Archivio: novembre, 2004

Dopo un periodo di test, Pheedo ha rilasciato un tool per esporre link pubblicitari sui feed RSS e Atom. In pratica utilizza gli inserzionisti di Kanoodle, un network "pay per click" di secondo piano rispetto a Overture e Google (un cosiddetto second tier) ma comunque piuttosto popolare negli Stati Uniti.


Dopo un periodo di test, Pheedo ha rilasciato un tool per esporre link pubblicitari sui feed RSS e Atom. In pratica utilizza gli inserzionisti di Kanoodle, un network "pay per click" di secondo piano rispetto a Overture e Google (un cosiddetto second tier) ma comunque piuttosto popolare negli Stati Uniti.


Lo sgambetto di Google non s è fatto attendere: MSN Search avrebbe voluto uscire oggi potendo vantare l’archivio più grande (5 miliardi di pagine censite), ed invece, zacchete, Google si pavoneggia dei suoi 8 miliardi.

Poi ci si è messa la tecnologia che fa le bizze ed il beta di MSN Search è stato indisponibile per alcune ore nel pomeriggio.

Benvenuto nel mondo del search! ;-)


È ancora in beta ma questa sembra la versione del nuovo MSN Search più vicina a quella che sarà la definitiva. Approfondirò nei prossi giorni, ma ho notato un paio ci cose interessanti su tutte: il bottone per cercare la query in un contesto locale e la ricerca avanzata che prevede anche una selezione dei risultati più popolari.
Trovo rilevante anche la partenza contestuale del weblog gestito dal team di MSN Search.


We the media La scorsa settimana un collega mi mangnificava la sua ultima lettura: “We the media” di Dan Gillmor Gli ho detto di averlo letto anch’io questa estate ma inizialmente non mi ha creduto perché… non ha visto la recesione sul mio blog. È vero, l’ho scordata. Ho ancora “Consumare la rete” nell’area “Sto leggendo” che invece ho finito da un pezzo e che comunque non recensirò perché non mi è piaciuto affatto.
Torniamo a “We the media”. Gillmor è bravo, acuto ed ha sempre guardato avanti. Non è mai ovvio e pur con un’impostazione giornalistica moto pragmatica e rigorosa, si fa leggere con piacere. Il libro è da consigliare a chiunque si occupi di contenuti e non solo quelli online; da regalare senz’altro a ogni giornalista che conosciamo affinché possa avere quantomeno una rappresentazione di come (anche) la sua professione sta cambiando in modo radicale.
Il tema principale su cui ruota “We the media” è il mutamento in atto nel rapporto tra giornalista e lettore, sempre più indirizzato verso la conversazione. Peraltro, è un argomento molto caldo e attuale anche per ciò che riguarda la relazione tra aziende e consumatori. Forse alcuni passaggi sono troppo ottimistici sull’effettiva capacità della Rete di riuscire a selezionare e far emergere solamente le cose migliori.
È una vecchia storia: Internet sarebbe in grado di autogestirsi e di stabile regole non scritte che tendono ad evidenziare solo i contenuti di valore. Sarebbe bello crederci, ma da qualche anno anche il mio convinto ottimismo cozza contro una realtà dei fatti un po’ diversa. Indubbiamente la Rete è uno strumento fenomenale a disposizione dei ognuno di noi, ma l’ideale di community sana e di buoni propositi è irrealizzabile.
Molti di noi sulla Rete hanno a che fare con gente perbene, intelligente, colta, ecc. Ma internet non rappresenta ancora la società nel suo complesso; quando lo farà sono sicuro che emergerà un lato meno eccitante che non potrà essere affrontato con argomentazioni buoniste in cui anche Gillmor si lascia andare.
C’è un’altro atteggiamento in “We the media” che trovo superficiale e si incontra quando Gillmor cita tools e servizi online (Wikipedia, Feedster, ecc.) come capaci da soli di cambiare il mondo. È l’errore di molti di noi (a volte anch’io ci casco), con background nell’informatica e nella tecnologia in generale. Noi, così intrippati di “codice”, che poi rimaniamo male quando constatiamo che il tool che ci sembrava così rivoluzionario ha meno di mille utenti in tutto il mondo.
In definitiva “We the media” va comunque letto, magari attenuando il buonismo che serpeggia qua e la e qualche semplificazione di troppo.


Ieri un collega mi ha fatto notare che su Google c’è un inserzionista AdWords sulle keywords “mauro lupi” e “admaiora”.

Non è la prima volta che qualcuno bidda (ossia compra il posizionamento a fronte di una certa keyword) termini legati alla mia azienda, ma ora addirittura il mio nome…

L’inserzionista in questione, Madri, fa corsi sulle tecniche di posizionamento e tiene dei workshop insieme a Sems, un’azienda specializzata nel search engine marketing. Mah…, spero solo che non siano questi i segreti e le tecniche oggetto dei loro corsi.

Di Madri non ne ho sentito parlar male, anzi mi è capitato di indirizzare più di qualcuno ai loro corsi perché spesso ci chiedono servizi di formazione sul posizionamento ma non è questo il mestiere di Ad Maiora.

Comunque non ho particolari problemi se qualcuno fa keyword advertising sul mio nome (il mio ego ha il suo attimo di gloria), ma trovo questo tipo di tattiche quantomeno non eleganti, caratteristica che ritengo essenziale anche negli affari.

Visto che c’erano potevano pure biddare “Mario Lupi” con il quale mi chiamano molto spesso, oppure “Maurizio Lupi” o addirittura “Mauri Lupi” (questi ultimi due freschi freschi su un DailyNet di un paio di giorni fa).

In ogni caso c’è la questione del copyright, specie per il nome dell’azienda che è un nostro marchio registrato. Certo, non mi metto a fare casini (grazie a Dio ho cose più interessanti a cui badare), però il tema della protezione dei marchi online aumenta di importanza ogni giorno che passa.


Certo che mai come in questa tornata elettorale USA, l’attenzione verso le presidenziali americane è così forte in Italia. Sarà perché il peso degli USA è sempre più elevato nel nostro paese? Sarà perché queste elezioni sono più importanti rispetto ad altre occasioni? Sarà perché la sfida Bush / Kerry viene vissuta da molti come confronto tra guerrafondai e pacifisti?

Non sono esperto di politica, ma a me sembra che ci sia anche un effetto Halloween, secondo il quale tendiamo semplicemente ad importare le cose yankee a partito preso. Non c’è nulla di male, ma a volte si perde il senso e, soprattutto, la percezione di quanto ciò che è vero negli States non è del tutto replicabile nel costro caro vecchio Continente, dove vecchio è un complimento bellissimo.