Archivio: “Riflessioni”

Mio caro PC, è ora che te lo dica chiaramente: io con te non riesco a parlare.

Ci conosciamo ormai da 35 anni e in tutto questo tempo abbiamo migliorato parecchio il modo di comunicare. Forse la prima cosa che ti ho detto (pardon, scritto) è stata DIR per capire cosa avevi entro. E a suon di tasti, piano piano ci siamo capiti sempre meglio.

Lo so, un po’ te la sei presa perché ad un certo punto andai a trovare quelli della mela ed il mondo WIMP (windows, icon, mouse, pointer), ma poi hai capito anche te che era un sistema migliore e così, oltre ai tasti, ho iniziato a spiegarti le mie intenzioni anche con il mouse.

Però al click del mouse (nonché al touchpad del notebook) preferisco ancora quello della tastiera, per cui sono sempre a caccia delle delle scorciatoie di tastiera di tutti i programmi o i servizi online, perché così posso chiederti più velocemente le cose da fare.

Adesso mi chiedi di parlarti, suggerendomi di darti del Cortana. Boh, la cosa non mi quadra.

Sarà che abbiamo instaurato da troppi anni un rapporto silente, che produceva al massimo un po’ di click. E poi, vuoi mettere il fatto che se qualche comando non produceva i risultati voluti poteva dipendere solo da me, mentre ora mi chiedi di aggiungere l’incertezza della tua capacità di capire cosa dico.

Non te la prendere, nulla di personale, ma continuerò a parlarti con tastiera e mouse. Certo, un giorno sarai in grado di ascoltare e comprendere questo post mentre lo leggo; e magari mi risponderai pure con cognizione di causa. Però intanto preferisco continuare ad usare la tastiera.

Che poi, è già abbastanza complicato farsi capire a voce dal resto del mondo umano…


Al Social Business Forum di quest’anno ho portato una riflessione riguardo al flessibilità che deve avere il Marketing per guidare la Digital Transformation nelle aziende.

La cattiva notizia è che le aree di cambiamento sono più d’una e piuttosto complesse; la buona è che ritengo sia il Marketing il dipartimento chiave per realizzare i processi di rinnovamento.

Nelle prossime settimane sarà disponibile anche la registrazione video dell’intervento.

 


Hank Barnes di Gartner la chiama The Perils of Definitives and Generalizations, ossia la fine delle affermazioni assolute e generiche. Ma è solo un auspico, mentre in realtà la maggior parte dei messaggi che si incrociano, tendono a generalizzare, a fornire soluzioni complessive senza specificare un minimo di varianti.

The Perils of Definitives and Generalizations

Riguardo i temi che tratta questo blog e quindi il mondo digital, è un fenomeno che esiste da sempre. Si suggerisce una strategia, un canale social o un modello di comunicazione in senso assoluto, senza minimamente accennare che le aziende sono diverse per dimensione, settore, mercato di riferimento, ecc. e che nessun modello può essere valido per ciascuna.

A fronte di affermazioni assolute mi vengono sempre spontanee svariate domande. Servono per definire il contesto, identificare l’ambito di applicazione. Altrimenti servono a poco.

Ma non mi dilungo ancora: l’avevo già scritto tutto nel post

Basta generalizzare. Elogio al “Dipende!”Occhiolino


Finalmente sono riuscito a leggere l’ottimo “Dai Social Media ai Media Intelligenti” di Giuseppe Granieri su La Stampa.

L’articolo sottolinea l’ampliamento del perimetro dei canali digitali, che passano dall’abilitare la relazione tra individui (e quindi i Social Media), all’inclusione della tecnologia come elemento attivo. Vale per “le cose”, sempre più oggetti connessi, ma anche per gli algoritmi che scatenano processi definibili sommariamente come “intelligenti”.

Fondamentale allora porsi degli interrogativi, valutare qual è il prezzo che dobbiamo pagare ospitando la tecnologia in ogni situazione di relazione. Scrive Giuseppe:

Ma tutte queste nuove tecnologie portano con sé delle scelte etiche importanti. In che mondo vogliamo vivere? I dati ci aiutano a trovare soluzioni intelligenti, ma quanto controllo perdiamo sulla nostra vita (e sulle nostre informazioni personali)?

Come al solito Giuseppe è prodigo di valide segnalazioni di approfondimento. Da una di queste, ossia Teaching Ethics in the Age of Technology, riprendo un’immagine che riassume alcuni degli aspetti chiave sui quali è giusto interrogarsi.

Slide1


Bel post di Giovanni Gentili che suggerisce un quadro a due dimensioni (ICT e Politiche digitali) per l’Agenda Digitale.

Concordo in particolare sul rischio di trasformare l’Agenda Digitale in una lista della spesa di materiale informatico per la PA. Peraltro l’abbiamo già visto fare; ad esempio i finanziamenti per l’e-commerce che in realtà permettevano di acquistare computer…

Scrive Giovanni:

(…) il grosso rischio che corriamo è quello di ridurla ad una semplice questione di "informatizzazione", ovvero introduzione di tecnologie nella PA (primo avviso e-gov) e finanziamenti alle imprese per l’acquisto di "macchinari" informatici.

Chiaro lo schema che propone:

Tuttavia, ho voluto commentato il post con un punto di vista disincantato e non certo ottimista:

(…) Trovo che alcuni degli assi su cui si muovono le istituzioni di questi tempi sono le infrastrutture e quindi l’informatica (muovono tanti soldi) e le startup (probabilmente muovono voti e forniscono il look da innovatori).
Delle PMI NON ancora "abilitata dal digitale" (…) e cioè la maggioranza, sembra non importare molto… :(


Come disse Steve Jobs nell’ispirata lecture a Stanford, si possono unire i punti solo guardando all’indietro, avendo però fiducia che i punti in cui si crede prima o poi si collegheranno.

A me pare che ci sono alcuni temi di business che attualmente non si incrociano del tutto (al massimo si sfiorano) e che invece si dovranno collegare nel breve futuro. Li sintetizzo:

  • Customer Satisfaction
  • Customer Journey
  • Customer Engagement Marketing (che affianca il CRM)
  • Content Strategy

Un paio di articoli che connettono questi punti:

  1. CEM vs CRM: Which Platform Is Better?
    cemcrm
  2. The three Cs of customer satisfaction: Consistency, consistency, consistency


I trend per orientare le aziende ai consumatori partendo dal CRMHo sempre pensato che il CRM sia una delle aree cruciali all’interno delle organizzazioni, sia quando ci si riferisce al caring e al customer support, sia quando lo si intente come database di marketing e vendite.

Per cui i punti della lista “Top Trends For CRM in 2014” elaborata dagli analisti di Forrester, possono essere considerati un’utile riferimento per il business complessivo dell’azienda e non solo per il  CRM in senso stretto.

Qui riporto alcuni dei 10 punti indicati d Forrester, ossia quelli su cui ritengo debbano focalizzarsi le organizzazioni moderne:

Trend 1: Companies Strive To Be Experience Driven.

Trend 6: Social Will Connect At All Stages Of The Customer Life Cycle

Giusto partire dal consumatore, dalla sua esperienza complessiva in tutte le fasi del customer journey. Questo approccio va però abbinato ad una gestione nuova dei touchpoint (digitali o meno), non più pensata per singolo canale (es. “faccio il post per Facebook”) ma che parte dagli obiettivi e poi declina i contenuti sui canali più opportuni.

Trend 2: Enterprises Will Embrace Tools That Create An Outside-In Perspective.

Trend 7: Rapid Adoption Of CRM SaaS Solutions Will Continue.

Si moltiplicano le soluzioni tecnologiche che abilitano modelli nuovi ed efficienti per gestire le relazioni con clienti e prospect. Gli strumenti più moderni considerano non solo il classico profilo anagrafico, ma aggiungono:

  • le informazioni social relative al profilo digitale dei singoli ed al loro social graph
  • la gestione dei contenuti e delle relazioni multi-piattaforma: dai workflow al publishing, dai commenti sui canali social alla gestione delle campagne online.

Tendo sempre di più a pensare che anche le organizzazioni più complesse e articolate hanno sempre meno alibi per non affrontare il cambiamento. Le esperienze ed i modelli ci sono, le tecnologie pure, ed il momento è “adesso”.


Sono tempi in cui anche i produttori di computer come Dell si propongono come social media strategist. E allora faccio una cosa che non mi è consueta, ossia una bella lista di suggerimenti per il 2013 riguardo l’utilizzo dei social media nelle aziende (che prende spunto da un post su memeburn).

  1. Cercate di far gestire i canali sui social media dalle persone dell’azienda. Fatevi pure aiutare da consulenti competenti, ma ponetevi sempre l’obiettivo di coordinare direttamente quelli che sono dei punti di contatto col mondo esterno.
  2. Se i vostri dipendenti hanno ancora bloccato l’accesso ai social media, questo è l’anno in cui questa barriera dovrà cadere. Se non vi fidate di loro, pensate quanto loro possano fidarsi dell’azienda per cui lavorano.
  3. Lasciate stare i guru. E lo dice uno di oltre 50 anni che si definisce "esperto". I guru sono quelli che pontificano, che passano tonnellate di tempo sui social media e ti chiedi quando lavorino. Gli esperti invece possono servire, specie quando trasferiscono competenze e valore tangibili.
  4. I social media devono far capo al marketing: non sono un mero strumento di comunicazione o di PR. Nel contempo va considerato sempre l’effetto che  producono su altri dipartimenti: customer care, vendite, human resources, ecc. Spesso i social media mettono alla luce del sole se siete davvero un’azienda integrata (o meno).
  5. Se avete un dipartimento legal non troppo antiquato, condividete anche con loro la vostra strategia sui social media e fatevi aiutare a predisporre una buona social media policy.
  6. La classica scusa rispetto al non impiego dei social media è "non ho tempo". La realtà è che non si dedica tempo a voler capire i social media, perché alla fine sono un canale di comunicazione decisamente poco complicato. Certo, se poi si trovasse un po’ di tempo per usarli davvero, se ne scoprirebbero pure i numerosi vantaggi.
  7. Fatevi un favore e smettetela di arrovellarvi sul ritorno sull’investimento (ROI). A meno che dimostriate che state già misurando il ritorno investimento dell’uso che fate in azienda dell’email o del telefono. I social media sono in prima battuta un ulteriore (e necessario) strumento di relazione con l’esterno.

Ovviamente sono temi che qui ho riportato in modo sintetico e generalista. E sono solo alcuni tra quelli alla base di una buona social media strategy. Però possono essere uno spunto di discussione. Che ne dite?


Mi ero ripromesso di non entrare nella ormai pallosissima polemica sui presunti finti follower su Twitter (o meglio, ero intervenuto con un tweet appena uscì la prima “ricerca” additandola come discutibile), però un pensiero mi scappa: ma come diavolo è possibile che in tutto il mondo fioccano analisi sulla dimostrata efficacia dei social media per lo sviluppo del business (che significa anche posti di lavoro, sviluppo delle economie, ecc.) e noi qui si ci dimena sulla possibile furbata di qualcuno. Mah.


Il digitale oggi è l’informatica di 30 anni fa. E serve un Chief Digital Officer. Lasciatemi partire però da qualche anno fa.

A 18 anni vissi il momento in cui la banca in cui lavoravo passava dalla gestione a schede cartacee ai terminali video e fu molto stimolante trovarsi nel mezzo di un cambiamento così importante, anche perché mi misero subito a formare i colleghi in giro per le filiali. Fu anche divertente gestire i clienti che non si capacitavano che i loro soldi erano “stampati” dentro uno schermo anziché sulla più tangibile carta.

In quel periodo per molte aziende, e per tutto il mondo della finanza in particolare, l’informatica rappresentò non solo uno strumento per migliorare l’efficienza e la gestione delle informazioni, ma un elemento abilitante e strategico per modellare il business. E non a caso i “Responsabili CED” (per i più giovani, Centro Elaborazione Dati) divennero figure chiave nelle gerarchie di molte organizzazioni.

A distanza di oltre trent’anni, appare chiaro che le tecnologie digitali sono per molte aziende quello che l’informatica rappresentò allora. Forse è un po’ esagerato affermare che Starbucks si sta trasformando in un’azienda tecnologica, ma è un fatto la creazione del Chief Digital Officer, ossia una figura executive a cui fanno capo tutte le attività legate al digital, comprese quelle in-store e la gestione delle iniziative di loyalty.

Penso che il ruolo del CDO verrà introdotto gradualmente da molte grandi aziende e ciò è perfettamente coerente con il mantra che sentiamo sempre più spesso nella mission delle corporation, ossia quello di “mettere il cliente al centro dell’attenzione”. Ebbene, se l’informatica migliorava i processi e strutturava le informazioni, il digital è l’ambito in cui si svolgono le attività cruciali nel moderno business: gestire i molteplici touchpoint con gli stakeholder e governare le relative informazioni (big data).

Il punto è collocare bene il CDO nell’organigramma aziendale. Finché rimane all’interno di una direzione (comunicazione, commerciale o, peggio, IT), allora parliamo di un’altra cosa. Quando risponde all’amministratore delegato allora possiamo definire davvero strategico il suo ruolo in modo da operare in maniera trasversale sul business, perché è questo che “fa” il digitale.

In ogni caso, tra i miei contatti su Linkedin ho solo un Chief Digital Officer italiano su 448 risultati…


Volevo rimettere in odine alcuni pensieri a margine del Summit italiano sui media digitali che si è tenuto nella sala executive dello stadio San Siro martedì scorso. Vorrei partire proprio dallo stadio vuoto che ho fotografato in questa occasione, perché l’evento mi ha restituito una sensazione di vuoto di idee. Stadio San Siro

La lista delle difficoltà e dei problemi è arrivata puntuale e corposa: i big player internazionali sono favoriti, il sistema italiano non favorisce l’impresa perché burocratico e oneroso fiscalmente, e via cantando. Tutto giusto per carità, ma in particolare dai big player degli operatori industriali (telco, media e agenzie) mi aspettavo qualche spunto propositivo e innovativo piuttosto che una specie di caccia all’alibi.

Non condivo in particolare l’indice puntato su problemi globali che si vorrebbero risolvere con soluzioni locali (evidentemente senza riuscirci). E’ sempre la stessa storia. Quasi dieci anni fa Soru si lamentava che i motori di ricerca sono solo americani; dalla Francia (e dove sennò) parti il progetto Quaero che praticamente non è mai esistito. Molte delle problematiche digitali vanno affrontate a livello sovranazionale (interessante lo specifico approfondimento del libro La tempesta perfetta che sto leggendo), evitando solamente di lamentarsi di quei problemi che all’estero cercano di risolvere o semplicemente affrontano innovando.

Sintomatico che dalle web company è arrivato il messaggio semplice di dover comunque prendere atto del sistema attuale e di generare  valore con questo sistema. Senza aspettare, senza proteggere le posizioni guadagnate fino a ieri.

La relazione iniziale del Summit di Enrico Gasperini di Digital Magics ha colto alcuni di questi aspetti propositivi auspicando, tra l’altro, la nascita di sistemi di filiera; l’unica mia considerazione è che tali sistemi funzionano se hanno una componente di innovazione all’interno e non solo una logica di industrializzazione di piattaforme tecnologiche.

Chiudo con la solita metafora dell’onda che sta arrivando, verso la quale non serve alzare barriere o scappare: occorre fare surf e quindi usare una buona tavola, conoscere il mare, prendersi dei rischi. In parallelo si può anche pensare agli argini e alla canalizzazione dell’acqua (government e regole). Meglio organizzare corsi su come fare surf, aiutando chi sa nuotare e chi no (alfabetizzazione, education continuativa). L’unica certezza è che l’onda sta arrivando.


Le startup basate sulle nuove tecnologie sono da un po’ di tempo al centro dell’attenzione, comprese le recenti iniziative governative e politiche. Finalmente una boccata d’aria fresca che serve a smuovere il settore del venture capitalism e a sviluppare qualche bella storia di business, posti di lavoro e ricavi.

Serve anche per dare un po’ di stimoli e di fiducia ai giovani, badando però a non limitarci a identificare le startup esclusivamente come “roba per giovani” (a riguardo avevo segnalato un articolo su GigaOm qualche giorno fa).

Vedo però poca attenzione al vero problema: quello delle  centinaia di migliaia di aziende italiane che sono indietro (e parecchio) nell’utilizzo di internet per il loro business. Vi risparmio le numerose ricerche che lo testimoniano appieno.

Non vorrei che l’attenzione alle startup sia una specie di messaggio a gettare la spugna, a rassegnarsi che l’unico modo per crescere sia lasciare le aziende alla mercé della competizione globale e rifondare tutto con tante belle giovani startup, con la speranza che sorga qualche Facebook tricolore guidata da nuovi improvvisi milionari .

Per spiegare a cosa mi riferisco, mi sono divertito ad elaborare i dati ISTAT del 2011 riguardanti l’utilizzo delle tecnologie nelle aziende italiane, suddividendo le imprese secondo i tre livelli di impiego della Rete identificati da The Boston Consulting nel report Fattore Internet, i quali sono:

  • Online-attive: Possiedono un sito ed effettuano attività di marketing virtuali o di e-commerce
  • Online: Dotate di una pagina Web ma non fanno né attività di marketing né di
    e-commerce
  • Offline: Prive persino di un sito (ma possono avere una connessione Internet)

Numero aziende italiane 10-99 dipendenti

Ho isolato le aziende da 10 a 99 addetti, quelle su cui penso sia necessario intervenire maggiormente. Si tratta di 215.000 imprese (il 4,9% delle imprese italiane) che occupano 4,9 milioni di addetti (29,2% del totale) e sviluppano 968 miliardi di € di fatturato (36,5% del totale).

Ebbene solo una piccola parte di queste usa internet in modo attivo. Il resto no.

Continuando l’elaborazione (nota: il mio non è un lavoro scientifico ed ha valore puramente indicativo), applicando i parametri del report Fattore Internet relativi alla differente performance derivante dal loro livello (Online-attive, Online oppure Offline) e ipotizzando che solo un conservativo 10% di quelle Online e di quelle Offline passi al livello superiore, è stimabile un aumento del fatturato complessivo di 2,5 miliardi di Euro l’anno.

Quante startup ci vogliono per raggiungere un risultato simile?

Perché non cerchiamo di fare un RESTART di queste aziende? Pensiamo pure alle startup, ma se vogliamo parlare di crescita del Paese, quella vera, quella urgente, quella diffusa, allora è da queste PMI che dobbiamo ripartire. È qui che occorre implementare l’utilizzo convinto della Rete (che ovviamente non è solo “fare e-commerce”).

Io qualche idea ce l’ho… magari metto su una startup! Occhiolino

Che ne pensate?


È meglio un’auto a gasolio o una a benzina? Fa più bene l’aria di montagna o quella de mare? Domande che di quelle che fanno i bambini con i loro "perché?". Domande che trovo simili a: Funzionano meglio i banner o il search? È più efficace Facebook o Twitter? È preferibile un sito, un blog o una pagina Facebook?

Ecco, io non riesco più a rispondere a queste domande se non con "Dipende!". Ne parlavo mercoledì ad un convegno di Business International, e non è un "vezzo da consulente" (che peraltro non sono, almeno in senso tradizionale), ma è solo per cercare di orientare le discussioni sul giusto contesto.

Dipende!

Anche solo a pensare ad alcune macro-distinzioni (b2b o b2c, local o global, prodotti o servizi, ecc.), si prendono strade diversissime. E secondo il principio che la migliore risposta si ottiene facendo la giusta domanda, non mi stancherò di chiedere di qualificare adeguatamente un quesito per poter provare a rispondere correttamente.

In questo discorso rientra ovviamente il grande tema della qualificazione dei brief… ma di venerdì pomeriggio meglio pensare ad altro. Buon weekend.


È meglio un’auto a gasolio o una a benzina? Fa più bene l’aria di montagna o quella de mare? Domande che di quelle che fanno i bambini con i loro "perché?". Domande che trovo simili a: Funzionano meglio i banner o il search? È più efficace Facebook o Twitter? È preferibile un sito, un blog o una pagina Facebook?

Ecco, io non riesco più a rispondere a queste domande se non con "Dipende!". Ne parlavo mercoledì ad un convegno di Business International, e non è un "vezzo da consulente" (che peraltro non sono, almeno in senso tradizionale), ma è solo per cercare di orientare le discussioni sul giusto contesto.

Dipende!

Anche solo a pensare ad alcune macro-distinzioni (b2b o b2c, local o global, prodotti o servizi, ecc.), si prendono strade diversissime. E secondo il principio che la migliore risposta si ottiene facendo la giusta domanda, non mi stancherò di chiedere di qualificare adeguatamente un quesito per poter provare a rispondere correttamente.

In questo discorso rientra ovviamente il grande tema della qualificazione dei brief… ma di venerdì pomeriggio meglio pensare ad altro. Buon weekend.


Interessante la ricerca di Linkedin sulle parole più utilizzate nei profili professionali correlate alla nazione. A me sembra che le persone vogliano evidenziare quelle caratteristiche tradizionalmente meno frequenti nelle rispettive nazioni. Quindi nei paesi anglosassoni si sottolinea il risvolto creativo, in Spagna quello professionale e in Francia quello dinamico.

In Italia la keyword più gettonata è problem solving. Sarà perché siamo più capaci a risolvere i problemi o perché abbiamo più problemi degli altri e quindi è bene evidenziare questa competenza? Oppure semplicemente perché siamo più pessimisti e abbiamo una visione problema-centrica del business?

Top overused buzzwords in Linkedin Profiles


Giornata intensa mercoledì al Social Business Forum, zeppa di sessioni su Social CRM, Enterprise 2.0, Social Business e tutto quello che ruota attorno. Ghiotto il piatto di respiro internazionale fornito ad oltre 50 relatori.

Qui pesco alcune delle note twittate frettolosamente a riguardo degli speech che ho seguito e poi riprendo alcune riflessioni che sono emerse nella tavola rotonda a cui ho partecipato.

Il piatto clou, a mio parere, è stata la relazione di Bill Johnston, Director of Global Community di Dell. Quello che mi sono portato a casa è l’esempio di una delle più articolate e produttive applicazioni di social business (dopo l’intervento mi è sembrato di dover rimettere l’orologio sul fuso italiano e quindi indietro di un paio di anni). Tuttavia, va sottolineato che lo stesso Johnston ha rimarcato che sono arrivati a determinati risultati solo dopo cinque anni di “esperimenti ed esperienze”, testimoniando a mio modo di vedere, la necessità di guardare ad uno spettro temporale relativamente ampio per applicare compiutamente una strategia di social business per un’azienda di quelle dimensioni.

Ha twittato bene Roberto Venturini:

per le ns aziende il social è la ciliegina sulla torta, per loro è *la torta*. E funziona.

ma, ribadisco, ci hanno messo cinque anni e, aggiungo, vennero stimolati da una crisi di reputation in particolare sullo scarso livello di assistenza, che li stava buttando fuori dal mercato.

Altro elemento fondamentale, è che nel timeplan che riporta i principali momenti del loro piano di social business, come punto iniziale c’è uno specifico input di Michael Dell, tanto a ricordarci che il commitment e la sponsorship del management sono cruciali.

Veniamo alla tavola rotonda sul Social CRM nella quale ho espresso alcuni concetti anche in controtendenza con quanto sentito durante il convegno:

  • Il concetto di mettere al centro dell’attenzione il cliente, assunto ripetuto a più riprese durante le sessioni, deve essere adottato dall’azienda nel suo insieme. Non significa solo potenziare il customer care o fare engagement sui social media, ma uscire per strada (mentalmente, ma non solo) e capire cosa vogliono i nostri clienti.
  • Sempre sul “cliente al centro del business” ho ribadito la grande difficoltà delle organizzazioni nell’applicare strategie condivise tra i vari team. Occorrerebbe imparare proprio dalle persone che quando trovano le giuste motivazioni e una tecnologia abilitante, fanno cose incredibili (basti pensare a Wikipedia oppure a cosa sono diventati e cosa rappresentano Facebook e YouTube per via dei contenuti generati dagli utenti).
      • Interessante il discorso sul gap che c’è tra desiderio delle aziende di sviluppare una relazione e interessi dei clienti concentrati su aspetti economici e utilitaristici. Io penso che non ci sia nulla di cui sorprendersi, dato che le aziende per prime utilizzano da decenni un approccio simile, fatto di dichiarazioni di amore per i clienti (lavoriamo per voi, realizziamo prodotti sicuri, convenienti, affidabili) ma che nasconde interessi decisamente divergenti con quanto si afferma. Ora il consumatore rende la pariglia: ok, fa un like sula pagina Facebook dei brand, ma si scatena in particolare in presenza di sconti e facilitazioni concrete. Come dargli torto?
        • Nel contempo, partendo dal presupposto che se chiediamo ai clienti cosa vorrebbero dalle aziende, raramente sono in grado di fornire soluzioni innovative ma piuttosto evolutive, allo stesso modo lo sviluppo di una relazione effettiva con i clienti va conquistata con l’assoluta trasparenza e apertura; perché le persone non sono abituate a sentirsi “veramente” considerate e ascoltate dalle organizzazioni, per cui è legittimo aspettarsi che siano inizialmente tiepide. Poi sono le prime a meravigliarsi positivamente quando si sentono coccolate o, semplicemente, trattate da individui. Solito discorso: per guadagnarsi fiducia e considerazione, occorre meritarsele!
        • Poi c’è stato un confronto tra monitoring (delle discussioni online) rispetto a listening. I miei due cents si sono concentrati nell’aggiungere action come elemento cruciale, soprattutto perché è proprio dalle attività che si intende sviluppare a valle dell’analisi, che si può calibrare opportunamente il tipo di ricerca. Se si parte da tutte le metriche che è possibile estrapolare o, peggio, ci si basa sul tipo di tecnologia disponibile, ci si ritroverà solo sommersi da tonnellate di dati. Quindi il trittico completo deve comprendere una giusta piattaforma tecnologica per il monitoring, un adeguato apporto umano di un ricercatore per la parte di listening e poi le figure professionali (aziendali e non) deputate a gestire la fase di action.

Eppoi dicono che i convegni sono tempo perso: a me costringono a focalizzare alcuni concetti e a condividerli. E’ già un risultato, no? Occhiolino


Torno sulla ricerca “Fattore Internet”, commissionata da Google e realizzata da The Boston Consulting, confermando la prima impressione: si tratta di una ricerca fondamentale per capire il vero impatto della Rete in termini economici e, se non erro, la prima del genere in Italia. Ho anche qualche riserva, ma ne parlo più avanti.

Lo studio rileva che internet vale attualmente 31,6 miliardi di Euro, ossia  il 2% sul PIL italiano, valore destinato a rappresentare tra il 3,3% e il 4,3% del PIL nel 2015. Questo per quanto riguarda l’impatto diretto di internet sull’economia, rappresentato da tre elementi principali:

  • Consumo, ossia l’acquisto di prodotti, servizi e contenuti online
  • Gli investimenti del settore privato, rappresentate principalmente dalla costruzione delle infrastrutture e dall’accesso alla Rete
  • La spesa istituzionale, composta dalle spese ICT legate ad internet sostenute dalla Pubblica Amministrazione

Ma oltre all’impatto diretto sul PIL, lo studio giustamente evidenzia anche l’entità di altre aree direttamente collegate ad internet, tra le quali l’e-Procurement (ossia i beni acquistati online dalla PA), l’infocommerce e la pubblicità online, che aggiungono complessivamente altri 25 miliardi di Euro di valore. Non mancano, correttamente, i riferimenti agli effetti positivi sulla produttività e sugli impatti sociali, la cui stima economica è oggettivamente complessa da definire.

Fattore Internet

Lo studio di carattere complessivo è affiancato da una ricerca verticale sulle PMI italiane, i cui risultati confermano l’impatto positivo della Rete sul loro business. Difatti, le aziende che che sono attive con iniziative online (ossia fanno e-commerce o marketing online) hanno mediamente aumentato i ricavi (le altre registrano trend negativi), assumono con maggior frequenza ed esportano di più.

Un aspetto che avrei messo più in evidenza è la numerosità degli addetti della filiera internet. Nel report si parla di “internet stack” che riporta un dato complessivo di ben 150 mila persone (pur non splittato numericamente per categoria). Penso che sia un parametro importante specie in chiave politico-istituzionale laddove, in luogo di valori economici assoluti, si guarda con favore il numero di “teste” coinvolte. Secondo me, cavalcare il numero degli addetti del settore internet, considerando la rilevanza di tale numero, stimola di più i tavoli governativi piuttosto che qualche miliardo di Euro di peso economico.

Ed è questo un mio pallino che ho cercato di portare avanti già all’interno di IAB relativamente ad una ricerca condotta da Accenture con cui si ambiva a mappare tutti i player del settore, ma che poi sembra aver presto direzioni differenti. I numeri dovrebbero stimolare IAB ad ambire a rappresentare qualcosa di più del miliardo di pubblicità online (che è solo lo 0,02% dell’impatto economico di internet), vista anche la difficoltà di altre organizzazioni a fungere da ombrello alla miriade di operatori e aziende coinvolte in questa industry.

Tornando a Fattore Internet, pur considerando che si tratta della prima edizione (e c’è da auspicare che assuma una periodicità costante), ritengo sia migliorabile in alcune parti. Innanzitutto sconta un’impostazione a tratti un po’ commerciale, facendo trasparire l’intento di “vendere” internet al di là dei dati oggettivi che espone. Lo so, ci scappa a tutti noi operatori del settore: siamo pieni di passione, siamo consapevoli del valore che la rete porta al business; soffriamo però della scarsa considerazione che se ne ha nel Paese e allora assumiamo costantemente le vesti degli evangelizzatori. Ma una ricerca di questa portata dovrebbe essere più asettica e realista, mostrando anche le principali criticità come, ad esempio, i numeri piccoli dell’ecommerce ancora sbilanciati sul fronte dei servizi.

La ricerca include anche delle case history di aziende di piccole-medie dimensioni. Indubbiamente le testimonianze aziendali sono utilissime: trattano casi concreti e aumentano la confidenza da parte dei meno informati. Non le avrei usate però a suffragio dei dati della ricerca (a tratti sembrano inserite per giustificare i valori esposti), ma isolate in un capitolo del tutto distinto.

Ho qualche perplessità infine sulle conclusioni della ricerca, quando riporta le priorità per lo sviluppo dell’Internet economy:

  • Le piccole e medie imprese devono spostarsi online
  • Il mobile offre delle opportunità alle imprese
  • L’educazione dei consumatori è un fondamento della crescita

Magari può non essere il focus dello studio, ma avrei apprezzato che l’enunciazione dei precedenti punti fosse accompagnata da qualche ipotesi di fattibilità e di intervento. Nel merito, il tema dell’educazione (inteso come divulgazione, informazione, ecc.) lo vedo prioritario a livello trasversale, non solo ai consumatori ma ancor prima alle aziende (compresi gli operatori del settore) e alle istituzioni.

Vediamo se sarà recepito da altre iniziative come Agenda Digitale che sta cercando (con fatica) di stimolare delle proposte dalle istituzioni, oppure dal neonato Lamiaimpresaonline.it che ha l’obiettivo di facilitare l’utilizzo del web da parte delle PMI.


Ho trovato sempre appassionanti le storie dei mei nonni. Passavo ore ad ascoltare le vicende di guerra che (purtroppo) li coinvolsero: la vita da sfollati, le notti nelle grotte per sfuggire ai tedeschi, i sacrifici per guadagnarsi un pezzo di pane (che da allora si baciava prima di buttarlo quando secco). Trovavo piacevole anche immergermi nelle tradizioni, di quelle tramandate da generazioni: la festa della Madonna e la relativa processione a piedi nudi, i turni a girare la polenta nell’immensa pentola perché sennò “non te la guadagnavi”, le notizie esaltate dai più anziani quando avevano a che fare con storie di onore, rispetto, generosità.

Oggi, se racconto ai miei figli una storia di dieci anni fa, la considerano vecchia e, come tale, definitivamente superata. Un atteggiamento comune non solo tra i più giovani, ma che riguarda più in generale il modo con cui  si osserva il passato.

In questi giorni ho incrociato alcuni momenti che richiamano i tempi che furono. In particolare un internet-revival scatenato da Alberto Bregani ricordando Web Marketing Tool, un magazine che funzionò anche da aggregatore delle persone più attive nel primo panorama internet italiano (1997 e giù di lì).

A guardare ancora più indietro nel tempo ci pensa poi una email che sta girando in questi giorni tra quelli di una certa generazione (in realtà penso ne becchi più d’una). Nostalgici o curiosi possono vedere l’apposito gruppo su Facebook; qui ne riporto qualche passaggio:

- Noi, che le nostre mamme mica ci hanno visti con l’ecografia.
- Noi, che la scuola durava fino alla mezza e poi andavamo a casa per il pranzo con tutta la famiglia (si, anche con papà).
- Noi, che se a scuola la maestra ti dava un ceffone, mamma a casa te ne dava 2.
- Noi, che chi lasciava la scia più lunga nella frenata con la bici era il più fico e che se anche andavi in strada non era così pericoloso.
- Noi, che dopo la prima partita c’era la rivincita, e poi la bella, e poi la bella della bella.
- Noi, che le cassette se le mangiava il mangianastri, e ci toccava riavvolgere il nastro con la Bic.
- Noi, che giocavamo a pallone in mezzo alla strada con l’unico obbligo di rientrare prima del tramonto.
- Noi, che ci emozionavamo per un bacio su una guancia.
- Noi, che siamo ancora qui e certe cose le abbiamo dimenticate e sorridiamo quando ce le ricordiamo.

Un po’ di nostalgia fa sempre bene al cuore. Basta riuscire a distillare dal passato gli insegnamenti utili per vivere meglio nel presente. Il punto è proprio questo: cosa ci faccio col passato in un mondo che digerisce ogni cosa alla velocità supersonica? A cosa servono i ricordi se tre quarti dei valori che hanno insegnato ad uno di cinquant’anni come il sottoscritto, sono considerati anacronistici?

Sono domande retoriche, ovviamente. Io continuo ad attingere a piene mani dal passato, pescando valori, esperienze e idee che ritengo abbiano ancora spazio, magari facendo qualche adeguamento estetico.


Lo ripeto ormai da troppi anni: il vero salto culturale rispetto ad internet lo faremo quando non lo tratteremo più come “informatica”. Eppure ancora stamattina su IlSole24Ore ecco qua il titolo riguardo all’e-commerce nelle aziende, identificato come “informatica”. Con tutto il rispetto per IT e EDP, vendere online è roba di marketing, sales, comunicazione che poi “usa” la tecnologia più opportuna. O no?


Stimolato da un’arguta riflessione di Andrea sulla formazione in azienda, volevo fare due ragionamenti su quali competenze professionali possono essere migliorate per affrontare in modo adeguato i tempi che corrono.

Anni fa si iniziò a distinguere tra l’insegnare il “sapere” e il “saper fare”, ove quest’ultimo risultava sempre più utile e richiesto. Tutt’oggi la formazione ha sempre più sbocchi operativi, perché determinate competenze si acquisiscono facilmente e velocemente sul campo piuttosto che su un manuale.

Tuttavia il “saper fare” non basta più. O meglio, forse non si riesce più a trasmettere tutto quello che ci sarebbe da fare. Scrive Andrea:

Mi sono chiesto cosa dovrebbe lasciarci di valido e duraturo un corso ben fatto. Probabilmente non una quantità più o meno consistente di informazioni ma un metodo per capire e analizzare lo scenario nel quale ci troviamo,il desiderio e l’interesse che ci spingeranno a restare sempre aggiornati e curiosi, la voglia e la caparbietà di trovare soluzioni non convenzionali che possano fare la differenza.

Secondo me la formazione oggi dovrebbe insegnare (anche) a “saper cambiare”, considerando aspetti che sono trasversali rispetto alle varie discipline ed aree di business. Qui ne lancio alcuni, ma la lista è senz’altro più ampia.

  • Velocità. Si tratta di imparare non solo a gestire il tempo in modo più efficiente e pragmatico (compreso il tempo fuori dal lavoro), ma di rivedere la definizione delle priorità e la capacità di adattarsi a mutamenti anche repentini.
  • Beta perenne. Molti dei cambiamenti che governiamo o nei quali siamo coinvolti, avvengono (ed è giusto così) senza un rigoroso piano strategico e operativo. Si prova, si misurano e analizzano i risultati, si perfeziona e poi si ri-misura e ri-analizza, e così via, in un loop che genera poche certezze nel lungo periodo, ma che va vissuto quasi alla giornata.
  • Technology servant. In quasi ogni ambito professionale, la tecnologia è diventata un elemento cruciale, abilitante, differenziale. Tuttavia, occorre inquadrarla in quanto strumento, “attrezzo del mestiere” e non come fine, considerando anche il fatto che l’unica certezza offerta dai tool e dagli strumenti tecnologici è che saranno superati da lì a pochi mesi.
  • Momentum. Saper cambiare, ok, ma quando è il momento giusto? Le tentazioni innovative ci arrivano da ogni parte, ma quali sono quelle che producono valore e quando è il momento giusto per applicarle o adottarle?

Naturalmente, è relativamente semplice capire quali sono i temi su cui potrebbe vertere un piano formativo moderno, più complicato è individuare chi è capace ad erogarlo.

L’occasione mi sembra buona per segnalare il recente IBM Global CEO Study proprio focalizzato sulla complessità del business moderno e su come valorizzarla, il cui Summary Report si apre evidenziando che:

La complessità è destinata ad aumentare e oltre la metà dei CEO dubita di essere in grado di gestirla.

per poi riassumere le linee d’azione che emergono dai 1541 CEO intervistati in questo modo:

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Oggi ho partecipato come ormai d’abitudine alla tappa romana di Web in Tourism, l’evento dedicato alla relazione tra internet ed il turismo, in particolare quello legato all’ospitalità. Quest’anno le sessioni sono state impostare a mo’ di talk show con il sempre più bravo Emilio De Risi a condurre le danze.

La mia parte è stata quella conclusiva dedicata ai social media, che ho condiviso con Vittorio Deotto, country manager italiano di Trip Advisor. Un’ora intensa, con il fronte degli operatore turistici (albergatori in primis) a sferrare domande e critiche a raffica. La maggior parte lamenta che l’anonimato dei recensori rende incontrollabili i commenti, anche quelli evidentemente “fake” o addirittura riferiti ad altre strutture che non sempre è possibile bilanciare in modo adeguato con le risposte delle strutture.

Premesso che ogni sistema è migliorabile e sicuramente anche Trip Advisor, penso che ci sia accaniti nell’osservare l’argomento dal punto di vista sbagliato: il punto non è Trip Advisor e le sue regole, ma che il mondo è cambiato e vedo parecchi operatori che ancora non se ne sono accorti. Sono consapevole che non suono buone notizie, ma ormai le aziende sono nude e devono affrontare come mai avvenuto prima, un nuovo tipo di relazione con clienti o potenziale tali. Ok, lo diciamo da anni, eppure mi ha sorpreso sentire quasi tutte le numerose domande vertere su come poter limitare i danni derivanti da un commento negativo, piuttosto che domandarsi come generare quelli positivi.

Altri ragionamenti in ordine sparso:

  • Il turismo è uno dei settori economici in cui internet ha sconvolto l’intero business e continua ad essere un ottimo riferimento per capire dove stiamo andando. Il potere delle persone (power to the keyboard, come lo chiamo io) qui è evidente in tutta la sua forza e, naturalmente, anche con le sue contraddizioni ed alcune cosette da sistemare. Non è un caso che, come oggi ha detto De Risi, è probabilmente uno dei settori più trasparenti del mercato.
  • Sistemi come Trip Advisor impattano decisamente sulle prenotazioni. Gestirli è indispensabile (monitorando, rispondendo ai commenti, ecc.) ma questo significa evidentemente competenze e tempo che vanno messe in cantiere.
  • C’è ancora troppa attenzione alle tecnicalities e accanimento sul caso isolato. Il singolo commento negativo, soprattutto quando è sospetto, risulta sicuramente fastidioso. Ma non si può solo confidare nei controlli di Trip Advisor o nell’auspico (mal risposto secondo me) che prima o poi finisca l’anonimato online. le uniche strade sono meritarsi i commenti positivi e cercare quindi di stimolarli.
  • Inoltre, focalizzarsi su Trip Advisor non ha senso. Indubbiamente è importante ma non è l’unico sistema user generated e non sarà certo l’ultimo. Magari il prossimo anno saremo qui ad analizzare i punteggi assegnati alle strutture attraverso Facebook Places e, probabilmente, i numeri saranno ancora più significativi.

Concludo riportando un paio di dati emersi durante il talk show: ci sono 30 giudizi in media per struttura su Trip Advisor e l’80% di questi è positivo.


Mi ci vorrà qualche giorno per decifrare tutti i segnali arrivati dallo IAB Forum di quest’anno. Comunque un’edizione interessante e, come al solito, molto ben organizzata. Finalmente una tempistica più rigorosa (il secondo giorno un po’ meno) ma risulta evidente la necessità di gestire meglio i workshop perché in molti sono rimasti fuori dalle aule.

Ho sentito diversi dubbi sull’esigenza di avere ancora un mega evento come questo, perché ormai l’industria è matura, perché sa di fiera, ecc. Io invece continuo a credere che IAB Forum serva come faro per l’intera industry (mi pare che Binaghi abbia usato le stesse parole ed è stato un mio “cavallo di battaglia” quando ero nel Consiglio), a patto che l’associazione sia effettivamente capace di rappresentare adeguatamente tutti gli operatori del settore e le differenti direzioni verso cui va la comunicazione online (e quindi non solo l’aspetto prettamente pubblicitario).

Sui trend e sulle novità che sono venute fuori da IAB Forum… ci devo pensare ancora un attimo Occhiolino


Prendo in prestito un paio delle considerazioni fatte ieri da Irene Rosenfeld, CEO di Kraft Foods durante il Nielsen’s Consumer 360 (altri dettagli qui):

  • Yesterday – Brands were teachers: Brands had a one directional lesson to teach consumers.
    Today – Brands are students: We need to sit back listen and learn; ask consumers to help create the stories.
  • Yesterday – It’s all about me: Brands were marketed toward individuality.
    Today – It’s all about us: It isn’t about “I”; it’s about “we.” Successful brand’s help build relationships with friends and families.
  • Yesterday – They need us: Brands told consumers why they needed the brand.
    Today – We need them: Brands need consumers more than consumers need brands.
  • In coda alla giornata di ieri qui al Digital Marketing Days c’è stato il panel  Battle Direct, impostato a mo’ di processo con difesa, accusa e testimoni, dibattendo sul tema direct o digital marketing. Da una parte (sintetizzo) chi vede un’evoluzione del direct mantenendone l’impostazione attuale, chi ne vede necessaria una rifondazione. Una delle domande su cui si è incentrato il dibattito (considerando che tra i relatori c’era anche un manager della Pepsi) è stata: “ora che hai un milione di fan su Facebook, cosa ci fai?”

    Secondo me la domanda è sbagliata perché parte da un assunto superato, ossia che da una parte ci sono le aziende che scatenano le loro attività (direct o digital che siano), dall’altra ci sono i consumatori che reagiscono e che poi si misurano come fossero scimmiette in laboratorio. La vera domanda è “Cosa fanno di te il milione di fan su Facebook?” e ancora meglio, “cosa sei in grado di fare te per il milione di fan su Facebook?”. Si perché quando parliamo di social media, parliamo di canali che sono di proprietà delle persone e non di “media” gestiti da aziende (sia come publisher che come marketers).

    Alla fine, il giochino del “processo” come quello del panel di ieri, mi pare mancasse del protagonista principale: le persone.


    I numeri relativi all’audience di internet e dei fatturati dell’advertising presentati da Roberto Binaghi sono, purtroppo, come una fotografia già vista. Fatturati in aumento ma con la solita (e temo cronica) bassa significatività rispetto al numero di internauti  e al tempo che passano online. Salvatore Ippolito ha posto alcuni temi ma non mi pare che le tavole rotonde abbiano espresso né risposte, né scenari incoraggianti.

    Questa volta il vice ministro Romani è intervenuto di persona, ma per segnalare che le fasce di popolazione più in età potrebbero avvicinarsi all’innovazione attraverso (udite, udite) il digitale terrestre che alla fine è propedeutico ad internet! E se abbiamo una legge assurda che regolamenta l’accesso Wifi pubblico (“come neanche in Cina”, ha detto l’onorevole Gentiloni), è colpa nientepopodimencoche della lobby delle TV locali e del rischio che potrebbero usarla i terroristi. Ok, abbiamo capito: l’attuale linea di governo al massimo muove qualcosa sulle infrastrutture (anche perché lì ci sono numeri interessanti e giochi di potere non male); il resto (education, informazione, servizi, contenuti) non li riguarda.

    Tornando alla comunicazione interattiva ed in particolare ai suoi obiettivi, non mi ha entusiasmato il bipolarismo assoluto: brand o response. Se continuiamo ad analizzare la Rete con le metriche del passato, non riusciremo mai a farla usare come si deve. Comprendo il tentativo di assecondare ai GRPs anche l’advertising online ma, diciamocelo, serve per vendere e non perché è giusto! E’ il classico dilemma del professionista che deve decidere se dare un buon consiglio o strappare un contratto. Ok, la seconda soluzione fa fatturare, ma nel medio-lungo periodo no paga mai.

    Mi sarebbe piaciuto un approfondimento sul concetto espresso da Carlotta Ventura di Telecom Italia, di non limitarci a considerare la pubblicità che compro ma anche le iniziative online nel loro complesso. Per un attimo ho pensato che arrivasse a parlare di earned media verso i paid media, ma è stata subito stoppata con l’invito a riferirsi solo alla pubblicità. Punto. E con ciò, a mio parere, si oscura uno dei lati più rilevanti ed efficaci che la Rete offre alle aziende.

    Alla fine da questo IAB Forum mi porto a casa la conferma che l’internet italiano continua a viaggiare col freno a mano tirato. Mi sfugge però cosa si sono portati a casa i marketers che hanno partecipato (e a cui l’evento è tipicamente orientato): casi eccellenti? idee? creatività? Nulla di tutto questo, mi pare. Ah, si, in coda, Marco Montemagno ha fatto progettare al pubblico una campagna di comunicazione in dieci minuti. Tanto è così che si fa, no?

    Su questi esperimenti, espressi a Marco parecchie perplessità già in un’altra occasione. E spero solo che l’auspicio di Layla Pavone alle istituzioni di fare di IAB uno strumento di education sul territorio (che stracondivido, tanto da averlo proposto a più riprese nell’ambito del precedente Consiglio Direttivo), passi attraverso contenuti che non banalizzino la Rete e non bleffino sulla complessità.


    Splendido! Lo voglio! Una specie di orologio che calcola in tempo reale il costo della riunione in base ad un importo orario e al numero dei partecipanti.

    Odio sprecare le cose, ed in particolare il tempo. Lo so, talvolta sono troppo brusco e diretto nello stimolare i miei colleghi ad arrivare al sodo, ma il tempo è una risorsa finita e disperderlo è un vero peccato ed una mancanza nei confronti di tutti, compreso chi ci regala ogni giorno le nostre 24 ore senza chiedere nulla in cambio.