Archivio: “Comunicazione”
Ho avuto il privilegio ed il piacere di partecipare al progetto “Giochi da prendere sul serio”, il libro scritto da Alberto Maestri, Pietrro Polsinelli e Joseph Sassoon dedicato a Gamification, storytelling e game design per progetti innovativi; editore Franco Angeli.
Su Amazon puoi anche scaricare un estratto del libro che contiene la premessa e la mia introduzione. Buona lettura!
Una bella infografica realizzata da Getvoip dedicata a chi ha colleghi “nocivi” e che non si limita a criticare ma cerca di gestire la relazione.
Qui c’è una galleria di profili tipo: dal sociopatico al mondano, dal pasticcione a quello che a me infastidisce di più: il perditempo.
Ho incrociato questo articolo su Forbes ieri sera tardi e ho deciso che meritasse un post per segnalarlo e non il semplice retweet.
Il tema è quello del ruolo cruciale della comunicazione tra gli skill che una persona deve avere oggi, specie in ambito business. L’articolo è scritto da Greg Satell e qui ne riporto alcuni passaggi:
(…) if we were to remember one thing about Churchill it should be that what made him so effective was his power to communicate. I remember being puzzled. Growing up I had always heard about the importance of hard work, honesty and other things, but never communication.
Yet now, thirty years later, I’ve begun to understand what he meant. As Walter Isaacson argues in his book The Innovators, even in technology—maybe especially in technology—the ability to collaborate effectively is decisive. In order to innovate, it’s not enough to just come up with big ideas, you also need to work hard to communicate them clearly.
We tend to treat knowledge and communication as two separate spheres. We act as expertise was a private matter, attained through quiet study of the lexicon in a particular field. Communication, on the other hand, is often relegated to the realm of the social, a tool we use to interact with others of our species.
Yet, as Wittgenstein argued decades ago, that position is logically untenable because it assumes that we are able to communicate to ourselves in a private language. In truth, we can’t really know anything that we can’t communicate. To assert that we can possess knowledge, but are unable to designate what it is, is nonsensical.
It has become fashionable to say that our present epoch is an information age, but that’s not quite right. In truth, we live in a communication age and it’s time we start taking it seriously.
Hank Barnes di Gartner la chiama The Perils of Definitives and Generalizations, ossia la fine delle affermazioni assolute e generiche. Ma è solo un auspico, mentre in realtà la maggior parte dei messaggi che si incrociano, tendono a generalizzare, a fornire soluzioni complessive senza specificare un minimo di varianti.
Riguardo i temi che tratta questo blog e quindi il mondo digital, è un fenomeno che esiste da sempre. Si suggerisce una strategia, un canale social o un modello di comunicazione in senso assoluto, senza minimamente accennare che le aziende sono diverse per dimensione, settore, mercato di riferimento, ecc. e che nessun modello può essere valido per ciascuna.
A fronte di affermazioni assolute mi vengono sempre spontanee svariate domande. Servono per definire il contesto, identificare l’ambito di applicazione. Altrimenti servono a poco.
Ma non mi dilungo ancora: l’avevo già scritto tutto nel post
Basta generalizzare. Elogio al “Dipende!”.
Piacevole intervista concessa da Seth Godin a Inc. Non mi entusiasma il punto di partenza giornalistico che parte dagli errori anziché dalle best practices, ma Godin ci mette del suo.
Un piccolo estratto:
What would you say is the greatest mistake that marketers are making today?
Godin: The big mistake is thinking that their job is to spend money to get attention. If they think that that is what their job is, they will never ever succeed in marketing.
How can companies get marketing right?
Godin: Start by understanding that no one cares about them. People care about themselves. Anyone who tweets about a brand or favorites a brand is doing it because it is a symbol of who they are–it is a token, it is a badge. It’s about them, it’s not about the brand.
E ancora:
Commitment is what is required to change minds. We change our minds because we have made a commitment because something moves us.
È meglio un’auto a gasolio o una a benzina? Fa più bene l’aria di montagna o quella de mare? Domande che di quelle che fanno i bambini con i loro "perché?". Domande che trovo simili a: Funzionano meglio i banner o il search? È più efficace Facebook o Twitter? È preferibile un sito, un blog o una pagina Facebook?
Ecco, io non riesco più a rispondere a queste domande se non con "Dipende!". Ne parlavo mercoledì ad un convegno di Business International, e non è un "vezzo da consulente" (che peraltro non sono, almeno in senso tradizionale), ma è solo per cercare di orientare le discussioni sul giusto contesto.
Anche solo a pensare ad alcune macro-distinzioni (b2b o b2c, local o global, prodotti o servizi, ecc.), si prendono strade diversissime. E secondo il principio che la migliore risposta si ottiene facendo la giusta domanda, non mi stancherò di chiedere di qualificare adeguatamente un quesito per poter provare a rispondere correttamente.
In questo discorso rientra ovviamente il grande tema della qualificazione dei brief… ma di venerdì pomeriggio meglio pensare ad altro. Buon weekend.
È meglio un’auto a gasolio o una a benzina? Fa più bene l’aria di montagna o quella de mare? Domande che di quelle che fanno i bambini con i loro "perché?". Domande che trovo simili a: Funzionano meglio i banner o il search? È più efficace Facebook o Twitter? È preferibile un sito, un blog o una pagina Facebook?
Ecco, io non riesco più a rispondere a queste domande se non con "Dipende!". Ne parlavo mercoledì ad un convegno di Business International, e non è un "vezzo da consulente" (che peraltro non sono, almeno in senso tradizionale), ma è solo per cercare di orientare le discussioni sul giusto contesto.
Anche solo a pensare ad alcune macro-distinzioni (b2b o b2c, local o global, prodotti o servizi, ecc.), si prendono strade diversissime. E secondo il principio che la migliore risposta si ottiene facendo la giusta domanda, non mi stancherò di chiedere di qualificare adeguatamente un quesito per poter provare a rispondere correttamente.
In questo discorso rientra ovviamente il grande tema della qualificazione dei brief… ma di venerdì pomeriggio meglio pensare ad altro. Buon weekend.
Il libro Open Marketing segue il precedente Marketing Reloaded ampliando il punto di osservazione: dall’analisi degli strumenti multicanale del marketing, si sale fino a “rivedere profondamente l’assetto complessivo di un’impresa”. Cambia quindi anche il target del testo che sembra orientato prevalentemente al management (o comunque a chi guida le aziende) riservando loro reiterati inviti al cambiamento.
“È richiesto al top management di: (i) intraprendere un vero e proprio turnaround strategico e organizzativo e (ii) riconfigurare il sistema di relazioni con gli attori che offrono servizi a supporto del processo di comunicazione.”
Sul tema dei partner (agenzie di comunicazione, centri media, ecc.) torno più avanti. Sull’argomento del turnaround, Open Marketing propone uno scenario dove “tutto diventa touchpoint”:
“Non ha più senso parlare di media ricorrendo alle distinzioni classiche. (…) Tutti i media confluiscono in un ambiente in cui l’utente è sempre più protagonista: infatti, da una parte si assiste alla ricerca di spazi sempre meno convenzionali ove inserire messaggi pubblicitari (…); dall’altra, è sempre più ricorrente che il cliente interagisca con l’impresa attraverso molteplici punti di contatto – spesso non controllati dal sistema dell’offerta – in cui abbandona il ruolo di soggetto passivo e diventa sempre più attivo e partecipativo.”
Le ricerche svolte dalla School of Management del Politecnico di Milano (nella quale gli autori insegnano), hanno evidenziato cinque principali barriere nell’adozione dei nuovi approcci di marketing:
- mancanza di conoscenza approfondita sulle evoluzioni del contesto e delle potenzialità (…) della multicanalità
- sequenzialità del processo di marketing
- culto della marca e monodirezionalità della comunicazione
- sistemi di misurazione delle performance
- incomunicabilità e disallineamento tra i diversi silos organizzativi
Per superare queste barriere occorre, tra l’altro, che la figura del CMO (Chief Marketing Officer) “assuma un ruolo strategico all’interno dei meccanismi decisionali aziendali” e che “faccia parte a tutti gli effetti del board decisionale dell’impresa, e che gli venga conferito potere tanto formale quanto sostanziale”. Solo in questo modo si può progettare e definire “il tipo di esperienza complessiva che l’azienda intende offrire al mercato”.
Concetti questi che rafforzano anche i miei ragionamenti sulla pervasività di internet all’interno delle organizzazioni e sulla interdisciplinarietà necessaria per coordinare e applicare il tutto in maniera efficace. Difatti anche su Open Marketing si sottolinea a più riprese dei mutamenti anche nella filiera di marketing, in cui l’azienda “chiederà relazioni sempre più coordinate e integrate con alcuni partner selezionati, che a tendere potranno non essere il centro media e l’agenzia ma il network di attori che avranno una corretta visione strategica e una capacità di gestire progetti secondo regole di marketing chiare e condivise con l’azienda”.
Il libro Open Marketing segue il precedente Marketing Reloaded ampliando il punto di osservazione: dall’analisi degli strumenti multicanale del marketing, si sale fino a “rivedere profondamente l’assetto complessivo di un’impresa”. Cambia quindi anche il target del testo che sembra orientato prevalentemente al management (o comunque a chi guida le aziende) riservando loro reiterati inviti al cambiamento.
“È richiesto al top management di: (i) intraprendere un vero e proprio turnaround strategico e organizzativo e (ii) riconfigurare il sistema di relazioni con gli attori che offrono servizi a supporto del processo di comunicazione.”
Sul tema dei partner (agenzie di comunicazione, centri media, ecc.) torno più avanti. Sull’argomento del turnaround, Open Marketing propone uno scenario dove “tutto diventa touchpoint”:
“Non ha più senso parlare di media ricorrendo alle distinzioni classiche. (…) Tutti i media confluiscono in un ambiente in cui l’utente è sempre più protagonista: infatti, da una parte si assiste alla ricerca di spazi sempre meno convenzionali ove inserire messaggi pubblicitari (…); dall’altra, è sempre più ricorrente che il cliente interagisca con l’impresa attraverso molteplici punti di contatto – spesso non controllati dal sistema dell’offerta – in cui abbandona il ruolo di soggetto passivo e diventa sempre più attivo e partecipativo.”
Le ricerche svolte dalla School of Management del Politecnico di Milano (nella quale gli autori insegnano), hanno evidenziato cinque principali barriere nell’adozione dei nuovi approcci di marketing:
- mancanza di conoscenza approfondita sulle evoluzioni del contesto e delle potenzialità (…) della multicanalità
- sequenzialità del processo di marketing
- culto della marca e monodirezionalità della comunicazione
- sistemi di misurazione delle performance
- incomunicabilità e disallineamento tra i diversi silos organizzativi
Per superare queste barriere occorre, tra l’altro, che la figura del CMO (Chief Marketing Officer) “assuma un ruolo strategico all’interno dei meccanismi decisionali aziendali” e che “faccia parte a tutti gli effetti del board decisionale dell’impresa, e che gli venga conferito potere tanto formale quanto sostanziale”. Solo in questo modo si può progettare e definire “il tipo di esperienza complessiva che l’azienda intende offrire al mercato”.
Concetti questi che rafforzano anche i miei ragionamenti sulla pervasività di internet all’interno delle organizzazioni e sulla interdisciplinarietà necessaria per coordinare e applicare il tutto in maniera efficace. Difatti anche su Open Marketing si sottolinea a più riprese dei mutamenti anche nella filiera di marketing, in cui l’azienda “chiederà relazioni sempre più coordinate e integrate con alcuni partner selezionati, che a tendere potranno non essere il centro media e l’agenzia ma il network di attori che avranno una corretta visione strategica e una capacità di gestire progetti secondo regole di marketing chiare e condivise con l’azienda”.
Dopo tre post filati relativi ad altrettante ricerche di mercato riguardo internet, per l’imminente weekend ho pensato di pubblicare un articolo che ho scritto un paio di mesi fa per TakeOff, un magazine distribuito in una serie di aeroporti italiani.
L’occasione del pezzo era la ricorrenza del ventennale della nascita del web. Poi mi sono lasciato andare sul tema della salvaguardia della Rete: un ambiente che ormai appartiene a tutti noi e dobbiamo difendere da legislatori disinformati, corporation accentratrici, corporazioni antistoriche.
Non ho scritto della paura del cambiamento che frena oppure ostacola la diffusione di internet e che va sempre considerata quando si ragiona sullo sviluppo della Rete. Lo fa invece molto bene Sante con un appassionato post di qualche giorno fa.
Qui invece il mio articolo. Buon weekend.
Dopo tre post filati relativi ad altrettante ricerche di mercato riguardo internet, per l’imminente weekend ho pensato di pubblicare un articolo che ho scritto un paio di mesi fa per TakeOff, un magazine distribuito in una serie di aeroporti italiani.
L’occasione del pezzo era la ricorrenza del ventennale della nascita del web. Poi mi sono lasciato andare sul tema della salvaguardia della Rete: un ambiente che ormai appartiene a tutti noi e dobbiamo difendere da legislatori disinformati, corporation accentratrici, corporazioni antistoriche.
Non ho scritto della paura del cambiamento che frena oppure ostacola la diffusione di internet e che va sempre considerata quando si ragiona sullo sviluppo della Rete. Lo fa invece molto bene Sante con un appassionato post di qualche giorno fa.
Qui invece il mio articolo. Buon weekend.
Re-brand di Mirko Nesurini è dedicato ai brand che dormono, ossia quelle marche che sono uscite dal mercato ma ancora godono di notorietà per cui può valer la pena rilanciarle. Il libro ha una strana trattazione: a volte sembra un collage di post-it e appunti sulle numerose aziende citate. Lunga è infatti la carrellata di brand più o meno noti e di successo, dei quali si raccontano dati storiografici e di mercato senza però approfondire o commentare le strategie o i risultati. Interessante per i curiosi dei brand del passato.
Farsi capire di Annamaria Testa l’avevo acquistato leggendo un post di Luisa Carrada la quale, come al solito, ci prende sempre. Si tratta di un lavoro che approfondisce tutti i lati del comunicare tra le persone, con un approccio abbastanza rigoroso (nacque come base per un corso universitario) che sfocia continuamente in divertenti e sorprendenti battute di un humor piacevolissimo. Esposizione elegante che si avvale di buffi personaggi per condire gli esempi pratici, i quali arrivano al momento giusto per sdrammatizzare i momenti di trattazione maggiormente elaborati.
Internet e movimenti sociali è il testo della tesi di laurea di Franco Pignatti ed è un buon excursus riguardo l’utilizzo della Rete per le svariate forme di attivismo e di comunicazione di protesta. Il lavoro naturalmente fa ampio ricorso a citazioni e riprese di testi di riferimento (i lavori di Castells su tutti) ma poi entra nei dettagli con una trattazione equilibrata e analitica di alcuni dei fenomeni più rilevanti sull’argomento degli ultimi anni.
“Come posso fornire contenuti o servizi esclusivi ai miei clienti più affezionati?” È più o meno questa una delle esigenze di un cliente che sto seguendo. La domanda non solo è legittima, ma nel passato anche più recente è stata soddisfatta efficacemente in svariati modi: informazioni in anteprima, prove dei prodotti, fidelity card, offerte esclusive, ecc.
Sarà il caldo di questi giorni a favorire la riflessione, ma ho iniziato a pensare che la Rete cambi anche il concetto di “clienti più affezionati”, andando a mettere in discussione l’usuale doppio binario con consumatori normali da una parte e i “top client” dall’altra, almeno per quanto riguarda le attività di comunicazione online e le iniziative ad esse collegate.
Se è vero che stiamo passando dai mercati di massa ad una massa i mercati, sono le persone stesse che si auto-segmentano, distribuendo il loro tempo su molteplici canali e strumenti, assegnando a ciascuno di essi un tempo sempre più contratto. Ne deriva che una stratificazione aggiuntiva (normali vs. affezionati), rischia di polverizzare ulteriormente l’attenzione e di rendere meno efficienti le iniziative verso élite dai contorni sempre più sfumati.
La logica è quella che caratterizza le inserzioni sui motori di ricerca, le quali sono prodotte dall’autoprofilazione degli utenti attraverso alla loro chiave di ricerca. Ebbene, penso che le aziende dovrebbero rivolgersi a tutti i loro consumatori come se fossero “top client”, lasciando che ognuno di loro autodetermini il significato dell’aggettivo “top”. Insomma, proviamo a dare a tutti il potere di meritarsi uno sconto, un’informazione in anteprima e via dicendo.
Naturalmente continueranno ad esistere cluster differenti per modalità di fruizione dei prodotti, frequenza di acquisto, valori associati al brand, ecc. Il punto è che molte di queste iniziative “esclusive” sono oggi gestibili con tecnologie sempre più versatili ed economiche, tanto da permettere di poter esaltare tutte le svariate forme di élite che si trovano nella lunga coda del proprio mercato di riferimento.
“Quando cambiamo il modo con cui comunichiamo, cambiamo la società”. Semplice assunto per descrivere la portata dei cambiamenti in atto nelle relazioni tra gli individui. Questo è ciò che approfondisce il libro di Shirky, descrivendo gli aspetti sociali dei nuovi modi di “fare gruppo” e la potenza dei nuovi modelli aggregativi; non a caso il sottotitolo è “Il potere di organizzare senza organizzazione”
Si parte dall’esame della scala evolutiva dei gruppi sociali, attraverso tre fasi distinte: Condivisione, Collaborazione, Azione collettiva. Naturalmente le tecnologie, e internet in particolare, sono l’elemento abilitante, ma qui sono trattate correttamente in quanto strumento senza perdersi in tecnicismi o sofisticazioni.
Interessante il passaggio sul tema dei contenuti, dell’editoria, dell’evoluzione del giornalismo. Condivido la distinzione tra importanza e valore, ove pur riconoscendo la rilevanza dei contenuti professionali, il loro modello economico è inesorabilmente intaccato (con buona pace di Murdoch & Co.):
Per una generazione che cresce senza porsi il problema della rarità che per decenni ha reso l’editoria un’attività così delicata, la parola scritta non ha un valore di per sé. [...] Sebbene l’acqua sia più importante dei diamanti, questi sono costosi semplicemente a causa della loro rarità.
La Rete sta sconvolgendo gli assunti legati alle “medie”: l’utente medio, un comportamento medio, ecc. Indagare sull’uso dei social media, ad esempio, è utilissimo per dimostrare come lo squilibro tra i pochi e i molti aumenti con la diffusione di tali sistemi: meno del 2% degli utenti di Wikipedia contribuisce ai suoi contenuti, così come le persone attive con regolarità su Facebook sono un netta minoranza rispetto al totale degli iscritti.
Il fenomeno del “sotto la media” è ben descritto nell’aneddoto che racconta di Bill Gates, il quale entra in un bar e improvvisamente tutti gli avventori diventano, in media, milionari. Di conseguenza tutti, nel bar, avranno anche un reddito sotto la media.
Di rilievo è la distinzione a proposito del capitale sociale, tra capitale di bonding ossia l’aumento nella profondità delle connessioni e nella fiducia di un gruppo relativamente omogeneo, e capitale di bridging con cui invece si intende la crescita nelle connessioni tra gruppi relativamente eterogenei. Quest’ultimo è uno degli elementi innovativi: la quantità dei nodi di relazione che migliora, ad esempio, le probabilità di incrociare buone idee.
Due note di contorno: trovo scomodi i libri come questo con tutte le note messe a fine libro (meglio in pagina o, al limite, a fine capitolo), mentre mi sembra ben fatta la traduzione di Federico Fasce (non ho letto l’originale ma la versione italiana è scorrevole e senza localizzazioni “forzate”).
Sta succedendo. Internet collega persone e cose da oltre 15 anni, ma ormai non è più solo comunicazione: è un flusso continuo di dati e informazioni. È un contenitore di materiale vivo, che si trasforma, che si adatta e che modifica il suo stesso contenitore. Twit, feed, stream, post: atomi di contenuti incrociati senza governo.
Prendo nota di qualche punto di luce, recente o meno, in questo magma di segnali sparsi tipici dei nostri tempi liquidi:
- “Streams vs. pages” sottolinea il lungo articolo di John Borthwick (via Stefano Quintarelli): media chiaramente non finiti, in costante evoluzione.
- “Epoca della sovrascrittura”, come la definì Gianluca Nicoletti in un convegno lo scorso anno, in cui i contenuti si sovrappongono l’un l’altro, fino a sviluppare mashup che si appropriano del concetto di arte (citofonare Maurizio Goetz che ne è un collezionista; l’ultimo? Beat it + Viva la Vida).
- Sarà poi il turno di Google Wave: quando sarà disponibile, probabilmente contribuirà a scrivere la nuova geografia del real-time, come giustamente sottolinea Alberto D’Ottavi.
- E le aziende? Beh, possono prendere spunto dalla strategia Foreverism, sintetizzata nel consueto accattivante modo dai consulenti di Trendwatching, sapendo comunque che non basta un account Twitter per entrare nell’era dei touch-point di nuova generazione.
Già nel 2003 Joe Ito riprendeva dal libro Beyond Culture (scritto nel
Sarò retrogrado ma l’educazione ed il rispetto dovrebbero venir prima delle tecnologie… Per cui se siamo in un meeting o al telefono, penso sia giusto pretendere la reciproca attenzione anziché inseguire e rimbalzare tra i trilli degli SMS, i campanelli di Messenger, gli status dei social network, i ding dong delle email in arrivo e così via.
Tentare di sfoggiare questo svolazzamento tra device e applicazioni in contemporanea, non fa altro che dimostrare quanto si è gestiti dalle tecnologie e dagli eventi (e non invece il contrario). Io penso che l’inefficienza (ed il conseguente stress) siano direttamente proporzionali alla quantità di interruzioni a ciò che si sta facendo.
Siamo nella Settimana Nazionale della Sicurezza in Rete, Virgilio propone una Netiquette 2.0, ma poi tocca constatare che è la buona educazione quella che manca… (Che si è capito che di recente ho partecipato ad una riunione “storta”?)
Proprio mentre stavo scrivendo queste note, il buon Luca segnalava su un lungo articolo sul New York Magazine intitolato The Benefits of Distraction and Overstimulation. Da leggere per chi si interessa di come sta cambiando l’attenzione e la capacità di concentrazione del genere umano.
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