Questo è il mio contributo al libro “Web Analytics” di Alessio Semoli, edito da Hoepli.

Qual è il concetto più difficile da far comprendere ad un cliente?

Mauro: Ciò che ritengo cruciale riguardo ad internet è capire che i risultati dell’analisi sono parte integrante del processo di comunicazione e non solo un task a valle delle campagne.

Provo a spiegarlo con un esempio relativo alla pianificazione della pubblicità sui motori di ricerca. In questo caso, l’obiettivo, di solito, è incrementare visite qualificate al sito, e il cliente deve maturare la consapevolezza che tutte le fasi della campagna sono misurabili fin nei minimi particolari: la quantità di ricerche effettuate sulle keyword oggetto della campagna, la numerosità ed il relativo costo di ogni singola visita, il comportamento dei visitatori sul sito in funzione di ogni singola chiave di ricerca utilizzata per accedere, ecc.

Ebbene, partendo da tali presupposti di misurabilità, l’approccio alla campagna dovrebbe essere di tipo “learn by doing”, ossia sviluppato in funzione dei dati costanti che derivano dalla misurazione.

Pretendere di predefinire l’entità di tutti i parametri in gioco (numero di ricerche, costo per click, numero e attività dei competitor, capacità di conversione delle pagine di arrivo, …) è semplicemente un rischio inutile.

È la Rete che può darci tutte le risposte: reali, dettagliate e in tempo reale.

Basta volerle e usarle, in itinere e non solo a consuntivo di un’operazione! L’impostazione di una campagna dovrebbe nascere da una pianificazione “in progress”, nella quale è già strategicamente impostato un lavoro di perfezionamento continuo (e qui penso ad una frequenza di tuning anche quotidiana, se coerente con la campagna) in base alle generose indicazione che arrivano dai tool della web Analytics.

Guardare semplicemente i dati alla fine della campagna, significa solo constatare il livello di inefficienza con la quale è stata gestita.

Mi rendo evidentemente conto che questo atteggiamento tocca l’impostazione del business che, nel nostro Paese, non ha un così alto valore pragmatico. L’approccio che talvolta viene chiamato “beta perenne”, una strategia votata al costante cambiamento e perfezionamento, è lontana da una visione manageriale che invece considera ancora l’errore come un grave difetto e non come spunto per imparare e acquisire informazioni utili e concrete. Gli errori sono ancora dei tabù da nascondere, da sminuire; e questo non fa che tarpare le ali alla sperimentazione, alla ricerca, ai ragionamenti “out of the box”.

Qual è secondo te il valore aggiunto più grande della Web Analytics?

Mauro: Anni fa paragonai gli strumenti di analisi alle telecamere presenti nei supermercati le quali, oltre a identificare i ladruncoli di passaggio, forniscono delle indicazioni strepitose sui comportamenti dei consumatori davanti agli scaffali: cosa li attira e cosa ignorano, cosa scelgono, il percorso nel negozio, ecc. …

Ebbene, ogni sito web ha potenzialmente una potentissima telecamera che registra tutti i movimenti dei visitatori; solo che molto spesso non viene accesa affatto oppure la si guarda molto superficialmente. O, peggio, vengono ignorate le evidenze che dimostrano l’inconsistenza di alcune aree del sito e che implicitamente auspicano delle revisioni.

La buona notizia è che sbagliare su internet costa poco, anzi, io credo che la strategia migliore su internet sia osare, misurare e correggere il tiro. Meglio un processo graduale che cresce corroborato da una misurazione e ne traccia costantemente plus e minus, piuttosto che un progetto in cui si cerca di prevedere tutto ma che non prevede la capacità (o la voglia) di cambiare in corsa.

Come cambia la Web Analytics con la diffusione sempre più massiccia dei social media?

Mauro: Penso che si tratti davvero di un momento speciale per chi si occupa di marketing e per chi si interessa di ricerca sociale. La rete con le sue connessioni e la sua grande diffusione e partecipazione sta creando il più grande focus group mai esistito. Centinaia di milioni di persone nel mondo “parlano” dei loro interessi, dei loro bisogni. Lo fanno in modo diretto, sincero, spontaneo. Nei blog, nei forum, nei social network, su YouTube o Flickr, gli utenti inseriscono contenuti che trattano anche delle aziende, dei loro prodotti o di quelle dei loro competitor. La grande differenza è talmente evidente che a volte resta celata perché sembra banale citarla: un focus group o un’indagine tradizionale rilevano opinioni di singoli (seppur rappresentative di un campione più ampio) mentre ascoltare le discussioni online significa invece identificare delle “voci connesse”, dei contenuti che sono visibili a milioni di utenti e che hanno grandi capacità di impatto e influenza. L’obiettivo da raggiungere è di riuscire a “pesare”le voci e non più solo contarle. Per cominciare è utile anche solo cambiare la terminologia e spostare il focus sulle persone: le persone sono partecipanti molto più complessi e interessanti dei semplici “utenti” o “consumatori”.

Evidentemente siamo su un terreno ancora nuovo ma la tecnologia sta producendo strumenti sempre più precisi per permettere alle aziende di compiere il passo successivo: interagire con i singoli individui, sempre più coscienti delle loro capacità di giudizio, di scelta e di influenza.

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