Adoro le persone schiette, quelle che non hanno peli sulla lingua e che “non la mandano a dire”. Non sempre è possibile “dirla tutta”, specie nel mondo degli affari. Proprio oggi Mantellini sottolinea come “non siamo abituati a sentirci dire chiaramente come stanno le cose”. Così quando qualcuno “vuota il barile” ho sempre la convinzione che equivalga ad una ventata d’aria fresca. Qualche volta, ed è il caso in questione, l’effetto sarà più simile ad un piccolo tornado che ad una semplice ventata.

Mi rifersco a Joe Holcomb che ha pubblicato un lungo post dal titolo emblematico: Pay Per Click Advertising Fraud – The Inside Story.

Joe, che è il marketing manager di BlowSearch (prima era in Kanoodle), fa il punto su uno dei temi più scottanti nel settore del paid search; un pesante j’accuse nei confronti dei search engine che, a sui dire, tendono a sminuire l’effettivo impatto del fenomeno click fraud non riuscendo (per ora) a combatterlo adeguatamente. L’argomento è peraltro emerso in questo giorni nei commenti di un precedente post e discusso anche su Mlist.

È complesso commentare un articolo così lungo che va a coprire molti aspetti del problema. Il punto è che il problema esiste: una parte dei click che arrivano dal paid search (sia esso sponsored links che contextual) potrebbero essere artificiali. E allora?

Dal punto di vista delle aziende che usano i motori di ricerca per generare visite al proprio sito, ritengo che:

  • si debba sempre analizzare con cura l’andamento delle campagne “paid”, non solo utilizzando gli strumenti base offerti dai search engine, ma individuando costantemente il ROI. Pragmaticamente, ammesso di dover accettare che una parte dei click non siano legittimi (pagandoli comunque), va verificata in ogni caso qual’è la soglia di convenienza. È come per le campagne di e-mail advertising ove, in genere, si paga un costo per ogni e-mail trasmessa, comprese quelle che non vengono recapitate o lette.
  • ricordando che la stragrande maggioranza dei click su una pagina dei motori di ricerca viene effettuata sui risultati standard (l’ultima ricerca che lo dimostra è quella del triangolo d’oro fatta da Enquiro), risultra altresì evidente che gli investimenti rivolti all’ottimizzazione ed alla loro visibilità nei risutati standard, non sono intaccati dal click fraud.
  • un modello alternativo potrebbe essere il “paid for action”, ossia un sistema per cui l’inserzionista paga per un risultato concreto come, ad esempio, la compilazione di un form o direttamente l’acquisto. A tale proposito, va segnalato l’attegiamento di Snap (il progetto di Bill Gross, ideatore di GoTo e quindi Overture) che promuove il modello pay-per-action ai suoi clienti. Pur avendo iniziato a parlare di paid per performance svariati anni or sono (attirandomi anche gli strali di alcuni operatori pubblicitari tradizionali), ho comunque molte perplessità sul fatto che un modello legato alle vendite possa funzionare su larga scala.
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14 commenti per “Click fraud: l’opinione di un insider”

Pui seguire questa conversazione mediante lo specifico feed rss.

  1. federico scrive:

    Il pay per action non è affatto una soluzione a mio modesto parere. Tu stesso hai citato la ricerca della Jupiter sull’argomento. I cookie semplicemente non funzionano come dovrebbero. Nel caso del pay per action, la frode la subisce l’editore che pubblica la pubblicità. Tu citi SNAP. ma hai visto qual è il loro cpc medio? Il ppa funziona benissimo solo per i merchant che vogliono pagare solo “se va bene”. BTW; mi sembr a che il click fraud sia un problema molto gonfiato. Mi sembra molto più grave – ad esempio – che se compri gli adwords non sai quanto stai pagando più di quello che sta ‘sotto’ di te e quanto in meno rispetto a quello che sta “sopra”. Il problema della trasparenza mi sembra in questo caso molto piu’ serio. E’ possibile che i Bid per essere primi su Google siano a volte dieci volte più alti che su Overture/Yahoo?

  2. daniele scrive:

    Vorrei rispondere all’ultima frase di Federico. Io credo che non sia del tutto sbagliato pagare i Bid per essere primo su Google più che non su Overture e similari in quanto Google in Italia è usato dall’80% degli utenti.

  3. Enrico scrive:

    Concordo decisamente con Mauro quando sostiene l’alternativa del pay-per-performance, per un motivo molto semplice: oltre che essere molto più significativa del mero click, la “performance” o “action” eseguita dall’utente web è il segnale che il modello ha funzionato efficacemente, conducendo il cliente potenziale di fronte alla reale possibilità di acquisto (questionario, ricerca di informazioni sul sito dell’azienda, etc); la realizzazione della vendita a questo punto dipende da fattori diversi, non determinati e non controllabili dal motore. Vero è che per giungere alla chiusura del cerchio, ovvero l’acquisto, è necessario che l’azienda abbia realizzato un modello di comunicazione completo, come quello descritto da Mauro nell’articolo citato, dove la promozione online si muove all’interno di un piano più ampio per la costruzione e la qualificazione della brand awareness, in una visione quindi che prevede, tra le altre, lo sviluppo di azioni di relazioni pubbliche e altre inziative online di tipo non pubblicitario.

  4. federico riva scrive:

    Il modello del PPA è troppo sbilanciato a favore del cliente (rispetto all’editore) ed è un modello commerciale tipico dei media immaturi. Io vorrei credere che Internet non sia ancora così immatura come lo sono tanti responsdabili marketing delle big companies. Anche la fininvest ‘vendeva’ in pay per action appena nacque; lo stesso fecero le radio commerciali. Il ppa non è di certo un futuro possibile, per nessun medium; e internet non è fa eccezione; i fatto che posso tracciare un’azione (cosa peraltro largamente sopravvalutata) non vuole infatti dire che devo pagare solo quella; è un’aporia i marketing.E’ inoltre strapieno di ricerche che dimostrano come internet e anche gli ‘asettici’ motori di ricerca, contribuiscano potentemente all’aumento di brand awareness; tanto è che in U.s.a la chiamano Web awareness. Il fatto è che fa comodo a molti dire che non è così. Purtroppo internet sconta la suerficialità degli anni passati e la crisi attuale, dove i primi budget a essere tagliati sono quelli dei media più moderni e meno ‘necessari’.Cmq mi sembrava che anche Mauro dicesse che su larga scala il sistema non è facilmente applicabile. Penso che Snap avràè vita molto breve. A guadagnare sono solo le società che intermediano e che non hanno il costo del traffico (come TD, Zanox e CJ). Gli editori invece sono ‘forzati’ a svendere quello che non possono vendere. D’altronde è molto più facile prendere un bonus per un acquisto di 20 milioni di pubblicità su Canale 5 che trattare con diversi soggetti per impostare una massiccia campagna internet, anche di branding…la ricerca di Eurisko parla molto chiaro a questo proposito.

  5. cagliostro scrive:

    interessante peccato che il ppa sia soggetto a troppe, ma dico tante e troppe frodi. lato advertiser, lato affiliate. rif. commenti di thomas grones su imli.com
    http://www.imli.com/imlog/archivi/000503.html#more

  6. Enrico scrive:

    Caro Federico, sarà che non sono un esperto di questo specifico settore, forse avrò di internet una visione più generale e poco “tecnica”, ma continuo a credere che la “natura” di internet è (dovrebbe essere) l’interattività: se chi naviga non “fa” qualcosa, manca il valore aggiunto del modello. Non necessariamente la vendita, come dicevo e come giustamente sottolineava Mauro; ma se il discorso si riduce ad una mera esposizione mi sembra che le potenzialità di comunicazione di internet vadano a farsi benedire: divenetrebbe come una TV con qualche milione di canali, ma sempre come una TV.

  7. federico riva scrive:

    Ciao Enrico. Purtroppo Internet è differente solo quando si vuole. Io dico una cosa semplice: il ppa non funzionas e per diversi motivi
    1) concettualmente scarica tutto il rischio sull’editore. Al contrario, comprare pubblicità significa comprare la possibilità di andare bene o male; non solo bene.
    2) di fatto decidono i merchant se il prodotto è stato venduto veramente o meno (ritorni, charge back etc.)
    3)il sistema di tracciamento non funziona affatto con i cookie come vogliono farci credere
    4) anche se il sistema dei cookie fosse ‘infallibile’ o anche solo decente, sono tantissi i casi in cui si cerca un prodotto/servizio al lavoro e lo si acquista con calma a casa. In questo caso i cookie rimangono sul pc dell’ufficio.
    Partendo da queste considerazioni che non sojno a mio parere falsificabili, bisogna vedere che cosa fare.
    Io dico che il PPC è già il massimo del compromesso che si possa raggiungere tra editore e cliente, posto che anche questa è una forma ‘unfair’ di advertising perché non mette in conto di tutto il branding che io offro alla società. Ti faccio un esempio; Conto Arancio e Ebay. Sono società che hanno investito molto on-line e lo hanno fatto sapientemente. Bene; più passa il tempo e meno persone non hanno accediuto almeno una volta al lro sito; iòl significa che una campagna in ppc ha una curva decrescente di efficienza dovuta al fatto che l’audience conosce sempre di più il prodotto e quindi non clicca banner, link testuali etc. Più pass ail tempo e meno queste società pagano per la pubblicizzazione dei propri prodotti o anche solo del proprio marchio. Questa situazione porta allora gli editori ad aumentare la visibilità dei suddetti marchi, non ottenendo altro che l’effetto contrario a quello cui dovrebbero puntare, ovverosia una maggiore monetizzazione del singolo utente unico che hanno sul sito.
    Il fatto che stiamo a parlare di pay per action per internet è segno che siamo ancora in un mercato fortemente immaturo. Non so quando le cose cambieranno, ma quando lo faranno sarà verso un modello più ‘tradizionale’ di pubblicità e non certo verso il pay per performance.

  8. Giuseppe scrive:

    Concordo con Federico Riva. Nessun advertiser si pone il problema, investendo 4 milioni di euro in una campagna sulle reti TV; comunque non potrà mai avere la percezione se la campagna è andata bene o male… anche auditel è uno strumento tuttaltro che utile…
    Il problema si pone quando l’advertiser decide di mettere sul piatto 20k da destinare a comunicazioni on-line. Si aspetta di avere molti risultati con poca spesa, e si aspetta che questi risultati siano misurabili in ‘n’ variabili, e si aspetta che i prospect diventino customers nel giro di due clicks.
    E’ un problema, credo, di approccio al mezzo. Nelle attività online il branding non è mai considerato. Se compero dieci milioni di impressions su Msn o 400.000 dem o un milione di newsletter, sto comunque facendo comunicazione, sto facendo branding, con l’opportunità in più di far interagire l’utente in qualche modo (anche questo da definire).
    Secondo me la bontà di una campagna online si trova in tre variabili: 1) qualità della creatività (spesso le creatività seguono logiche quantitative più che qualitative) 2) il media o i media di riferimento per il mio target (o nei quali cmq so di poter avere un’alta concentrazione del mio target) 3) i meccanismi di interazione che gli sono collegati: un minisito, un concorso, una community. Qualcosa che sia comunque in grado di mantenere la promessa fatta dalla creatività (che non tradisca le aspettative degli utenti) e che sia stimolante dal punto di vista emotivo.
    Quanto al CPC, non l’ho mai considerato un buono strumento. Al limite può essere utile il Costo per Acquisizione, ma solo quando ci si pongano obiettivi precisi, definiti, e non troppo ambiziosi.
    In realtà credo che, salvo poche eccezioni, siamo ancora – purtroppo – in fase di test… i risultati li vedremo fra qualche anno (e credo che ci saranno)

  9. Enrico scrive:

    Ringrazio Federico e Giuseppe per le loro delucidazioni. Ripeto: la mia visione manca sicuramente di profondità riguardo alla conoscenza dei meccanismi di questo mercato, e quindi le mie osservazioni peccano senz’altro di “eccesso teorico”. Mi sono trovato perticolarmente in linea con quello che sottolinea Giuseppe riguardo un elemento chiave del discorso: spesso manca una vera strategia complessiva della comunicazione online, soprattutto riguardo gli strumenti di costruzione, sviluppo e mantenimento delle comunità, elemento fondamentale e, mi sembra, spesso trascurato. Lasciatemi poi osservare, visto che è anche il mio lavoro, che la parte di relazioni pubbliche online, sia sotto il profilo della costruzione dei contenuti specifci come sotto quello delle tecnologie di diffusione e gestione, mi pare decisamente ancora arretrata. Ma questo è un altro ambito…
    Grazie ancora e buon lavoro.

  10. Alessandro scrive:

    Io mi chiederei perché le aspettative sono così alte rispetto all’offline. Non sarà che a forza di magnificare le virtù rivoluzionarie del mezzo internet adesso la gente vuole vedere le promesse mantenute ?

  11. Giuseppe scrive:

    Sicuramente sono stati creati dei miti sulle “virtù rivoluzionarie” di internet.
    Il problema credo nasca dal fatto che la maggior parte dei nostri interlocutori (e anche noi) è rimasta affascinata dai racconti nostri e dei media (ricordo i telegiornali del 1999 o del 2000 e gli inserti dei quotidiani e gli spot di Intel e Microsoft che all’epoca forse superavano in quota quelli di Mulino Bianco, e il Nuovo Mercato e l’autista dell’Avvocato che diventava ricco comprando azioni Tiscali). I media hanno fornito una visione – forse giustamente – futuribile del mezzo, senza dare strumenti adatti di comprensione dei meccanismi del mezzo (e questo è compito nostro, ed è anche una nostra colpa…)
    Passata la corsa frenetica per aggiudicarsi un banner o per mettere in piedi un sito vetrina che costava quanto una Maserati, siamo in una fase in cui chi ha speso (e anche chi non ha speso) vuole valutare attentamente tutto, seguire tutto, avere dati di redemption su ogni azione che compie online.
    Credo che molti di voi – come me – si trovino a lavorare quotidianamente con aziende che hanno database di clienti – anche grossi – ma non sanno cosa farci. O che hanno messo in piedi favolose operazioni basate sui New Media, ma non sono state in grado di ottimizzarle in tempo, e si sono scottate.
    Vedo però che qualcosa si sta muovendo, le Aziende stanno diventando più mature (ed è anche merito nostro), e forse ci stiamo spostando verso un modo più razionale di approcciare il mezzo…

  12. Enrico scrive:

    Mi unisco al (giustamente) cauto ottimismo di Giuseppe. E forse lo allargherei all’utilizzo della tecnologia in azienda in generale, che , effettivamente, passata la sbornia, diviene un po’ più consapevole. Anche se, non dimentichiamolo, la strada da fare è davvero tanta. Abbiamo discusso di PPC e PPA, ma basta guardarsi un po’ intorno e scoprire che ci sono siti di grandi aziende e banche che non sanno nemmeno rispondere a un email… Ognuno nella sua area: ragazzi, rimbocchiamoci le maniche.

  13. federico riva scrive:

    sono d’accordo con giuseppe. Anch’io ricordo bene, a volte con nostalgia irrazionale, i tempi della bolla. Ma chi si scotta con l’acqua calda ha poi paura anche dell’acqua fradda. Quindi sono tanti quelli che adesso prendono il web ‘con le molle’. Un atteggiamento sicuramente comnprensibile ma non giiustificabile. Io sono sempre stato contrario al ppa e – per quanto lavori in un ppc se ho anche dei subbi sul modello del pay per click, ma vorrei chiarire un aspetto della mia ‘polemica’; il web advertising è fortemente ‘meta’; in sostanza, i più grandi spender sono coloro che vendono in internet (prodotti o servizi). Questo è a mio parere il grande segnale di immaturità del mercato della pubblicità online; lo stesso Mauro Lupi, mella sua indagine sui top spender italiani, ha dimostrato quanto siamo ancora indietro. Il fatto che i siti di brand importantissimi siano costruiti in una maniera ‘eterodossa’, per lo meno per l’indicizzazione e il posizionamento nei motori di ricerca, è la prova che la situazione è ancora più grave del previsto; non solo la pubblicità in internet viene vissuta co superflua e accessoria; internet stessa è ritenuta tale; l’info-commerce è un fenomeno largamente sconosciuto e l’unico motivo per cui Internet non viene ancora presa seriamente è l’ignoranza. Ci troviamo allora in una situazione paradossale: da un lato i siti sono come costruiti come se fossero delle riviste. I grafici stessi, quando si avvicinano a dei brand importanti, tendono ad avvicinarsi ai canoni dell’off-line. Molti siti sono davverdo i puro brand. L’interazione non esiste, l’aggiornamento è scarso, non ci sono newsletter, forum, blog, niente; tante foto ad alta risoluzione e pagine da sfogliare come se si trattasse di un elegante catalogo; fino a qui tutto bene; contestualmente queste società vogliono comprare pubblictà in modalità ‘per performance’. Le due logiche stridono fortemente fra di loro e il risultato è una grande confusione del mercato pubblicitario.
    La stessa cosa accade nei confronti el mobile marketing; in Italia usiamo tutti il telefonino; all’estero ci prendono ampiamente in giro per le ore che passiamo incollati al cellulare. Bene; nella mia attività di vendita di pubblicità va SMS mi sono trovato anche qui di fronte a esigenze di tracking e interazione a tutti i costi. Nonostante ampia documentazione sulla grande web awareness che può portare un semplice sms o eglio ancora un mms sullo strumentoi che ci accompagna ogni giorno, ci troviamo di fronte a una barriera psicologica che spinge i direttori marketing a confondere l’efficacia della campagna con la sua interazione. Moltissimi non si rendono conto che ci sono prodotti che non si possono prestare all’interazione: automobili, alcolici, prodotti di bellezza colpiscono le nostre dimensioni più emotive e irrazionali; la direct response è invece frutto della razionalità. La logica del pay per click e della py per performance ha portato da un lato allo snaturamento di certi brand alla riceca dell’interazione, dell’advergame etc e dall’altro a un appiattimento assoluto della creatività impiegata nelle campagne internet, dove lo scaricamento del rischio sull’editore (attraverso il ppc e ancora di più attraverso il ppa) ha portato anche a un rilassamento creativo.
    BTW, stavo guardando le statistiche di Snap.com., I clienti continuano ad aumentare e i guadagni a diminuire. Adesso siamo a 100 Euro al giorno…Per ora non funziona per l’editore; quanto Snap chiuderà i battenti, non funzionerà più nemmeno per l’advertiserr.

  14. Seks scrive:

    Hello
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    Good Luck !
    Regards
    Darmowe Seks

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