrovo a reagire come diceva una vecchia canzone di Springsteen: “When they say sit down, I stand up!” (quando mi dicono di sedermi, io mi alzo in piedi!).

Meglio quando le cose succedono da sole, anche perché… succedono!
Tu come la vedi?


Riprendo il discorso sulle ultime cose che ho imparato osservando i miei ragazzi alle prese con il messenger (qui la prima parte).

Una dozzina di anni fa tenevo delle lezioni sull’uso della posta elettronica e, oltre ad analizzare le funzioni operative di Eudora (il sw per l’email più popolare allora), mi soffermavo sul tipo di linguaggio più consono a questa forma di comunicazione. Allo stesso modo, l’uso dei messenger richiede ai neofiti un minimo di adeguamento alle consuetudini e alle funzioni tipiche dello strumento; il punto è che per un ragazzo di 12 anni ciò avviene in un quarto d’ora.

Terza lezione: lo sviluppo della sensibilità ad un nuovo strumento di comunicazione e relazione diventa quasi istantaneo e questo spiega anche la rapidità con la quale si propagano le applicazioni e, con la setssa velocità, si abbandonano per quella all’ultimo grido.

In ogni caso, tentiamo di contingentare ai ragazzi l’uso di qualsiasi schermo (che sia PC, televisione, Playstation, cellulare, e qualcuno lo dimentico) entro limiti accettabili, con risultati poco soddisfacenti peraltro. Interressante la risposta quando invitiamo a staccarsi dal messenger: “ma i miei amici sono collegati!”

Quarta lezione: c’è un ennesimo livello di comunicazione con il loro amici, basato sul fascino misterioso e intrigante della chat che conosciamo da anni, creando un dimensione potenzialmente “always on” che va a completare i già numerosi punti di contatto cross-mediali.

Penso che la maggior parte di persone usano il messenger concentrando le passioni, l’humor, le invettive o gli entusiasmi in espressioni che riprendono il linguaggio parlato oppure quello gergale. Tipicamente si scherza più via messenger che via email, no?

Quinta lezione: il messenger è un bel modo per capire il sense of humor delle persone e per verificare quanto si condivida con il proprio interlocutore. Scoprire che i propri figli fanno battute “di fino” è una cosa piacevolissima; un po’ meno quando ti scrivono “papi, questa mica fa ridere!”.

Sesta lezione: usare il messenger aggiunge un livello di comunicazione, non ne sostituisce altri. Quindi il tempo va ulteriormente parcellizzato tra le mille situazioni in cui un qualsiasi persona (teenager su tutti) si trova coinvolto. E arriva la fretta: “papi, xke non rispondi?” (scritto CINQUE secondi dopo il precedente messaggio). E poi la sintesi più bella: “TVTB” e lo smile col bacio.


Chiunque si occupi di comunicazione dovrebbe dedicare un po’ di tempo ad osservare i giovanissimi e guardare come usano i nuovi strumenti tecnologici. Se fosse per me, nelle business school farei partecipare qualche ragazzino terribile a spiegare davvero il web 2.0, i vari messenger, la comunicazione mobile, ecc. Anzi, ogni manager di ogni azienda, specie quelli che colpevolmente non passano tempo con i loro figli, dovrebbero essere “costretti” a guardare con attenzione i teenager ed il loro rapporto con i media e con i device.

Nel mio caso, da qualche giorno ho capitolato ;-) ed ho istallato il Messenger sui pc dei miei ragazzi (12 anni). Ho tentato di spiegargli alcune delle funzioni, ma dopo averli lasciati soli per una ventina di minuti, aveveno già scoperto e capito tutto, anche opzioni a me sconosciute.

Prima lezione: mi sa che la didattica impostata come “zitto e ascolta” ha fatto il suo tempo. I ragazzi sentono forte la consapevolezza del potere che gli arriva dal mouse. Provano, cliccano, sbagliano, capiscono. Si aspettano scorciatoie, trucchetti e cose cool (i miei dicono ancora “fighe”), non più una lista ordinata di concetti.

Un problema è nato quando si sono resi conto che col mio software (uso Trillian che gestisce contemporaneamente ICQ, Messenger e Yahoo!) non riesco a ricevere e visualizzare tutte le funzioni che per loro sono importantissime: trilli, icone animate, e poi giochi, messaggi audio, ecc.

Seconda lezione: la comunicazione testuale gli sta stretta. I ragazzi vogliono esprimere compiutamente dei concetti, delle emozioni, delle opinioni, rappresentandole graficamente o meglio, attraverso un mix multimediale. Non dicono più “leggi il mio messaggio”, ma “guarda/ascolta il mio messaggio”.

Man mano che scrivo mi rendo conto di aver notato e imparato molte altre cose. Ne verrebbe fuori un post lunghissimo e allora è meglio che mi fermo qui, per ora. Altre lezioni alla prossima puntata ;-)

Bastano intanto queste per fare alcune riflessioni non del tutto positive sulle young generation, riguardo l’aberrazione di tutto quello che può rientrare concettualmente in un “manuale d’uso” e, ancor peggio, l’evidente difficoltà di esprimersi attraverso le parole scritte. Sono cose che non mi entusiasmano ma ritengo fondamentale prenderne atto.


Mi piacciono le metafore. Parlando con un giornalista di ADV me ne è venuta una di quelle che poi dici: “non male!”.

Si parlava di corporate blog e di come sta cambiando la comunicazione; ebbene, la necessità di evolvere il rapporto tra azienda e persone/consumatori, l’ho semplicemente rappresentato come il passaggio dal balcone alla porta.

Alcune aziende sono sul balcone a proporre i loro messaggi alle masse, spostandosi a piani sempre più alti e quindi urlando sempre più forte. Non sentono più chi è in strada, neanche riescono a vederli bene.

E allora, che scendano a piano terra e aprano la porta dell’azienda, facendo entrare le persone, ascoltandole, parlandoci.


Durante il convegno PiùBlog di domenica, Stefano Epifani, Docente presso l’Università La Sapienza di Roma, con una felice battuta ha esclamato: “Basta di chiamare new media internet! Lo sentiamo ormai da dieci anni!”, ricevendo un applauso spontaneo.

Internet Cerca Roma 2006 A meno di 24 ore di distanza, una scena diversa: mondo istituzionale ad ascoltare la nostra ricerca Internet Cerca Roma (a brevissimo online l’aggiornamento 2006). Sono rimasto cinque minuti a pensare (prima di ribattere) sull’intervento di Livio Zoffoli, Presidente del CNIPA, che chiede maggiore trasparenza ai motori di ricerca perché gli risulta che “c’è qualcuno che influenza i risultati e mette in testa non i siti più cliccati ma chissà chi…”. Zoffoli cita il progetto italia.gov.it al quale collaborammo per un anno proprio a cercare (faticosamente) di renderlo idoneo ad essere censito sui motori di ricerca. Mi è venuta peraltro in mente che la gara per il portalone del turismo italia.it, c’era un apposito capitolo in cui si chiedeva la garanzia di figurare ai primi posti, pena l’applicazione di forti penali. Vedremo se ci riusciranno quando finalmente andrà online.

Tornando al convegno di ieri, anche nell’intervento di Santaniello (ex Vicepresidente dell’Autorità garante della privacy), arrivano gli auspici e gli inviti a normare, a regolamentare, a mettere dei paletti, a disciplinare, ecc. Poi durante il buffet le domande sono del tipo “ma i banner su Google funzionano?”, oppure, “ma a chi servono tutte queste chat, insomma… tipo i blog?”.

Ecco, quello che mi preoccupa non è la mancanza di conoscenza, peraltro legittima. Mi preoccupa un atteggiamento che non è proattivo nel voler capire, nel prendere atto di quello che “c’è là fuori” e, peggio, di tentare di ricondurre quello che non si capisce, a logiche basate su metodologie di analisi vetuste oppure, ancor peggio, a normare ove possibile.

Caro Epifani, mi sa che per alcuni internet rimarrà “new” per sempre. Figurati se poi riusciranno a cogliere la giustissima indicazione di Mario Tedeschini Lalli a PiùBlog secondi cui non ha senso parlare di “media” a proposito di internet ma di “meta-media”.

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Durante il convegno PiùBlog di domenica, Stefano Epifani, Docente presso l’Università La Sapienza di Roma, con una felice battuta ha esclamato: “Basta di chiamare new media internet! Lo sentiamo ormai da dieci anni!”, ricevendo un applauso spontaneo.

Internet Cerca Roma 2006 A meno di 24 ore di distanza, una scena diversa: mondo istituzionale ad ascoltare la nostra ricerca Internet Cerca Roma (a brevissimo online l’aggiornamento 2006). Sono rimasto cinque minuti a pensare (prima di ribattere) sull’intervento di Livio Zoffoli, Presidente del CNIPA, che chiede maggiore trasparenza ai motori di ricerca perché gli risulta che “c’è qualcuno che influenza i risultati e mette in testa non i siti più cliccati ma chissà chi…”. Zoffoli cita il progetto italia.gov.it al quale collaborammo per un anno proprio a cercare (faticosamente) di renderlo idoneo ad essere censito sui motori di ricerca. Mi è venuta peraltro in mente che la gara per il portalone del turismo italia.it, c’era un apposito capitolo in cui si chiedeva la garanzia di figurare ai primi posti, pena l’applicazione di forti penali. Vedremo se ci riusciranno quando finalmente andrà online.

Tornando al convegno di ieri, anche nell’intervento di Santaniello (ex Vicepresidente dell’Autorità garante della privacy), arrivano gli auspici e gli inviti a normare, a regolamentare, a mettere dei paletti, a disciplinare, ecc. Poi durante il buffet le domande sono del tipo “ma i banner su Google funzionano?”, oppure, “ma a chi servono tutte queste chat, insomma… tipo i blog?”.

Ecco, quello che mi preoccupa non è la mancanza di conoscenza, peraltro legittima. Mi preoccupa un atteggiamento che non è proattivo nel voler capire, nel prendere atto di quello che “c’è là fuori” e, peggio, di tentare di ricondurre quello che non si capisce, a logiche basate su metodologie di analisi vetuste oppure, ancor peggio, a normare ove possibile.

Caro Epifani, mi sa che per alcuni internet rimarrà “new” per sempre. Figurati se poi riusciranno a cogliere la giustissima indicazione di Mario Tedeschini Lalli a PiùBlog secondi cui non ha senso parlare di “media” a proposito di internet ma di “meta-media”.

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Avevo scritto velocemente del Comitato per l’informazione su internet. Vorrei qualificare meglio il mio punto di vista, stimolato anche dalle considerazioni di Andrea e di Michele (anche nei commenti qui).

Capisco la legittima diffidenza verso ogni “organo” che si autoproclami in relazione a qualcosa. E a scanso di equivoci, non c’è nessuna iniziativa specifica di “quelli di IAB”, come scrive Michele. Se dovesse nascere qualcosa, sarà comunque condivisa con le decine di aziende che partecipano all’associazione. Nè tantomeno la presunzione o l’ambizione è quella di creare un’elite di non so cosa. Lo spunto è stato esclusivamente pensato per affrontare il problema *serio* della disinformazione delle istituzioni (o almeno di una buona parte) riguardo alla Rete.

Sull’argomento “internet”, credo che nessuno possa affermare di “aver capito tutto”. Ritengo però che sia ora che anche per la Rete si applichino dei sistemi che aiutino a limitare gli interventi disordinati e pericolosi come quelli recenti del Ministro Landolfi Fioroni. Non parlo di filtri, né di bollini blu. Penso a un sistema che permetta in modo trasparente e condiviso di: a) fungere da fonte informativa oggettiva per le istituzioni che richiedano un supporto o un parere; b) rappresentare una voce (sottolineo “una voce”, non “la voce”) indipendente degli operatori e degli esperti del settore.

Internet è sempre di più un bene primario. Aiuta le nazioni a progredire economicamente e socialmente. Anche in Italia dà lavoro a decine di migliaia di persone. E non penso solo alle aziende come la mia che operano direttamente nel settore; penso soprattutto ai milioni di cittadini che usano la Rete come canale fondamentale di comunicazione e informazione; ma anche a chi lavora attraverso Ebay (e sono decine di migliaia). Sono convinto che un modo per tutelare tutto questo, deve passare necessariamente attraverso l’informazione, alzando però il livello rispetto a quanto succede ora.

E’ come se domani mattina un ministro iniziasse a dire che vuole cambiare le regole per la distribuzione dell’acqua senza avere la più pallida idea di risorse idriche, di informazioni sull’industria del settore, di accordi e best practice internazionali, ecc.

Insomma, il problema c’è. Iniziamo a discutere di come aiutare a risolverlo.


Avevo scritto velocemente del Comitato per l’informazione su internet. Vorrei qualificare meglio il mio punto di vista, stimolato anche dalle considerazioni di Andrea e di Michele (anche nei commenti qui).

Capisco la legittima diffidenza verso ogni “organo” che si autoproclami in relazione a qualcosa. E a scanso di equivoci, non c’è nessuna iniziativa specifica di “quelli di IAB”, come scrive Michele. Se dovesse nascere qualcosa, sarà comunque condivisa con le decine di aziende che partecipano all’associazione. Nè tantomeno la presunzione o l’ambizione è quella di creare un’elite di non so cosa. Lo spunto è stato esclusivamente pensato per affrontare il problema *serio* della disinformazione delle istituzioni (o almeno di una buona parte) riguardo alla Rete.

Sull’argomento “internet”, credo che nessuno possa affermare di “aver capito tutto”. Ritengo però che sia ora che anche per la Rete si applichino dei sistemi che aiutino a limitare gli interventi disordinati e pericolosi come quelli recenti del Ministro Landolfi Fioroni. Non parlo di filtri, né di bollini blu. Penso a un sistema che permetta in modo trasparente e condiviso di: a) fungere da fonte informativa oggettiva per le istituzioni che richiedano un supporto o un parere; b) rappresentare una voce (sottolineo “una voce”, non “la voce”) indipendente degli operatori e degli esperti del settore.

Internet è sempre di più un bene primario. Aiuta le nazioni a progredire economicamente e socialmente. Anche in Italia dà lavoro a decine di migliaia di persone. E non penso solo alle aziende come la mia che operano direttamente nel settore; penso soprattutto ai milioni di cittadini che usano la Rete come canale fondamentale di comunicazione e informazione; ma anche a chi lavora attraverso Ebay (e sono decine di migliaia). Sono convinto che un modo per tutelare tutto questo, deve passare necessariamente attraverso l’informazione, alzando però il livello rispetto a quanto succede ora.

E’ come se domani mattina un ministro iniziasse a dire che vuole cambiare le regole per la distribuzione dell’acqua senza avere la più pallida idea di risorse idriche, di informazioni sull’industria del settore, di accordi e best practice internazionali, ecc.

Insomma, il problema c’è. Iniziamo a discutere di come aiutare a risolverlo.


Anche questa volta l’Italia si distingue. Tanti anni fa sequestravano le BBS per cercare non si sa cosa, oggi perquisiscono la sede italiana di Google (l’Ansa) per il (purtroppo) famoso video del bullismo a scuola che evidentemente non sta lì. La discussione, alimentata anche da Giuseppe Fioroni, Ministro dell’Educazione, si orienta sul fatto che le leggi in vigore per la stampa, attualmente non si applicano ad internet. Giusto o sbagliato?

Se lo chiede anche John Battelle, il popolare giornalista e scrittore (The Search) e da poco anche nel consiglio direttivo di IAB USA (praticamente un mio collega, eh eh). Molto lucido il pezzo di Vittorio su Scene Digitali, in grado di mostrare alcune faccie del problema. Sono con lui nel bandire le impennate e i pruriti regolatori che non possono che portare verso politiche di censura.

Tuttavia, nel fare una graduatoria sull’importanza dei vari aspetti del caso specifico, io continuo a mettere al primo posto una riflessione preoccupata sul fatto che un video che riprende un atto di bullismo nei confronti di un ragazzo down sia finito tra quelli più visti e votati. Che mondo sto lasciando ai miei figli…  :-/

Update (16.20): vittima di un periodo in cui sto dedicando meno tempo alla blogosfera, non avevo notato altri interventi sullo stesso argomento. Meno male che c’è Stefano le li riporta, mettendoci anche del suo nella veste di gestore di informazioni generate dagli utenti. Bello anche il post di Giuseppe di cui rubo un pensiero:

“continuo a credere che i problemi vadano esaminanti partendo dal modo in cui funzionano le cose oggi e non dal modo in cui hanno funzionato fino a ieri”


Con una todo list zeppa di priorità 1, il tempo per il blog è poco; però mi sono regalato la lettura del post su [mini]marketing a proposito del rapporto tra “sapere le cose” e “sapere come trovarle”:

“Ora, in cui il network (non solo tecnologico) è ubiquo e strabordante di informazioni, il vantaggio competitivo non è più nel conoscere (che diventa obsoleto molto più rapidamente), ma nell’essere più efficienti ed efficaci nel sapere come e dove procurarsi l’informazione.”

E’ un argomento che ho in una wish list di spunti da approfondire e che riguarda il passaggio tra il “sapere”, il “saper fare” e, adesso, il “saper cercare”. Tre anni fa scrissi qui che un mestiere del futuro potrebbe essere un “Personal Info Trainer“. Chissà…

Intanto Nicola Mattina ha contribuito sull’argomento portando l’esperienza del formatore:

“Dovremmo preoccuparci di fornire la capacità di apprendere autonomamente, di cercare le informazioni, di integrarle e usarle nei contesti che ci interessano. Invece, continuiamo a trasmettere nozioni che verrano usate malamente dai nostri interlocutori.”

Insomma, è la storia dell’insegnare a pescare anziché regalare del pesce. Facile da dire, non sempre peseguita e oggi più che mai attualissima.


E’ la prima volta che mi trovo a riflettere su un fatto: nella lettura dei giornali o comunque guardando le news, io salto a piè pari le pagine o le sezioni della cronaca quotidiana. Rapine, stupri, omicidi passionali o malavitosi, incidenti stradali, non toccano particolarmente nessuna leva del mio interesse.

Non credo sia menefreghismo; penso invece che sia un dovuto a ragioni diverse. Senz’altro una profonda discrezione che ho verso tutto quello che riguarda il privato altrui. Odio invadere la privacy di qualcun altro e mi sembra di farlo solo leggendo i paragrafi che dettagliano i particolari, a volte macabri, dei fatti di cronaca. Lo scippo all’anziana o il pestaggio di una prostituta mi rattristano, ovviamente, ma approfondirne i particolari non mi va, non mi piace. Sarà perché da questo tipo di disgrazie umane sento di non imparare nulla, oppure per via di un perbenismo borghese di cui non mi rendo conto, o forse solo per la consapevolezza di non poter fare nulla per migliorare le cose. Trovo inoltre aberrante la superficialità con la quale si raccontano le storie della cronaca: si gira il coltello in piaghe generalmente molto dolorose senza inquadrarne il contesto, mandando al quel paese la verità, il buon senso, l’equilibrio.

Peraltro, mi rendo conto di quanto invece attiri il grosso pubblico proprio questo tipo di informazione: si vuole vedere il sangue, si brama di poter esclamare “Terribile!”, si cerca il pianto dirotto del malcapitato di turno.

E nella ricerca esasperata di tali scoop, i giganti dell’informazione hanno pensato bene di cavalcare il “giornalismo dal basso”, quel citizen journalism che fa gridare all’innovazione e che invece, sospetto, possa avere la finalità di moltiplicare ed approfondire ulteriormente le notizie di cronaca. E’ come attaccare un amplificatore ai segnali già sparati a volume alto. Gli effetti? Beh, già in passato si sono sentite raccontare delle situazioni in cui nel bel mezzo di una disgrazia, che so, un incidente stradale, c’e chi si è messo a soccorrere i feriti e chi invece a scattare le foto sperando di rivenderle alle agenzie stampa. Ed ora, cosa ci dicono i media? Aiutateci a costruire i giornali, inviateci i vostri contributi! Brutalmente ci vedo principalmente un tentativo di pagare meno i reportage, aizzando per contro gli individui alla caccia al sangue.

Anche perché non mi pare che le esortazioni siano a produrre contenuti di approfondimento o indagini giornalistiche. Eh no, per quelle ci sono i professionisti! Ad esempio, qualcuno fuori dalla Rete ha ripreso il servizio di Paolo Picazio ripresto da Dario Salvelli sui rifiuti a Caserta? Non mi pare proprio (eccetto Reporter Diffuso su SkyTG24).

Naturalmente ognuno è libero di trovare interesse di approfondire, ad esempio, i particolari un incidente in metropolitana come l’ultimo avvenuto a Roma. Bene ha fatto Andrea Signori a scrivere di De informationibus, così come Paolo Valdemarin sente l’esagerazione che avanza. Temo che siano solo le prime avvisaglie di un trend in cui l’offerta di opportunità di protagonismo per chiunque mostrerà di cosa è capace l’umana  natura.


E’ il giorno dei morti. Lo onorerò intimamente come è mio uso, con un pensiero per papà, in particolare, andato via qualche anno fa ma tuttora un riferimento insostituibile.

Voglio però andare oltre i ricordi e concentrarmi sulle bellezze del presente, sapendo che ogni giorno si può imparare qualcosa: basta volerlo guardare.

Questa volta è una mail che è arrivata ai soci di SEMPO (l’organizzazione delel agenzie di search marketing) dalla funzione Request Services del sito. Ne riporto solo l’inizio:

"We are 180 Senior Citizens launching our little boat on the Internet ocean. I am 73 and have done a bit with site builders, so I thought I would try my hand at something more ambitious to help my fellow neighbors in this HUD Senior Citizen Community Center"

In pratica hanno messo su un sito di e-commerce che vive di commissioni di affiliazione, il che non è originalissimo, ma mi piace la trasparenza con la quale lo fanno e poi mi tolgo il cappello per il fatto che è un progetto gestito da… "giovani antichi" (come diceva papà).

Tanto tempo fa la pensavo come una canzone degli Who ("spero di morire prima di diventare vecchio"). Che stupidata. Qualcuno dovrebbe scrivere una nuova canzone: "spero di morire solo quando non ci sarà più nessuno che saprà imparare da un anziano".


Interessante la riflessione di Robert Scoble sul valore dell’engagement, un nuovo parametro da considerare nella valutazione dei media, soprattutto quelli online. Engagement si può tradurre in diversi modi; a me viene “coinvolgimento” ma non rende del tutto il senso. Provo con uno degli esempi ciatati da Scoble, quello della conversazione con il grande Buzz Bruggeman di Active Words, il quale è finito sul popolare USA Today sviluppando però solo 32 download del suo software, mentre è bastato un link dal blog di Scoble per provocarne 400. Anche se molto popolare, il blog di Scoble non raggiunge certamente l’audience di USA Today, solo che interazione con esso è più coinvolgente, più orientata all’azione.

Anch’io posso segnalare casi del genere: mi capita di essere citato su quotidiani nazionali o altri media “popolari”. Ma nessuno ha mai sviluppato, ad esempio, le cento nuove visite che mi ha portato recentemente un semplice link su Hardware Upgrade. Così come un amico mi segnalò di aver ricevuto più iscrizioni ad un loro evento attraverso il mio blog piuttosto che dall’attività del loro media partner.

Si è parlato parecchio recentemente dell’influenza dei blog. Io credo che ogni valutazione in merito debba tener conto della differenza sostanziale di internet rispetto ai media tradizionali. I giornali si leggono, la radio si ascolta, la TV si guarda e si ascolta. Internet si usa. Ricordo anche una ricerca di Eurisko che chiedeva di esprimere un aggettivo riguardo ad interent e la maggiornanza rispose “utile”.

Ben venga quindi l’ultimo parametro messo in pista da QIX che rileva la quantità di link che ricevono i blog, analizzando però solo quelli presenti nei post e non considerando quelli nei blogroll. Sifry di Technorati mi disse che ci stavano lavorando e che prima o poi realizzeranno anche loro una funzione del genere. In realtà ne avevo suggerite anche altre, tra le quali un sistema che potesse pesare i link in ingresso in funzione dei parametri del sito originario.

Certo che elaborare dei modelli numerici su argomenti come l’influenza e il coinvolgimento di un blog è complicato e probabilmente senza una soluzione definitiva. Intanto possiamo lavorare su questo: come possiamo tradurre in italiano “engagement”?

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Ottimo post e relativa discussione su +Blog incentrata sulla domanda “perché leggiamo così tanto i blog personali?“.

Pur non seguendo praticamente nessun blog impostato specificatamente come un “diario”, credo che l’interesse per i blog personali sia espressa proprio sulla parola “personale“.

I blog ci permettono di riscoprire l’interesse per gli individui, per le loro passioni. Ci piace accreditare il “signor qualunque” poerché ci fidiamo sempre meno dei media tradizionali. Ci appassionano le storie che leggiamo perché sappiamo che non hanno secondi fini o filtri editoriali. Sicuramente c’è anche l’effetto “buco della serratura”, però credo prevalga il bisogno più o meno inconscio di guardare alla persona in quanto tale, che potrebbe essere il nostro vicino di casa o un dirigente di una grande azienda; e con un’altra persona ci possiamo confrontare, ci sentiamo ovviamente simili. Cosa che succede sempre meno con i media e con le aziende.


Ottimo post e relativa discussione su +Blog incentrata sulla domanda “perché leggiamo così tanto i blog personali?“.

Pur non seguendo praticamente nessun blog impostato specificatamente come un “diario”, credo che l’interesse per i blog personali sia espressa proprio sulla parola “personale“.

I blog ci permettono di riscoprire l’interesse per gli individui, per le loro passioni. Ci piace accreditare il “signor qualunque” poerché ci fidiamo sempre meno dei media tradizionali. Ci appassionano le storie che leggiamo perché sappiamo che non hanno secondi fini o filtri editoriali. Sicuramente c’è anche l’effetto “buco della serratura”, però credo prevalga il bisogno più o meno inconscio di guardare alla persona in quanto tale, che potrebbe essere il nostro vicino di casa o un dirigente di una grande azienda; e con un’altra persona ci possiamo confrontare, ci sentiamo ovviamente simili. Cosa che succede sempre meno con i media e con le aziende.


Pensavo alla giusta osservazione di Paolo di qualche giorno fa:

Sembrerebbe quasi che in Italia, al contrario di quanto stia indubbiamente succedendo in altri paesi, la blogosfera non abbia fatto emergere dei personaggi nuovi e veramente influenti, [...] ma dove sono i nostri Lo