Archivio: “Riflessioni”

Ieri pomeriggio c’è stata l’assemblea di IAB ed il rinnovo del Consiglio Direttivo. Poi ci tornerò prossimamente con un post specifico, anche perché c’è una cosa che è successa prima e che volevo condividere.

image Si tratta di un piccolo articolo che ho scritto per MIA, la newsletter del Gruppo Ammiro, pubblicata ieri mattina insieme a DailyNet e DailyMedia. 15 pagine ricche di dati, articoli e interviste: tra queste, quelle a Malcom Gladwell e Vito Di Bari. Il tema conduttore è il “punto di svolta” che a me ha stimolato una riflessione… su specchi, porte e finestre. Eccola qui.

Sta per entrare in vigore una nuova legge che interesserà la maggior parte delle aziende. Il regolamento prevede due norme principali: la prima impone l’eliminazione di tutti gli specchi all’interno dei locali aziendali; la seconda, la sostituzione degli specchi con porte e finestre, da tenere possibilmente aperte. Saranno quindi vietate le riunioni in cui si contemplano slogan pubblicitari e contenuti autoreferenziali, mentre saranno obbligatori dei meeting con chiunque voglia entrare in azienda e dire quello che gli pare. Attenzione: non è uno scherzo! Pur non esistendo un organismo che ha promulgato ufficialmente questa legge, sono semplicemente le persone che la stanno per imporre. Il potere è sempre più nelle mani dei singoli individui, i quali lo esercitano attraverso blog e community. “Power to the keyboards”: mouse e tastiere sono gli strumenti, community e social network sono gli ambienti nei quali le persone si stanno allenando a mettere le aziende nei loro target (e non più il contrario).
Sono molte le aziende e le organizzazioni che stanno affrontando questo nuovo scenario in modo consapevole e convinto. Ascoltano, sperimentano, capiscono. Hanno letto “Societing” di Fabris o, semplicemente, seguono le conversazioni online e magari partecipano pure. Poi ci sono quelle che ancora dormono o, peggio, si girano dall’altra parte. E quando scoprono che i loro (ex) clienti li stanno bistrattando su forum e social network, allora si stupiscono oppure pretendono di moderare, di nascondere le opinioni negative. Quello è il momento cruciale: la presa di coscienza che la relazione tra azienda e consumatore è cambiata radicalmente e che Facebook e Twitter non sono una moda passeggera, ma gli ultimi di una serie di strumenti che hanno definitivamente sancito l’importanza delle persone. Si tratta peraltro di un trend che tocca anche la comunicazione interna alle organizzazioni, specie quelle più grandi e complesse. Se il modo di interagire con gli altri a livello personale ormai utilizza fortemente applicazioni come Facebook, è naturale che si cerchi e si richieda il bottone “community” anche all’interno delle polverose intranet aziendali.
La rete è trasversale: uno strumento che è diventato cruciale per molti dipartimenti aziendali, non più solo per il marketing e la comunicazione. I meno avvezzi ne sono ancora un po’ intimoriti solo perché non ne vedono tutte le potenzialità o perché non hanno trovato un partner che le contestualizzi opportunamente all’interno della sua azienda. Ma di sicuro abbiamo già superato il punto di svolta che diversi anni fa indicai come cruciale, ossia il momento in cui nelle librerie i testi relativi ad internet non sarebbero più stati solo nel reparto informatica ma un po’ ovunque: dalla comunicazione ai media, dalla sociologia alla politica, dall’economia all’entertainment. Internet è trasversale, ed è inutile e poco profittevole mettersi di traverso.


Ieri pomeriggio c’è stata l’assemblea di IAB ed il rinnovo del Consiglio Direttivo. Poi ci tornerò prossimamente con un post specifico, anche perché c’è una cosa che è successa prima e che volevo condividere.

image Si tratta di un piccolo articolo che ho scritto per MIA, la newsletter del Gruppo Ammiro, pubblicata ieri mattina insieme a DailyNet e DailyMedia. 15 pagine ricche di dati, articoli e interviste: tra queste, quelle a Malcom Gladwell e Vito Di Bari. Il tema conduttore è il “punto di svolta” che a me ha stimolato una riflessione… su specchi, porte e finestre. Eccola qui.

Sta per entrare in vigore una nuova legge che interesserà la maggior parte delle aziende. Il regolamento prevede due norme principali: la prima impone l’eliminazione di tutti gli specchi all’interno dei locali aziendali; la seconda, la sostituzione degli specchi con porte e finestre, da tenere possibilmente aperte. Saranno quindi vietate le riunioni in cui si contemplano slogan pubblicitari e contenuti autoreferenziali, mentre saranno obbligatori dei meeting con chiunque voglia entrare in azienda e dire quello che gli pare. Attenzione: non è uno scherzo! Pur non esistendo un organismo che ha promulgato ufficialmente questa legge, sono semplicemente le persone che la stanno per imporre. Il potere è sempre più nelle mani dei singoli individui, i quali lo esercitano attraverso blog e community. “Power to the keyboards”: mouse e tastiere sono gli strumenti, community e social network sono gli ambienti nei quali le persone si stanno allenando a mettere le aziende nei loro target (e non più il contrario).
Sono molte le aziende e le organizzazioni che stanno affrontando questo nuovo scenario in modo consapevole e convinto. Ascoltano, sperimentano, capiscono. Hanno letto “Societing” di Fabris o, semplicemente, seguono le conversazioni online e magari partecipano pure. Poi ci sono quelle che ancora dormono o, peggio, si girano dall’altra parte. E quando scoprono che i loro (ex) clienti li stanno bistrattando su forum e social network, allora si stupiscono oppure pretendono di moderare, di nascondere le opinioni negative. Quello è il momento cruciale: la presa di coscienza che la relazione tra azienda e consumatore è cambiata radicalmente e che Facebook e Twitter non sono una moda passeggera, ma gli ultimi di una serie di strumenti che hanno definitivamente sancito l’importanza delle persone. Si tratta peraltro di un trend che tocca anche la comunicazione interna alle organizzazioni, specie quelle più grandi e complesse. Se il modo di interagire con gli altri a livello personale ormai utilizza fortemente applicazioni come Facebook, è naturale che si cerchi e si richieda il bottone “community” anche all’interno delle polverose intranet aziendali.
La rete è trasversale: uno strumento che è diventato cruciale per molti dipartimenti aziendali, non più solo per il marketing e la comunicazione. I meno avvezzi ne sono ancora un po’ intimoriti solo perché non ne vedono tutte le potenzialità o perché non hanno trovato un partner che le contestualizzi opportunamente all’interno della sua azienda. Ma di sicuro abbiamo già superato il punto di svolta che diversi anni fa indicai come cruciale, ossia il momento in cui nelle librerie i testi relativi ad internet non sarebbero più stati solo nel reparto informatica ma un po’ ovunque: dalla comunicazione ai media, dalla sociologia alla politica, dall’economia all’entertainment. Internet è trasversale, ed è inutile e poco profittevole mettersi di traverso.


Morgan Stanley - Utenti internet mobile vs. desktopSecondo Morgan Stanley nel 2013 gli utenti internet mobile supereranno quelli desktop (via gigaom; presentazione in parte già nota da novembre).

Mi pongo però alcune domande:

  • Nel 2013 cosa chiameremo mobile e cosa desktop? Sarà solo piccolo e trasportabile vs. ampio e statico? Non credo. E con internet of things come la mettiamo?
  • Se per mobile continueremo ad intendere device con schermo al di sotto dei 4 pollici, forse le previsioni di Morgan Stanley sono un po’ esagerate. A meno che venga sviluppata qualche killer application che riesca a impattare a livello sociale.

Che ne dite?


Ma quale “guru”! Meglio “evangelist”. Anzi, no, “ninja” è la qualifica giusta!

Ninjas su LinkedInSaranno contenti i cari amici Mirko e Alex, i ninja nostrani per eccellenza, ma pare che sia proprio quello il titolo professionale maggiormente in ascesa tra gli utenti di LinkedIn. Sul blog del popolare social network, scopriamo anche che “evangelist” ha superato “guru”.

Ora, al di là della simpatia e curiosità con la quale segnalo questi dati, vale la pena sottolineare che il concetto di “database of intentions”, coniato da John Battelle nel suo libro The Search (tradotto in italiano “Google e gli altri”), inizia ad applicarsi non solo in casa Google. Lo stesso Battelle ha ampliato il concetto recentemente, aggiungendo all’analisi del “what I want” rintracciabile dai motori di ricerca, anche:

  • what I buy (da Amazon, Ebay, ecc.)
  • who I am/who I know (da Facebook, ecc.)
  • what I’m doing/what’s happening (da Twitter, Facebook, ecc.)
  • where I am (da Foursquare, Gowalla, ecc.)

A questo possiamo quindi aggiungere anche “what’s my job” (da LinkedIn).

Una volta c’erano le istituzioni e i grandi istituti finanziari a sapere tutto di noi. Oggi gli archivi di Facebook potrebbero descriverci meglio di qualsiasi rapporto di intelligence.


Green Liquida

“E' nato Green Liquida, il magazine "verde" scritto da alcuni dei blogger italiani più competenti di ecologia, natura e futuro dell'ambiente. Progetto sostenuto da IBM”

Anche questo secondo me, rientra nel concetto content marketing. Guadagnare visibilità anziché acquistarla; o quantomeno acquistarla in modo diverso (mi riferisco a IBM naturalmente).

Salgo solo per un momento da un punto d’osservazione più in alto: e se una parte del web vivesse come oggi vivono molti musei e gallerie d’arte, ossia con il sostegno delle imprese? Si tratterebbe sempre di comunicazione pubblicitaria ma con la possibilità di declinare meglio i possibili coinvolgimenti sui contenuti. Ora che ci penso, inizio a vedere queste forme di “sponsorizzazioni 2.0”.

Come la vedete?


Più di dieci anni fa qualcuno definì internet come la più grande biblioteca mai realizzata, in cui però qualcuno si è divertito a buttare giù tutti i libri dagli scaffali. L’affermazione continua a rappresentare abbastanza bene la Rete dei nostri giorni, considerando però che i concetti di “abbondanza” e “disordine” continuano ad amplificarsi. Riguardo alla quantità dei contenuti generati e disponibili online, è impressionante constatarne il trend esponenziale di crescita, dovuto anche al fatto che crescono gli autori, i formati, ed i canali di pubblicazione e distribuzione.

Mentre di fronte a questa dirompente cascata di nuovi contenuti non possiamo far altro che constatarne la portata, per quanto concerne il tema del “disordine” vanno indubbiamente registrati svariati strumenti che stanno evolvendosi per aiutare gli individui a gestire anche questa “biblioteca” in cui i libri non solo aumentano, ma sono sempre più sparpagliati.

Il tema del disordine digitale è da anni ben descritto e analizzato da David Weinberger, a partire dal suo libro Everything Is Miscellaneous. In un recente convegno a Venezia, ha suggerito di abbandonare il concetto di gerarchia e di fonti che offrono la risposta perfetta: meglio pensare ad una risposta “abbastanza buona”. Che poi è la chiave per plasmare il concetto di “trasparenza” che sulla Rete va a sostituire quello di “obiettività” dei media tradizionali.

Gianni Degli Antoni, in un articolo su Epolis, auspica una competenza per sopravvivere alla complessità del mondo d’oggi: “capire i nessi fra i frammenti che ci pervengono. La conoscenza sui nessi ci aiuterà a deframmentare ciò che i media frammentano”. Maurizio Goetz, ha ripreso il pensiero di Degli Antoni collegandolo all’interessante definizione dei “generalisti creativi”.

Il problema è che le competenze per districarsi in questa mole di informazioni e sollecitazioni, non le insegna nessuno e sono lasciate all’istinto, al buon senso o all’intuizione dei singoli. L’esperienza conta poco, anzi, il maggior disagio è in casa dei meno giovani semplicemente perché hanno più cose da disimparare.

L’unico modo per affrontare una situazione la quale, se giudicata con metriche del passato, possiamo tranquillamente definire “di perenne approssimazione”, è prenderne atto. Se oggi ci sorprendono le migliaia di commenti gergali sui social network, o il cambiamento pressoché costante dei risultati di ricerca di Google, oppure la facilità con la quale fenomeni “virali” nascono, esplodono e muoiono, ebbene possiamo solo rassegnarci al fatto che sono situazioni che potranno solo amplificarsi ulteriormente nel futuro.


I primi i motori di ricerca classificavano le homepage dei siti in ordinate directory. Poi si sono messi a censire tutte le pagine che trovavano di ogni sito web. Quindi immagini, news, blog, video. Fino a fornire direttamente delle risposte, piuttosto che elencare solo link. Ora tocca a Twitter e Facebook finire in questi enormi archivi informativi, grandi e articolati come mai si è visto sulla faccia del pianeta.

Ogni volta si aggiunge un ulteriore un pezzo di tutto quello che l’uomo produce in formato digitale. Adesso è la volta del “real web”, delle conversazioni live. Magari in un prossimo futuro ci saranno dentro anche Messenger, Skype. E perché non anche gli SMS? Delegando la funzione di memoria a pochi ma fornitissimi contenitori tecnologici.

Rischioso e fuorviante analizzare il fenomeno con le metriche del passato. Serve una concezione diversa per attribuire un significato nuovo a diverse parole chiave: contenuto, autore, autorevolezza, senso, tempo, e chissà quante altre.

Sicuramente, nel tempo che hai impiegato a leggere questo post, ci sono stati migliaia di interventi da parte di altrettante persone in ogni parte del globo, che avrebbero potuto interessarti più di questo. Forse ci capiterai un giorno, forse no. Ma potenzialmente ne avevi l’accesso. È il disagio che fornisce l’abbondanza

Ed è uno dei prezzi che vale la pena di pagare. Anche se questo “caos rapido”, per alcuni, diventa (più o meno consapevolmente) una licenza per invitare all’omicidio o inneggiare cause becere e offensive. O solo a produrre stupidate. Scorie inevitabili di un mondo che si digitalizza ed i cui strumenti di accesso e filtro (Google, Bing, Yahoo!), non solo contengono “tutto”, ma iniziano a comprendere “tutti”.


Google ASCII La faccenda è quella di FIEG che ritiene dominante la posizione di Google per cui ha fatto intervenire l'Antitrust e la Guardia di Finanza. Ci sono parecchi angoli di osservazione della vicenda; qui ne riporto alcuni.

Parto da un commento ad un post di Luca De Biase che riprende un brano di un pezzo di Armando Torno su corriere.it, il quale fotografa lo scenario generale del valore dei contenuti: “la retri


“La Commissione Ue esorta gli Stati Membri a dare ripetizioni ai propri cittadini perché sono spesso analfabeti digitali”. Parte così l’Ansa di ieri pomeriggio relativa alle raccomandazioni del commissario per i Media e la Società dell’informazione, Viviane Reading, ripresa stamattina da IlSole24Ore il quale aggiunge:

Non sapere usare i social network come Facebook e Twitter ed essere incapaci di usare un motore di ricerca significa essere tagliati fuori dalla società contemporanea

Invece mi sembra che le Istituzioni nostrane abbiano escluso Internet dai loro piani strategici. Ok, c’è tutto il can can sulla banda larga, il wi-fi nelle città, e così via. E a più riprese (penso agli interventi di Gentiloni prima e Romani poi agli ultimi IAB Forum milanesi) il governo ha sottolineato che si concentrerà sulle infrastrutture e basta. Invece l’auspicio della Commissione Europea all’education è netto e riporta anche un dato secco (dal pezzo su IlSole24Ore):

Il 24% dei cittadini UE senza internet a casa afferma di non averlo poiché non sa usarlo

Non si tratta quindi di portare un “attrezzo” a casa delle persone: significa insegnare a capirlo, valorizzarlo ed usarlo. E ciò vale il doppio se pensiamo alle aziende, per le quali la Rete è un elemento competitivo il cui impiego esteso dovrebbe essere obbligatorio per legge! In una società non propriamente veloce nel recepire le nuove tecnologie come quella italiana, l’inesperienza e la disinformazione rischiano di trasformare la disponibilità di internet in un problema anziché in una opportunità.

Talvolta noi del settore additiamo alle aziende l’incapacità di utilizzare la Rete in modo strategico. Indubbiamente ci sono ritrosie e diffidenze frutto di cambiamenti che spaventano, protezione degli status quo, paura di mettersi in gioco. Ma è anche vero che la portata di queste innovazioni necessita una formazione continuativa, un supporto strategico e operativo che è parte stessa dell’innovazione. Se non si coglie questo aspetto, saremo sempre lì a giochicchiare con le mode del momento lasciando le aziende disorientate a scegliere soluzioni apparentemente sicure anziché avventurarsi nella complessità della Rete.

È un argomento a cui tengo molto e sui cui proverò a lavorare nei prossimi mesi. Ben vengano suggerimenti e spunti su cui ragionare.


“La Commissione Ue esorta gli Stati Membri a dare ripetizioni ai propri cittadini perché sono spesso analfabeti digitali”. Parte così l’Ansa di ieri pomeriggio relativa alle raccomandazioni del commissario per i Media e la Società dell’informazione, Viviane Reading, ripresa stamattina da IlSole24Ore il quale aggiunge:

Non sapere usare i social network come Facebook e Twitter ed essere incapaci di usare un motore di ricerca significa essere tagliati fuori dalla società contemporanea

Invece mi sembra che le Istituzioni nostrane abbiano escluso Internet dai loro piani strategici. Ok, c’è tutto il can can sulla banda larga, il wi-fi nelle città, e così via. E a più riprese (penso agli interventi di Gentiloni prima e Romani poi agli ultimi IAB Forum milanesi) il governo ha sottolineato che si concentrerà sulle infrastrutture e basta. Invece l’auspicio della Commissione Europea all’education è netto e riporta anche un dato secco (dal pezzo su IlSole24Ore):

Il 24% dei cittadini UE senza internet a casa afferma di non averlo poiché non sa usarlo

Non si tratta quindi di portare un “attrezzo” a casa delle persone: significa insegnare a capirlo, valorizzarlo ed usarlo. E ciò vale il doppio se pensiamo alle aziende, per le quali la Rete è un elemento competitivo il cui impiego esteso dovrebbe essere obbligatorio per legge! In una società non propriamente veloce nel recepire le nuove tecnologie come quella italiana, l’inesperienza e la disinformazione rischiano di trasformare la disponibilità di internet in un problema anziché in una opportunità.

Talvolta noi del settore additiamo alle aziende l’incapacità di utilizzare la Rete in modo strategico. Indubbiamente ci sono ritrosie e diffidenze frutto di cambiamenti che spaventano, protezione degli status quo, paura di mettersi in gioco. Ma è anche vero che la portata di queste innovazioni necessita una formazione continuativa, un supporto strategico e operativo che è parte stessa dell’innovazione. Se non si coglie questo aspetto, saremo sempre lì a giochicchiare con le mode del momento lasciando le aziende disorientate a scegliere soluzioni apparentemente sicure anziché avventurarsi nella complessità della Rete.

È un argomento a cui tengo molto e sui cui proverò a lavorare nei prossimi mesi. Ben vengano suggerimenti e spunti su cui ragionare.


“Come posso fornire contenuti o servizi esclusivi ai miei clienti più affezionati?” È più o meno questa una delle esigenze di un cliente che sto seguendo. La domanda non solo è legittima, ma nel passato anche più recente è stata soddisfatta efficacemente in svariati modi: informazioni in anteprima, prove dei prodotti, fidelity card, offerte esclusive, ecc.

Sarà il caldo di questi giorni a favorire la riflessione, ma ho iniziato a pensare che la Rete cambi anche il concetto di “clienti più affezionati”, andando a mettere in discussione l’usuale doppio binario con consumatori normali da una parte e i “top client” dall’altra, almeno per quanto riguarda le attività di comunicazione online e le iniziative ad esse collegate.

Se è vero che stiamo passando dai mercati di massa ad una massa i mercati, sono le persone stesse che si auto-segmentano, distribuendo il loro tempo su molteplici canali e strumenti, assegnando a ciascuno di essi un tempo sempre più contratto. Ne deriva che una stratificazione aggiuntiva (normali vs. affezionati), rischia di polverizzare ulteriormente l’attenzione e di rendere meno efficienti le iniziative verso élite dai contorni sempre più sfumati.

La logica è quella che caratterizza le inserzioni sui motori di ricerca, le quali sono prodotte dall’autoprofilazione degli utenti attraverso alla loro chiave di ricerca. Ebbene, penso che le aziende dovrebbero rivolgersi a tutti i loro consumatori come se fossero “top client”, lasciando che ognuno di loro autodetermini il significato dell’aggettivo “top”. Insomma, proviamo a dare a tutti il potere di meritarsi uno sconto, un’informazione in anteprima e via dicendo.

Naturalmente continueranno ad esistere cluster differenti per modalità di fruizione dei prodotti, frequenza di acquisto, valori associati al brand, ecc. Il punto è che molte di queste iniziative “esclusive” sono oggi gestibili con tecnologie sempre più versatili ed economiche, tanto da permettere di poter esaltare tutte le svariate forme di élite che si trovano nella lunga coda del proprio mercato di riferimento.


Oggi ho avuto una giornata molto intensa, in giro come una trottola (tanto per cambiare). Con la solita preoccupazione con cui apro l’aggregatore di feed RSS quando passo una giornata off-line, speravo di trovare meno post da leggere per via dello “sciopero dei blog” proclamato per oggi.

Ho notato una certa diminuzione, ma nulla di particolare, almeno tra i circa 150 blogger italiani che seguo. Meglio così: vuol dire che non sono il solo a pensare che uno strumento di comunicazione come i blog, al momento in cui si usa per condividere una causa, tutto deve fare fuorché tacersi. Anzi"! Urlare, non tacere, come scrive Gigi.

Semmai, proprio in queste occasioni, blog e social network dovrebbero “mettersi il vestito buono” in termini di contenuti, proprio per affrontare in modo responsabile e costruttivo un’idea collettiva. Ovviamente sono molti i blog e le community che indossano perennemente “il vestito buono” (almeno per quello che intendo io); il punto è che questo silenzio dei blog non fa rumore.


Umanità accresciuta - Giuseppe Granieri Se Blog Generation è stato il manifesto del momento di esaltazione dei blog, e La Società Digitale ha provato a individuare i prossimi confini della società e della comunicazione per via della Rete, il nuovo libro di Giuseppe Granieri, Umanità Accresciuta, prende le nuove tecnologie e le incastra negli individui descrivendone i possibili impatti.

Il sottotitolo “Come la tecnologia ci sta cambiando” rivela l’ambizione del libro, il quale ha indubbiamente il merito di scavare nel modo di intendere luoghi virtuali e oggetti elettronici, piuttosto che nel cambiamento delle relazioni tra individui. Approfondito è il tema del “vissuto virtuale”, frutto anche della grande esperienza di Granieri riguardo a Second Life e affini, così come dei mutamenti derivanti dalla connessione fisica dell’uomo alla Rete mediante chip e altre apparati. Analisi questa che giustamente solleva anche molti interrogativi, preoccupazioni e la necessità di una nuova consapevolezza delle opportunità così come dei pericoli.

Su questo, Granieri auspica un “dovere di elaborare, nei limiti consentiti da un modello che corre sempre più veloce delle istituzioni e dell’istruzione, una direzione che ci consenta di impostare una buona consapevolezza (o almeno di riconoscere) il mondo che stiamo preparando ai nostri figli”.

Il punto è che i cambiamenti in atto modificano (talvolta sconvolgono) molte attività e relazioni, ed il modo giusto per affrontarli richiede una coscienza ed un livello informativo che istituzioni, scuola e famiglia non riescono più soddisfare. Da qui l’affermazione che “Conoscere è la nostra prima, rinnovata, responsabilità”, ed è un compito che va ricercato a livello individuale, così da dominare il ruolo e l’impatto del “sé digitale” di cui si riprende una lucida interpretazione di Granelli.

Condivido questo pensiero. Per secoli abbiamo ritenuto che la formazione degli individui fosse un compito di istituzioni, scuola e famiglia (in un ordine che ha cambiato nel tempo le priorità). Oggi se è vero che la Rete sta esaltando il “potere” dei singoli, contemporaneamente costringe a porsi quesiti e a risolvere problemi del tutto inediti. Scrive Granieri:

Ampliando le nostre opportunità e la nostra gamma di azione, i network ricentrano moltissimo le attività sociali dell’individuo e ridisegnano le potenzialità (il “potere” direbbe qualcuno) di ciascuno di noi. Ma non lo fanno come una flebo o una pillola, non basta connetterci per essere migliori, per avere più potere, più peso all’interno delle nostre vite. Ce lo consentono, a determinate condizioni, me le condizioni dobbiamo essere in grado di crearle. E dobbiamo farlo da soli.


Umanità accresciuta - Giuseppe Granieri Se Blog Generation è stato il manifesto del momento di esaltazione dei blog, e La Società Digitale ha provato a individuare i prossimi confini della società e della comunicazione per via della Rete, il nuovo libro di Giuseppe Granieri, Umanità Accresciuta, prende le nuove tecnologie e le incastra negli individui descrivendone i possibili impatti.

Il sottotitolo “Come la tecnologia ci sta cambiando” rivela l’ambizione del libro, il quale ha indubbiamente il merito di scavare nel modo di intendere luoghi virtuali e oggetti elettronici, piuttosto che nel cambiamento delle relazioni tra individui. Approfondito è il tema del “vissuto virtuale”, frutto anche della grande esperienza di Granieri riguardo a Second Life e affini, così come dei mutamenti derivanti dalla connessione fisica dell’uomo alla Rete mediante chip e altre apparati. Analisi questa che giustamente solleva anche molti interrogativi, preoccupazioni e la necessità di una nuova consapevolezza delle opportunità così come dei pericoli.

Su questo, Granieri auspica un “dovere di elaborare, nei limiti consentiti da un modello che corre sempre più veloce delle istituzioni e dell’istruzione, una direzione che ci consenta di impostare una buona consapevolezza (o almeno di riconoscere) il mondo che stiamo preparando ai nostri figli”.

Il punto è che i cambiamenti in atto modificano (talvolta sconvolgono) molte attività e relazioni, ed il modo giusto per affrontarli richiede una coscienza ed un livello informativo che istituzioni, scuola e famiglia non riescono più soddisfare. Da qui l’affermazione che “Conoscere è la nostra prima, rinnovata, responsabilità”, ed è un compito che va ricercato a livello individuale, così da dominare il ruolo e l’impatto del “sé digitale” di cui si riprende una lucida interpretazione di Granelli.

Condivido questo pensiero. Per secoli abbiamo ritenuto che la formazione degli individui fosse un compito di istituzioni, scuola e famiglia (in un ordine che ha cambiato nel tempo le priorità). Oggi se è vero che la Rete sta esaltando il “potere” dei singoli, contemporaneamente costringe a porsi quesiti e a risolvere problemi del tutto inediti. Scrive Granieri:

Ampliando le nostre opportunità e la nostra gamma di azione, i network ricentrano moltissimo le attività sociali dell’individuo e ridisegnano le potenzialità (il “potere” direbbe qualcuno) di ciascuno di noi. Ma non lo fanno come una flebo o una pillola, non basta connetterci per essere migliori, per avere più potere, più peso all’interno delle nostre vite. Ce lo consentono, a determinate condizioni, me le condizioni dobbiamo essere in grado di crearle. E dobbiamo farlo da soli.


Ormai non si riesce più a definire cos’è un brand. Per anni si è detto (e si è studiato) che una marca è la somma dei valori associati ad un prodotto e interi reparti delle aziende sono impegnati quotidianamente (e con grandi risorse) su tutto quello che ruota attorno al branding: comunicazione, pubblicità, brand protection e così via.

Da qualche tempo ci si interroga invece su quanto i singoli individui (e quindi i destinatari, gli acquirenti e i fruitori delle marche), stiano prendendo possesso dei brand. Non solo li scelgono con maggiore consapevolezza, ma ne plasmano i significati (talvolta aggiungendo valore) insieme ad altre persone come loro.

Sta poi avvenendo un’altra cosa: i brand non sono più solo rappresentati da logotipi e altri elementi intangibili supportati da massicce campagne di comunicazione, ma attraverso le persone delle aziende proprietarie dei rispettivi brand. Questo trasforma la relazione che già si è fatta da tempo multi-touch point, ad una situazione “molti a molti”, in cui non sono occorre seguire i consumatori su mille canali e device, ma poi ci si relaziona direttamente con loro mediante molteplici soggetti aziendali. E se qualche dirigente inizia a “metterci la faccia”, peraltro in modo prudente e circoscritto, servono nuove membrane tra le imprese ed il mondo esterno, persone che siano in grado di rappresentare le organizzazioni in ambienti nuovi come, ad esempio, i social network e le community online.

C’è chi ha iniziato a osare,a sperimentare, a capire. Si possono seguire dei riferimenti ma non c’è una scuola o dei manualetti che ti spiegano come fare. Serve il feeling con le comunità, con i tool, con le nuove consuetudini delle relazioni via internet. Alcune aziende sono spaventate, temono che succeda un pandemonio a lasciare parte del controllo a singoli individui (seppur collaboratori interni). Puntualmente, si scopre invece che la relazione tra individui è quella che preferiamo, anche quando abbiamo a che fare con persone con un cappello aziendale, ma che rappresentano l’azienda con una faccia e non da dietro a un asettico brand. Questa divertente discussione su Friendfeed di qualche giorno fa, fotografa bene la situazione.


Hai presente l’effetto che fa un bel negozio con l’aria condizionata per chi sta costantemente in mezzo al traffico rumoroso e pieno di smog? Beh qualche giorno fa ho provato una cosa del genere. La metropoli incasinata e insopportabile è il momento di mercato che stiamo vivendo un po’ tutti, fatto non solo di recessione ma di apparente sospensione di volontà, idee, stimoli, fiducia. La ventata di aria fresca è stato invece l’evento Frontiers of Interaction, che si è tenuto a Roma qualche giorno fa.

Come ha twittato Riccardo Luna (che finalmente ho conosciuto de visu proprio in questa occasione), sui contenuti di Frontiers of Interaction ci si potrebbero fare tre di numeri di Wired. Con Leandro Agrò che è uno degli ideatori del progetto ormai da alcuni anni, discutevamo di quanto sia però complicato trasformare l’energia, l’innovazione, le idee viste “alle Frontiere” in interesse concreto da parte delle organizzazioni, sia pubbliche che private.

Una parte del problema penso sia legato alle aziende che tengono spente le antenne dell’innovazione. Talvolta i team di ricerca & sviluppo sono concentrati troppo sul breve periodo o su innovazioni incrementative e non di rottura. In altri casi, i team che dovrebbero fare da membrana tra l’azienda e il mondo degli anni successivi, non sono impostati per filtrare davvero gli stimoli giusti oppure, se lo fanno, cozzano con gerarchie impastate con i loro status quo. Un esempio: un funzionario di un grande gruppo bancario mi raccontava di aver testato con successo un tipico servizio 2.0 che consente di accedere a decine di migliaia di creativi a cui sottoporre un brief di comunicazione, peraltro a condizioni competitive. Pensate la faccia che ha fatto l’agenzia di comunicazione della banca, messa in competizione con una linea di fuoco di migliaia di cervelli a cui, anche solo statisticamente, nessuna struttura tradizionale potrà compararsi per efficienza, costi, probabilità di azzeccare l’idea giusta, ecc.

Ma bisogna stare con i piedi per terra e guardare una realtà italiana che purtroppo continua a indietreggiare (e lo dice un ottimista cronico). Siamo un paese che invecchia e che ha la metà della popolazione passiva, e ciò non stimola certo il cambiamento. Internet modificherà le cose? Mah, forse, ma solo in parte. D’altronde finché la Rete ancora non sarà in grado di spostare voti (e concordo con Stefano Epifani), il suo impatto, che ci piaccia o no, non avrà la forza che riscontriamo in altri paesi nei quali ha senso parlare di “nuovo inizio”, come auspica Luca De Biase. Invece, da queste parti invece, dobbiamo riscontrare l’ennesimo decreto “disordinato” che cerca inutilmente di normare forzosamente meccanismi che sono oggettivamente fuori da quel controllo a cui anelano alcuni governanti.

Mi sa che l’unica speranza è che all’improvviso dal nuovo marchietto Magic Italy, qualcuno faccia davvero una magia. Ecco, un bel genio della lampada che trasformi questo Paese diventato la barzelletta del mondo, in un luogo capace di valorizzare di nuovo la genialità delle sue genti. Ovviamente non ci sarà nessun genio, nessuna magia, nessuna soluzione facile e immediata.

A questo punto, io applico un metodo simile a quando si pianifica una campagna pubblicitaria online: non è fondamentale identificare tutti i siti del web o solo quelli più popolari o più autorevoli, tanto alla fine si paga per il numero di utenti effettivamente raggiunti in base alle proprie esigenze. Così io provo a guardare là dove c’è innovazione, voglia di cambiare, idee, etica, coerenza. Si tratta di rare isole felici, ma esistono e provo a farmele bastare.


Qualche giorno fa discutevano con degli amici sugli ultimi libri letti e del fatto che nel 99% dei casi le mie letture sono dedicate a saggi legati in qualche modo alla mia professione. “Ma un bel romanzo, no?” è stata la domanda chiave.

È vero, sarebbe indubbiamente utile leggere qualcos’altro, ma dovendo decidere su non più di un libro al mese, che è il massimo che riesco normalmente a macinare, la scelta alla fine ricade sempre tra i testi annotati come “quelli da leggere” (attualmente ne ho ancora un paio in backlog).

Altra domanda, questa più impegnativa: “Ma i libri che trattano di scenari futuri, non rischiano di portarti fuori strada quando poi li riporti sulla realtà italiana?”.

È vero anche questo; si tratta di un rischio che conosco e che cerco di affrontare con pragmatismo. In pratica, tento di mediare gli slanci su trend e cambiamenti più o meno prossimi, con il daybyday fatto in casa delle aziende, sviluppando di fatto un senso critico che cerca di adeguare il presente tenendo presente di quello che sta succedendo (o che è già successo ma a distanza di un oceano). Una specie di cambio di fuso orario, con la consapevolezza che il jet lag crea inevitabilmente un po’ di confusione.


Sta succedendo. Internet collega persone e cose da oltre 15 anni, ma ormai non è più solo comunicazione: è un flusso continuo di dati e informazioni. È un contenitore di materiale vivo, che si trasforma, che si adatta e che modifica il suo stesso contenitore. Twit, feed, stream, post: atomi di contenuti incrociati senza governo.

Prendo nota di qualche punto di luce, recente o meno, in questo magma di segnali sparsi tipici dei nostri tempi liquidi:

  • “Streams vs. pages” sottolinea il lungo articolo di John Borthwick (via Stefano Quintarelli): media chiaramente non finiti, in costante evoluzione.
  • “Epoca della sovrascrittura”, come la definì Gianluca Nicoletti in un convegno lo scorso anno, in cui i contenuti si sovrappongono l’un l’altro, fino a sviluppare mashup che si appropriano del concetto di arte (citofonare Maurizio Goetz che ne è un collezionista; l’ultimo? Beat it + Viva la Vida).
  • Sarà poi il turno di Google Wave: quando sarà disponibile, probabilmente contribuirà a scrivere la nuova geografia del real-time, come giustamente sottolinea Alberto D’Ottavi.
  • E le aziende? Beh, possono prendere spunto dalla strategia Foreverism, sintetizzata nel consueto accattivante modo dai consulenti di Trendwatching, sapendo comunque che non basta un account Twitter per entrare nell’era dei touch-point di nuova generazione.

Già nel 2003 Joe Ito riprendeva dal libro Beyond Culture (scritto nel


Sarò retrogrado ma l’educazione ed il rispetto dovrebbero venir prima delle tecnologie… Per cui se siamo in un meeting o al telefono, penso sia giusto pretendere la reciproca attenzione anziché inseguire e rimbalzare tra i trilli degli SMS, i campanelli di Messenger, gli status dei social network, i ding dong delle email in arrivo e così via.

Tentare di sfoggiare questo svolazzamento tra device e applicazioni in contemporanea, non fa altro che dimostrare quanto si è gestiti dalle tecnologie e dagli eventi (e non invece il contrario). Io penso che l’inefficienza (ed il conseguente stress) siano direttamente proporzionali alla quantità di interruzioni a ciò che si sta facendo.

Siamo nella Settimana Nazionale della Sicurezza in Rete, Virgilio propone una Netiquette 2.0, ma poi tocca constatare che è la buona educazione quella che manca… (Che si è capito che di recente ho partecipato ad una riunione “storta”?)

Proprio mentre stavo scrivendo queste note, il buon Luca segnalava su un lungo articolo sul New York Magazine intitolato The Benefits of Distraction and Overstimulation. Da leggere per chi si interessa di come sta cambiando l’attenzione e la capacità di concentrazione del genere umano.


Penso che a molti professionisti che si occupano di internet gli sia stato chiesto almeno una volta: “Ma cosa posso fare con internet?”, naturalmente declinato nelle varie forme: “Come posso vendere su Facebook?”, “Come posso fare un video virale?”, fino all’irresistibile “Come faccio a far parlare i blogger dei miei prodotti?”

L’avranno già scritto in tanti, ma va parafrasata per l’ennesima volta la nota frase di John F. Kennedy: non chiedere cosa internet può fare per te, ma cosa puoi fare te per internet!


Da una news dell’ANSA a proposito di una ricerca commissionata dalla Camera dei Deputati, emerge che:

  • Il 58,5% degli italiani utilizza internet
  • Chi non utilizza internet lo fa perché non ha le competenze (46%) o perché non gli interessa (43%)

Questo significa che sono più o meno 9 milioni di persone che non usano internet perché non lo sanno usare (o pensano di non saperlo usare). Ecco, è qui che occorrerebbe lavorare. Non solo continuare a sottolineare quanto sia importante la Rete: la maggior parte delle persone questo lo ha capito da un pezzo. Bisognerebbe spiegare concretamente, far “usare” internet per davvero. È qui che vedrei un intervento istituzionale serio, rivolto ad arginare quello che è il nuovo analfabetismo.


Ieri, dopo la conferenza stampa in cui è stato presentato Omnicom Expo, uno studente di Scienze della Comunicazione mi ha posto alcune domande. Ha chiesto dei temi del convegno IAB, e quindi sull’integrazione tra media tradizionali e internet, e poi ha virato sui temi che, mi è parso, gli interessassero (giustamente) di più: quali opportunità offre la Rete ai giovani dal punto di vista professionale?

Ho provato a difendere in qualche modo la necessità di una formazione accademica (anche IAB messo in piedi un Master assieme all’Università Cattolica di Milano), ma è evidente lo “stacco” che questi ragazzi si trovano a dover affrontare quando poi entrano in contatto con le aziende. E mi rendo conto non è del tutto confortante sapere che ormai “l’autoformazione” è una componente essenziale dalle parti della Rete

Professioni e internet è peraltro l’argomento di un’intervista che va in onda oggi su Radio24 (alle 13.50 e poi alle 22.05) in cui ho accennato ad alcune delle figure professionali che mi sembra godano di buone prospettive.

E sempre a proposito di formazione e giovani (molto giovani, in questo caso), ripropongo qua un video già segnalato da Stefano, in cui si esalta il punto di vista di alcuni studenti di dodici anni. I miei figli ormai sono quasi quindicenni, ma ritrovo nel video alcune delle loro tipiche istanze.


Negli ultimi giorni ho avuto alcune occasioni per confrontarmi con aziende, organizzazioni e colleghi in merito all’utilizzo di internet nelle strategie di complessive di comunicazione. Ho trovato conferma di alcuni punti:

  • Internet non è (solo) un media. Analizzare e pianificare la Rete solo con le tecniche pensate per i media tradizionali è limitativo e non consente di sfruttare e interpretare le sue peculiarità. La semplice costatazione che almeno un quarto del tempo passato online riguarda l’uso di strumenti di networking (messenger, social network, blog), evidenzia una situazione in cui il “media” si basa in buona parte su contenuti e ambienti create dalle persone e non solo da editori o professionisti della comunicazione.
  • È opportuno distinguere l’approccio alla Rete se ci si riferisce al suo impiego in chiave pubblicitaria (dove la sfida è proprio quella di normalizzare le metriche di analisi dell’efficacia con quelle degli altri mezzi), da quello sempre più rilevante di strumento di conversazione. Mischiare le cose, rischia di partorire solo improbabili ibridi in cui si cerca di ricondurre i media partecipati ad un flight pubblicitario.
  • Una eventuale terza distinzione va fatta per quelle iniziative sperimentali (non nel senso della sofisticazione, ma nella limitata prevedibilità di risultati), siano esse di apertura graduale verso un vero confronto con i consumatori, oppure di ardite idee creative di comunicazione.
  • Diventa sempre più evidente come non esistono risposte univoche sul come integrare internet nel marketing-mix e sul come utilizzane al meglio i suoi strumenti. Il consolidato di anni di esperienze nei media tradizionali, lascia il terreno ad un inevitabile approccio “trial and error” in cui le iniziative empiriche “learn by doing” risultano essere quelle che generano il knowledge più concreto, efficace e aggiornato.
  • L’evidente articolazione degli strumenti online e la complessità che ne deriva, possono essere tramutati in opportunità solo se la relazione tra azienda e partner esterni (agenzie, centri media, consulenti) riesce ad evolversi, ponendo tutte le figure professionali su un piano collaborativo piuttosto che di un mera relazione cliente/fornitore.

Sono riflessioni pensate soprattutto in relazione agli spender pubblicitari e un po’ meno per le PMI, nel tentativo di cercare di fare ordine (o quanto meno di limitare il caos) nel modo di inquadrare internet all’interno delle organizzazioni. Sapendo bene che lo scenario è e sarà in continua evoluzione. Beh, serve a mantenersi giovani, no?


Leggevo la bella intervista ad Alberto Alessi rilasciata al The McKinsey Quarterly a proposito di come l’omonima azienda “coltiva” l’innovazione. Qui solo un passaggio:

“The destiny of a company like Alessi is to live as close as possible to the borderline, where you are able to really explore a completely unknown area of products. The problem is that the borderline is not clearly drawn. You cannot see with your eyes where it is. You can only sense these qualities.”

Mi sono tornati in mente i recenti appunti di Luca De Biase sullo storytelling a margine dell’evento Venice Sessions. Luca scrive a proposito delle storie delle aziende:

“Non sono i giornalisti che devono raccontare le storie. Il loro imprinting professionale è quello della spersonalizzazione. Forse questo è in via di correzione. I blog lo insegnano. Ma intanto i giornalisti possono mettersi al servizio di coloro che sono protagonisti di storie importanti per aiutarli a raccontarle se occorre. Sono i protagonisti che devono volerle raccontare. Sperando che credano fino in fondo che sono importanti [...]. In realtà, il racconto di ciascuno costruisce networking e abilita l'emergere di un discorso comune nell'epoca della complessità.”

È un argomento che ritengo fondamentale nell’evidente necessità di rinnovare il modo di comunicare da parte delle aziende e delle organizzazioni. Giustamente Maurizio scrive:

“Se i Social Media e i Social Network, stanno entrando lentamente nelle priorità delle aziende, altrettanto non accade per le strategie per i contenuti per il web. Si sono mai chieste le imprese se i contenuti che immettono in rete sono realmente utili, divertenti o comunque graditi ai loro diversi interlocutori?”

Io continuo a ritenere che lavorare su un blog aziendale sia uno dei modi più razionali per avviare il processo di cambiamento, senza particolari rischi e con la possibilità  di allenarsi con gradualità al confronto e al dialogo.

Buone storie a tutti.


Le scorse due settimane sono state un concentrato di convegni, master formativi e meeting vari. Dal Summit UPA, a lezioni che ho tenuto per IULM e IlSole24Ore, dai convegni sulla Web Analitycs e sui Social network ad un incontro riservato alle aziende UPA insieme a IAB.

In particolare in occasione del WAS, è tornato fuori l’opinione riguardo al formato che dovrebbero avere determinati eventi per favorire la diffusione della conoscenza della Rete e delle sue opportunità per il business. Ho sentito e letto diversi pareri (tra gli altri Alessio, Marco, Tommaso) secondo cui sarebbero da preferirsi gli eventi gratuiti come IAB Forum perché altrimenti le aziende non sono motivate a partecipare. Non sono d’accordo e cerco di sintetizzare il perché.

Premesso che ho sempre cercato di fare education in tutti i modi che ritenevo coerenti e produttivi, c’è un limite che talvolta si supera che è quello di regalare del tutto competenze e professionalità. Ecco, l’evento gratuito rischia di accentuare ulteriormente una situazione tutta italiana in cui il valore professionale è sottovalutato (o non pagato affatto). IAB Forum ha senso ma riesce a fornire un equilibrio anche per via delle decine di sponsor che finanziano il tutto attraverso un grande Expo.

Trovo invece che ci sia qualcosa che non va se i professionisti del settore per promuovere i propri servizi, debbano investire sponsorizzando eventi gratuiti e per di più che proporre gratuitamente dei contenuti formativi di qualità. Il risultato è quello di dover ricaricare tali investimenti sui clienti, col rischio di apparire fuori mercati o di favorire altre organizzazioni.

Ma il vero problema, che poi penso sia uno di quelli che è alla base del ritardo italiano rispetto ad internet, è quello di abbassare e di molto la percezione del valore dei professionisti della Rete. Il valore attribuito ad una cosa regalata è sempre basso, così come non paga mai nel lungo termine ogni logica di mercato che fa leva sul prezzo dei servizi.

Che ne pensate? Non trovate che l’investimento in eventi di qualità sia da preferire a momenti che invece, se gratuiti, rischiano di “sapere di poco” o, peggio, finire per essere una passarella di autopromozioni?