Archivio: “Società”

Umanità accresciuta - Giuseppe Granieri Se Blog Generation è stato il manifesto del momento di esaltazione dei blog, e La Società Digitale ha provato a individuare i prossimi confini della società e della comunicazione per via della Rete, il nuovo libro di Giuseppe Granieri, Umanità Accresciuta, prende le nuove tecnologie e le incastra negli individui descrivendone i possibili impatti.

Il sottotitolo “Come la tecnologia ci sta cambiando” rivela l’ambizione del libro, il quale ha indubbiamente il merito di scavare nel modo di intendere luoghi virtuali e oggetti elettronici, piuttosto che nel cambiamento delle relazioni tra individui. Approfondito è il tema del “vissuto virtuale”, frutto anche della grande esperienza di Granieri riguardo a Second Life e affini, così come dei mutamenti derivanti dalla connessione fisica dell’uomo alla Rete mediante chip e altre apparati. Analisi questa che giustamente solleva anche molti interrogativi, preoccupazioni e la necessità di una nuova consapevolezza delle opportunità così come dei pericoli.

Su questo, Granieri auspica un “dovere di elaborare, nei limiti consentiti da un modello che corre sempre più veloce delle istituzioni e dell’istruzione, una direzione che ci consenta di impostare una buona consapevolezza (o almeno di riconoscere) il mondo che stiamo preparando ai nostri figli”.

Il punto è che i cambiamenti in atto modificano (talvolta sconvolgono) molte attività e relazioni, ed il modo giusto per affrontarli richiede una coscienza ed un livello informativo che istituzioni, scuola e famiglia non riescono più soddisfare. Da qui l’affermazione che “Conoscere è la nostra prima, rinnovata, responsabilità”, ed è un compito che va ricercato a livello individuale, così da dominare il ruolo e l’impatto del “sé digitale” di cui si riprende una lucida interpretazione di Granelli.

Condivido questo pensiero. Per secoli abbiamo ritenuto che la formazione degli individui fosse un compito di istituzioni, scuola e famiglia (in un ordine che ha cambiato nel tempo le priorità). Oggi se è vero che la Rete sta esaltando il “potere” dei singoli, contemporaneamente costringe a porsi quesiti e a risolvere problemi del tutto inediti. Scrive Granieri:

Ampliando le nostre opportunità e la nostra gamma di azione, i network ricentrano moltissimo le attività sociali dell’individuo e ridisegnano le potenzialità (il “potere” direbbe qualcuno) di ciascuno di noi. Ma non lo fanno come una flebo o una pillola, non basta connetterci per essere migliori, per avere più potere, più peso all’interno delle nostre vite. Ce lo consentono, a determinate condizioni, me le condizioni dobbiamo essere in grado di crearle. E dobbiamo farlo da soli.


Umanità accresciuta - Giuseppe Granieri Se Blog Generation è stato il manifesto del momento di esaltazione dei blog, e La Società Digitale ha provato a individuare i prossimi confini della società e della comunicazione per via della Rete, il nuovo libro di Giuseppe Granieri, Umanità Accresciuta, prende le nuove tecnologie e le incastra negli individui descrivendone i possibili impatti.

Il sottotitolo “Come la tecnologia ci sta cambiando” rivela l’ambizione del libro, il quale ha indubbiamente il merito di scavare nel modo di intendere luoghi virtuali e oggetti elettronici, piuttosto che nel cambiamento delle relazioni tra individui. Approfondito è il tema del “vissuto virtuale”, frutto anche della grande esperienza di Granieri riguardo a Second Life e affini, così come dei mutamenti derivanti dalla connessione fisica dell’uomo alla Rete mediante chip e altre apparati. Analisi questa che giustamente solleva anche molti interrogativi, preoccupazioni e la necessità di una nuova consapevolezza delle opportunità così come dei pericoli.

Su questo, Granieri auspica un “dovere di elaborare, nei limiti consentiti da un modello che corre sempre più veloce delle istituzioni e dell’istruzione, una direzione che ci consenta di impostare una buona consapevolezza (o almeno di riconoscere) il mondo che stiamo preparando ai nostri figli”.

Il punto è che i cambiamenti in atto modificano (talvolta sconvolgono) molte attività e relazioni, ed il modo giusto per affrontarli richiede una coscienza ed un livello informativo che istituzioni, scuola e famiglia non riescono più soddisfare. Da qui l’affermazione che “Conoscere è la nostra prima, rinnovata, responsabilità”, ed è un compito che va ricercato a livello individuale, così da dominare il ruolo e l’impatto del “sé digitale” di cui si riprende una lucida interpretazione di Granelli.

Condivido questo pensiero. Per secoli abbiamo ritenuto che la formazione degli individui fosse un compito di istituzioni, scuola e famiglia (in un ordine che ha cambiato nel tempo le priorità). Oggi se è vero che la Rete sta esaltando il “potere” dei singoli, contemporaneamente costringe a porsi quesiti e a risolvere problemi del tutto inediti. Scrive Granieri:

Ampliando le nostre opportunità e la nostra gamma di azione, i network ricentrano moltissimo le attività sociali dell’individuo e ridisegnano le potenzialità (il “potere” direbbe qualcuno) di ciascuno di noi. Ma non lo fanno come una flebo o una pillola, non basta connetterci per essere migliori, per avere più potere, più peso all’interno delle nostre vite. Ce lo consentono, a determinate condizioni, me le condizioni dobbiamo essere in grado di crearle. E dobbiamo farlo da soli.


Hai presente l’effetto che fa un bel negozio con l’aria condizionata per chi sta costantemente in mezzo al traffico rumoroso e pieno di smog? Beh qualche giorno fa ho provato una cosa del genere. La metropoli incasinata e insopportabile è il momento di mercato che stiamo vivendo un po’ tutti, fatto non solo di recessione ma di apparente sospensione di volontà, idee, stimoli, fiducia. La ventata di aria fresca è stato invece l’evento Frontiers of Interaction, che si è tenuto a Roma qualche giorno fa.

Come ha twittato Riccardo Luna (che finalmente ho conosciuto de visu proprio in questa occasione), sui contenuti di Frontiers of Interaction ci si potrebbero fare tre di numeri di Wired. Con Leandro Agrò che è uno degli ideatori del progetto ormai da alcuni anni, discutevamo di quanto sia però complicato trasformare l’energia, l’innovazione, le idee viste “alle Frontiere” in interesse concreto da parte delle organizzazioni, sia pubbliche che private.

Una parte del problema penso sia legato alle aziende che tengono spente le antenne dell’innovazione. Talvolta i team di ricerca & sviluppo sono concentrati troppo sul breve periodo o su innovazioni incrementative e non di rottura. In altri casi, i team che dovrebbero fare da membrana tra l’azienda e il mondo degli anni successivi, non sono impostati per filtrare davvero gli stimoli giusti oppure, se lo fanno, cozzano con gerarchie impastate con i loro status quo. Un esempio: un funzionario di un grande gruppo bancario mi raccontava di aver testato con successo un tipico servizio 2.0 che consente di accedere a decine di migliaia di creativi a cui sottoporre un brief di comunicazione, peraltro a condizioni competitive. Pensate la faccia che ha fatto l’agenzia di comunicazione della banca, messa in competizione con una linea di fuoco di migliaia di cervelli a cui, anche solo statisticamente, nessuna struttura tradizionale potrà compararsi per efficienza, costi, probabilità di azzeccare l’idea giusta, ecc.

Ma bisogna stare con i piedi per terra e guardare una realtà italiana che purtroppo continua a indietreggiare (e lo dice un ottimista cronico). Siamo un paese che invecchia e che ha la metà della popolazione passiva, e ciò non stimola certo il cambiamento. Internet modificherà le cose? Mah, forse, ma solo in parte. D’altronde finché la Rete ancora non sarà in grado di spostare voti (e concordo con Stefano Epifani), il suo impatto, che ci piaccia o no, non avrà la forza che riscontriamo in altri paesi nei quali ha senso parlare di “nuovo inizio”, come auspica Luca De Biase. Invece, da queste parti invece, dobbiamo riscontrare l’ennesimo decreto “disordinato” che cerca inutilmente di normare forzosamente meccanismi che sono oggettivamente fuori da quel controllo a cui anelano alcuni governanti.

Mi sa che l’unica speranza è che all’improvviso dal nuovo marchietto Magic Italy, qualcuno faccia davvero una magia. Ecco, un bel genio della lampada che trasformi questo Paese diventato la barzelletta del mondo, in un luogo capace di valorizzare di nuovo la genialità delle sue genti. Ovviamente non ci sarà nessun genio, nessuna magia, nessuna soluzione facile e immediata.

A questo punto, io applico un metodo simile a quando si pianifica una campagna pubblicitaria online: non è fondamentale identificare tutti i siti del web o solo quelli più popolari o più autorevoli, tanto alla fine si paga per il numero di utenti effettivamente raggiunti in base alle proprie esigenze. Così io provo a guardare là dove c’è innovazione, voglia di cambiare, idee, etica, coerenza. Si tratta di rare isole felici, ma esistono e provo a farmele bastare.


Clay Shirky - Uno per uno, tutti per tutti “Quando cambiamo il modo con cui comunichiamo, cambiamo la società”. Semplice assunto per descrivere la portata dei cambiamenti in atto nelle relazioni tra gli individui. Questo è ciò che approfondisce  il libro di Shirky, descrivendo gli aspetti sociali dei nuovi modi di “fare gruppo” e la potenza dei nuovi modelli aggregativi; non a caso il sottotitolo è “Il potere di organizzare senza organizzazione”

Si parte dall’esame della scala evolutiva dei gruppi sociali, attraverso tre fasi distinte: Condivisione, Collaborazione, Azione collettiva. Naturalmente le tecnologie, e internet in particolare, sono l’elemento abilitante, ma qui sono trattate correttamente in quanto strumento senza perdersi in tecnicismi o sofisticazioni.

Interessante il passaggio sul tema dei contenuti, dell’editoria, dell’evoluzione del giornalismo. Condivido la distinzione tra importanza e valore, ove pur riconoscendo la rilevanza dei contenuti professionali, il loro modello economico è inesorabilmente intaccato (con buona pace di Murdoch & Co.):

Per una generazione che cresce senza porsi il problema della rarità che per decenni ha reso l’editoria un’attività così delicata, la parola scritta non ha un valore di per sé. [...] Sebbene l’acqua sia più importante dei diamanti, questi sono costosi semplicemente a causa della loro rarità.

La Rete sta sconvolgendo gli assunti legati alle “medie”: l’utente medio, un comportamento medio, ecc. Indagare sull’uso dei social media, ad esempio, è utilissimo per dimostrare come lo squilibro tra i pochi e i molti aumenti con la diffusione di tali sistemi: meno del 2% degli utenti di Wikipedia contribuisce ai suoi contenuti, così come le persone attive con regolarità su Facebook sono un netta minoranza rispetto al totale degli iscritti.

Il fenomeno del “sotto la media” è ben descritto nell’aneddoto che racconta di Bill Gates, il quale entra in un bar e improvvisamente tutti gli avventori diventano, in media, milionari. Di conseguenza tutti, nel bar, avranno anche un reddito sotto la media.

Di rilievo è la distinzione a proposito del capitale sociale, tra capitale di bonding ossia l’aumento nella profondità delle connessioni e nella fiducia di un gruppo relativamente omogeneo, e capitale di bridging con cui invece si intende la crescita nelle connessioni tra gruppi relativamente eterogenei. Quest’ultimo è uno degli elementi innovativi: la quantità dei nodi di relazione che migliora, ad esempio, le probabilità di incrociare buone idee.

Due note di contorno: trovo scomodi i libri come questo con tutte le note messe a fine libro (meglio in pagina o, al limite, a fine capitolo), mentre mi sembra ben fatta la traduzione di Federico Fasce (non ho letto l’originale ma la versione italiana è scorrevole e senza localizzazioni “forzate”).


Sarò retrogrado ma l’educazione ed il rispetto dovrebbero venir prima delle tecnologie… Per cui se siamo in un meeting o al telefono, penso sia giusto pretendere la reciproca attenzione anziché inseguire e rimbalzare tra i trilli degli SMS, i campanelli di Messenger, gli status dei social network, i ding dong delle email in arrivo e così via.

Tentare di sfoggiare questo svolazzamento tra device e applicazioni in contemporanea, non fa altro che dimostrare quanto si è gestiti dalle tecnologie e dagli eventi (e non invece il contrario). Io penso che l’inefficienza (ed il conseguente stress) siano direttamente proporzionali alla quantità di interruzioni a ciò che si sta facendo.

Siamo nella Settimana Nazionale della Sicurezza in Rete, Virgilio propone una Netiquette 2.0, ma poi tocca constatare che è la buona educazione quella che manca… (Che si è capito che di recente ho partecipato ad una riunione “storta”?)

Proprio mentre stavo scrivendo queste note, il buon Luca segnalava su un lungo articolo sul New York Magazine intitolato The Benefits of Distraction and Overstimulation. Da leggere per chi si interessa di come sta cambiando l’attenzione e la capacità di concentrazione del genere umano.


Da una news dell’ANSA a proposito di una ricerca commissionata dalla Camera dei Deputati, emerge che:

  • Il 58,5% degli italiani utilizza internet
  • Chi non utilizza internet lo fa perché non ha le competenze (46%) o perché non gli interessa (43%)

Questo significa che sono più o meno 9 milioni di persone che non usano internet perché non lo sanno usare (o pensano di non saperlo usare). Ecco, è qui che occorrerebbe lavorare. Non solo continuare a sottolineare quanto sia importante la Rete: la maggior parte delle persone questo lo ha capito da un pezzo. Bisognerebbe spiegare concretamente, far “usare” internet per davvero. È qui che vedrei un intervento istituzionale serio, rivolto ad arginare quello che è il nuovo analfabetismo.


Giustamente Luisa sottolinea come molti giovani ritengano semplicisticamente che attraverso la Rete possano fare qualsiasi cosa più facilmente. Naturalmente sono il primo a pensare che internet faciliti la vita di chiunque sappia usarla, ma credo altresì che sempre di mezzo si tratti, e quindi non basta da solo per raggiungere il fine, qualsiasi esso sia.

C’è ad esempio da considerare che l’abbondanza delle informazioni richiede di sviluppare una capacità di filtro. Tale capacità cozza con la diffusa superficialità che mi pare accompagni i nostri tempi (e che non riguarda solo i più giovani).

Si perde spesso la considerazione dell'importanza della riflessione, intesa come momento dedicato a guardare idealmente da una posizione più alta faccende private e non, e quindi a considerare e valutare il contesto di fatti e contenuti. Dimentichiamo di riservare del tempo a riflettere perché siamo dentro un vortice ove i minuti che scandiscono la nostra vita sono utilizzati disordinatamente.

Ricordo l'intelligente domanda di Lele a Joi Ito quando venne a Milano per il Meet the guru a proposito del “dove trovare il tempo”. Condivido la risposta di Ito che raccontò la sua gestione bifronte, fatta da momenti di convulso multitasking e di processi mentali paralleli, alternati a periodi di massima concentrazione su un soggetto unico.

Prima o poi mi decido a mettere su un percorso formativo per “gestire il tempo nell’era di internet”. Non c’entra nulla (o quasi) con quello che fa la mia azienda, ma è un tema che, applicato al mondo del lavoro, studio da una ventina d’anni. Beh, non sarebbe male avere un “Personal Time-saver”, no?


Giustamente Luisa sottolinea come molti giovani ritengano semplicisticamente che attraverso la Rete possano fare qualsiasi cosa più facilmente. Naturalmente sono il primo a pensare che internet faciliti la vita di chiunque sappia usarla, ma credo altresì che sempre di mezzo si tratti, e quindi non basta da solo per raggiungere il fine, qualsiasi esso sia.

C’è ad esempio da considerare che l’abbondanza delle informazioni richiede di sviluppare una capacità di filtro. Tale capacità cozza con la diffusa superficialità che mi pare accompagni i nostri tempi (e che non riguarda solo i più giovani).

Si perde spesso la considerazione dell'importanza della riflessione, intesa come momento dedicato a guardare idealmente da una posizione più alta faccende private e non, e quindi a considerare e valutare il contesto di fatti e contenuti. Dimentichiamo di riservare del tempo a riflettere perché siamo dentro un vortice ove i minuti che scandiscono la nostra vita sono utilizzati disordinatamente.

Ricordo l'intelligente domanda di Lele a Joi Ito quando venne a Milano per il Meet the guru a proposito del “dove trovare il tempo”. Condivido la risposta di Ito che raccontò la sua gestione bifronte, fatta da momenti di convulso multitasking e di processi mentali paralleli, alternati a periodi di massima concentrazione su un soggetto unico.

Prima o poi mi decido a mettere su un percorso formativo per “gestire il tempo nell’era di internet”. Non c’entra nulla (o quasi) con quello che fa la mia azienda, ma è un tema che, applicato al mondo del lavoro, studio da una ventina d’anni. Beh, non sarebbe male avere un “Personal Time-saver”, no?


Emergo da qualche giorno di latitanza per segnalare un interessante articolo di Giuseppe Granieri su Apogeo. Il tema è ambizioso, "L'internet del 2009" e Giuseppe ne sintetizza tre elementi chiave che condivido:

  • Specializzazione, intesa come una selezione degli strumenti web che si utilizzano
  • Frammentazione a riguardo delle conversazioni sulla Rete che si vanno distribuendo in maniera sempre più diffusa
  • Normalità banale, in relazione all'ingresso della Rete tra le cose "normali" per una gran parte della popolazione (tema ripreso anche da Massimiliano Magrini, boss di Google Italia)
  • La crisi e l’informazione, in cui sintetizza la difficoltà di remunerare i contenuti giornalistici online, proprio mentre la stampa tradizionale sta vivendo uno dei periodi di maggiore difficoltà della sua storia.

Io il 2009 l'ho iniziato spostando in Rete molte attività day-by-day. Dovendo inviare il mio portatile in riparazione per un contatto allo schermo, sto sperimentando di passare ad una operatività "leggera" tutta fatta online, passando da una postazione in ufficio ad un PC a casa condividendo le stesse cose. Quindi web services (anche a livello aziendale), web mail (ove possibile), desktop virtuali (come Netvibes), e anche il messenger via browser (con Meebo). Manca solo un "vero" Office online, ma pare sia questione di mesi. Inizio ad associare davvero internet all'elettricità o all'acqua: ecco, questo potrebbe essere un'altra dominante per il 2009.


Basta, non riesco più a sentir ripetere di “cose lette su Facebook”, oppure di “quello che ho visto sui blog”, come se si trattasse di ambienti unici, uniformi, standardizzati. È forse questo il principale equivoco che genera la disinformazione a proposito di internet e dei social network.

Non c’è “un Facebook”, così come non ci sono “i blog”. Ci sono tanti singoli individui che, grazie a Dio, sono diversi e che scrivono, fotografano, filmano, cose diversissime. Con obiettivi, stili e risultati altrettanto differenti. Che poi stringono le loro relazioni digitali secondo molteplici strumenti e consuetudini.

In questo momento sono circa sei milioni gli italiani iscritti a Facebook, con il quale gestiscono la loro piccola casa virtuale, invitano gli amici che vogliono, scrivono e fotografano ciò che gli pare.

Riferirsi a Facebook stigmatizzandone i suoi contenuti è come affermare di poter capire un’intera città passeggiando in una decina di strade. O come disquisire dei contenuti della stampa periodica in generale sfogliando qualche rivista in un’edicola, magari fermandosi nel settore dei fumetti.

Il punto è sempre lo stesso. Si continua a identificare internet alla stregua dei media tradizionali, i quali sono sempre prodotti da un numero finito e ben indentificato (anche professionalmente) di persone. La Rete è invece uno spazio in cui gli ambienti digitali come Facebook sono solo strumenti e non media: loro ospitano e aggregano tanti singoli individui, per cui non possono che rappresentare migliaia di facce ed espressioni differenti e non un’identità unitaria come semplicisticamente in molti tendono a pensare e, quindi, a giudicare.


Ho sempre cercato di vivere i cambiamenti pensando a cosa si guadagna rispetto a cosa si perde, per cui ho letto con piacere il bel post di Giampaolo Fabris che ricorda come in lingua cinese il termine crisi (weiji) è composto da due due ideogrammi: pericolo ed opportunità.

E di opportunità, Fabris ne elenca alcune, tutte di largo respiro, tra le quali segnalo:

  • prendere le distanze dall’idolatria del PIL
  • ricostruire un rapporto sano tra economia finanziaria e produttiva
  • presa di distanza del gigantismo come paradigma da seguire
  • sottolineare che crescita deve essere sinonimo di benessere non di crescita economica fine a se stessa
  • cogliere la drammaticità dei problemi ambientali

Mi viene spontaneo affiancare il punto di vista di Fabris con quello di Robin Good (peraltro appena citato da Business Week come “voce dell’innovazione”) che invece tocca più la sfera personale. Ebbene Robin per Natale si è concesso il post Come Diventare Felici Senza Diventare Santi: 10 Cose Che Puoi Cambiare Per Riprendere il Controllo Della Tua Vita. Queste le “10 cose”:

  1. Smetti di Essere Dipendente Dai Vecchi Media
  2. Rendi il Tuo Spazio di Lavoro un Luogo Confortevole
  3. Abbandona i Falsi Amici
  4. Regala Qualcosa di Bello ai Bambini. Ogni Giorno.
  5. Ascolta
  6. Diventa un Talent Scout
  7. Non Incolpare te Stesso
  8. Non ti Arrendere
  9. Divertiti in Maniera Seria e Professionale
  10. Non ti Omologare

Tanti auguri per un 2009 e buon cambiamento a tutti!


Ho sempre cercato di vivere i cambiamenti pensando a cosa si guadagna rispetto a cosa si perde, per cui ho letto con piacere il bel post di Giampaolo Fabris che ricorda come in lingua cinese il termine crisi (weiji) è composto da due due ideogrammi: pericolo ed opportunità.

E di opportunità, Fabris ne elenca alcune, tutte di largo respiro, tra le quali segnalo:

  • prendere le distanze dall’idolatria del PIL
  • ricostruire un rapporto sano tra economia finanziaria e produttiva
  • presa di distanza del gigantismo come paradigma da seguire
  • sottolineare che crescita deve essere sinonimo di benessere non di crescita economica fine a se stessa
  • cogliere la drammaticità dei problemi ambientali

Mi viene spontaneo affiancare il punto di vista di Fabris con quello di Robin Good (peraltro appena citato da Business Week come “voce dell’innovazione”) che invece tocca più la sfera personale. Ebbene Robin per Natale si è concesso il post Come Diventare Felici Senza Diventare Santi: 10 Cose Che Puoi Cambiare Per Riprendere il Controllo Della Tua Vita. Queste le “10 cose”:

  1. Smetti di Essere Dipendente Dai Vecchi Media
  2. Rendi il Tuo Spazio di Lavoro un Luogo Confortevole
  3. Abbandona i Falsi Amici
  4. Regala Qualcosa di Bello ai Bambini. Ogni Giorno.
  5. Ascolta
  6. Diventa un Talent Scout
  7. Non Incolpare te Stesso
  8. Non ti Arrendere
  9. Divertiti in Maniera Seria e Professionale
  10. Non ti Omologare

Tanti auguri per un 2009 e buon cambiamento a tutti!


Mankind Is No Island: toccante, poetico, realizzato interamente con un cellulare, dedicato agli homeless e a chi li sa ascoltare. Non chiamateli user generated content: sono tre minuti d’arte.


Mankind Is No Island: toccante, poetico, realizzato interamente con un cellulare, dedicato agli homeless e a chi li sa ascoltare. Non chiamateli user generated content: sono tre minuti d’arte.


A tutte le persone che in azienda si occupano di capire come sta cambiando il rapporto tra aziende e individui (interni ed esterni), suggerisco di:

  1. recarsi sul blog di Luca De Biase;
  2. leggere il suo post Carrefour e le persone;
  3. ripartire dal punto 2. fino a che non si definisce una strategia operativa per poter affrontare e gestire questa nuova relazione.

Il caso Carrefour dimostra alcune cose:

  • Le opinioni delle persone si alimentano indipendentemente da quello che piace alle aziende e, talvolta, coinvolgono i brand molto più di quanto sia dovuto (su questo caso specifico sono d’accordo con Enrico).
  • Occorre ricordare quanto tali opinioni si sviluppino velocemente per mezzo della Rete e quanto siano influenti.
  • I dipendenti o collaboratori di un’azienda sono l’azienda stessa; si dà (giustamente) per scontato che rappresentino i valori del gruppo per cui lavorano.

Se qualcuno decidesse di fare la task list a cui accennavo prima, propongo un paio di punti:

  • Aprire un canale di comunicazione vero. Adesso. Che sia un blog, una community online, un forum (in casa Carrefour, ad esempio, mi è sembrato utile e tempestivo un intervento sul forum), ecc. Ma fa fatto adesso. Pensate se Carrefur (così come le altre aziende interessate) avessero avuto un adeguato canale già aperto: senz’altro avrebbero potuto affontare la situazione molto meglio (pur rimanendo, ovviamente, di fronte ad un fatto grave e negativo)
  • Se è vero, come detto prima, che i dipendenti sono l’azienda, occorre farglielo sapere! Occorre farglielo sentire.

Fin qui le chiacchiere da uno che si occupa di comunicazione. Come individuo posso solo esprimere tutta la mia solidarietà a Barbara. In una sola frase che gli è stata detta c’è tanta di quella superficialità e, direi, cattiveria, che continua ad insinuarsi nella società d’oggi.

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Non penso che siano poi molte le conferenze stampe dove si spenga la luce per fare l’intervento principale accompagnato da un video in sottofondo. Questo ha fatto Marco Montemagno ieri durante la conferenza stampa di presentazione del progetto Codice Internet, ideato e sviluppato insieme a Marco Masieri.

Ho già segnalato la mia totale condivisione del progetto e proverò a collaborare anch’io in qualche modo. Dicevo ad una giornalista ieri a proposito di Codice Internet che si tratta di costruire un ponte tra i “non connessi” e tutti noi “della Rete”. È un ponte che serve alla società italiana e alla sua economia.

Come ogni ponte che si vuole costruire servono molte cose: un progetto (l’attuale Srl si trasformerà in fondazione), le autorizzazioni (pare che le istituzioni stiano già rispondendo attivamente), il denaro (ieri Masieri ha accennato a circa 5 milioni solo per le iniziative di quest’anno), un team che lavora (e qui penso alla comunità della Rete che già si è mossa).

A volte anche i ponti si trascinano polemiche e più o meno giustificate (guarda Messina o al più recente caso Calatrava a Venezia). E temo che anche Codice Internet potrà andare incontro alla – purtroppo – classica abitudine italiana di guardare scetticamente le iniziative con finalità “di sistema” solo perché tipicamente si è abituati a pensare solo ai propri interessi o a guardare non oltre il proprio naso.

Io penso che se il progetto riuscirà a mantenere integra la sua impostazione di fondo, potrà acquisire quell’autorità e quella reputazione che gli consentiranno di svilupparsi a dovere. Servirà sdoganare la Rete in ambienti che faranno impazzire i puristi, occorrerà andare da Costanzo o ascoltare qualche starlet che racconterà le sue chat. Non è proprio bellissimi dirlo, ma è questo che serve: un grande can can che amplifichi il messaggio in ogni dove. Go on!

UPDATE: Caterina di Blogosfere ha pubblicato alcune interviste (ta cui quella a cui facevo riferimento) raccolte ieri

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Questa terza parte è dedicata ad alcuni commenti al libro di Giampaolo Fabris e raccoglie delle note su un intervento di Andrea Illy. Qui la prima e la seconda parte.

Societing è un testo godibilissimo, scritto con la consueta ricchezza semantica a cui Fabris ci ha abituato, senza mai scadere nel dotto fine a se stesso.

I contenuti vanno a coprire a tutto tondo l’argomento del cambiamento del marketing, secondo un inquadramento che, una volta tanto, non è America-centrico ma, anzi, trova sue concrete applicazioni in Italia (anche nei casi e nelle tabelle a corredo del testo).

Sul fronte dell’analisi della comunicazione digitale e della Rete, trovo Societing un’opera incompiuta. Praticamente si ferma sul più bello, ossia nel punto in cui, dopo aver ben fotografato la spallata che le nuove tecnologie stanno dando al modo di fare business – in particolare alla comunicazione d’impresa -, non spinge l’accelleratore nel suggerire un ruolo più rilevante per la Rete nel marketing così ripensato. Atteggiamento comunque comprensibile considerando la prudenza che ha sempre contraddistinto Fabris a proposito di internet, ma ancor più per la limitata reappresentanza nel nostro Paese di quella che Fabris definisce l’enclave del postmoderno e che circoscrive in non più di un terzo della popolazione (ci sarebbe però da riflettere su quanto pesa economicamente questa quota e che trend di crescita sta esprimendo).

Di rilevante è che Societing continua ed estende la sua vita in Rete, in particolare su un apposito blog.

Chiudo con alcuni appunti relativi all’intervento di Andrea Illy, Presidente di Illycaffè, durante la presentazione del libro di Fabris da Ruling Companies l’11 giugno scorso:

  • Oggi gli individui hanno potere di scelta, accesso, connessione. Chiedono relazione alle aziende, ma sono queste a non volerla.
  • Sul tema delle knowledge company: “Chi più insegna più vince”
  • Le nuove forme sociali sono basate su nuove relazioni , più calde, basate sulle passioni. Vanno perdendo slancio molte di quelle tradizionali, ad esempio i sindacati (e qui penso anche a quella che De Rita ha chiamato l’incapacità a connettersi).
  • L’azienda va intesa come un movimento, basata su valori etici, sulle emozioni, sull’unicità, sulle passioni, sull’amore.

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(Societing – prima parte)

Importante la sottolineatura sulla crescente richiesta di autenticià:

Siamo in presenza di un passaggio epocale: da una società di status symbol a scelte di prodotto che siano veritieri segnali sulla propria identità. Ma anche transazione dalla società della massificazione, dell’omologazione, dell’accettazione degli standard medi – la testa, nella metafora di Anderson nella Lunga Cosa – a una dove si può, forse si deve, essere sé stessi.

Naturalmente viene affrontato e contestualizzato il marketing dell’esperienza, conseguente alle stagioni dei bisogni e dei desideri:

Il passaggio ulteriore (…) è verso il nuovo protagonismo dell’esperienza nell’agire di consumo. (…) La nuova cultura del consumatore si nutre di tutto questo non domandandosi più “Cosa posso acquistare che ancora non posseggo?” quanto piuttosto “Cosa posso provare che ancora non ho sperimentato?”.

Dopo la citazione del detto greco “Si impara con l’esperienza” - con cui si sottolinea che ad imparare deve essere sia il consumatore sia l’impresa stessa, Fabris si sofferma su quattro aree cruciali nella creazione di esperienze:

  • La pubblicità, estesa all’area della comunicazione in generale includendo, ad esempio, le tante fonti di eventi che l’impresa e la marca promuovono.
  • Un’intelligente presa in carico della situazione di consumo, auspicando un ruolo attivo dell’utente, un suo coivolgimento.
  • Il punto vendita, simbolo nel rappresentare l’intera situazione di consumo.
  • Gli edifici, siano essi la sede dell’azienda ma anche quelli che Fabris chiama i musei aziendali, declinati come vero e proprio palcoscenico narrativo.

Molto interessante l’approfondimento del marketing tribale e, più in generale, dell’evoluzione delle comunità per forma, dimensione e tipi di aggregazione:

(Le tribù postmoderne) sono aggregazioni sociali aperte che prevedono multiappartenenza, il più delle volte senza un insediamento territoriale, con un elevato tournover ma sovente cementate da sentimenti forti, dalla condivisione di brani importanti di esperienze, da un’elevata frequentazione. (…) Il consumo sostituisce il mondo della produzione anche come matrice di identità e come fattore di aggregazione sociale. Non è certo un caso, quindi, che nuove forme di socialità si formino sovente intorno a oggetti o pratiche di consumo.

E per ragionare sull’approccio del marketing verso queste tribù, Fabris cita Bernard Cova il quale suggerisce di “considerare ogni offerta destinata ai membri della tribù dal punto i vista del valore del legame.

Le nuove tecnologie, e la Rete in particolare, sono affrontate in profondità solo nel penultimo capitolo (Connected marketing), anche se le premesse sanciscono con decisione  l’entità dei cambiamenti portati da internet e dal digitale in genere:

Il digitale diviene il fattore abilitante per la gestione, comunicazione e trasmissione dei contenuti. (…) Le tecnologie elettroniche di massa – dal cellulare, al PC, all’iPod – creano nuovi modi di pensare, di agire, di inter-agire con gli altri.

Ultimo capitolo sull’etica nel marketing, o meglio, sul marketing etico, in cui l’invito è quello di considerare determinati comportamenti virtuosi non solo come accessori cosmetici o tattici rispetto all’attività aziendale, ma elementi fondanti dell’impresa tutta, ove l’attenzione alla responsabilità sociale sia un pilastro strategico. Finale senz’altro condivisibile anche se dichiaratamente utopistico in relazione alla speranza di una sua completa realizzazione.

(Societing – terza parte)

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Societing - Giampaolo Fabris Il marketing va rifondato: parola di Giampaolo Fabris, uno dei maggiori esperti di consumi in Italia da qualche decina di anni, che sviluppa il tema su “Societing”, un libro destinato a diventare un punto di riferimento cruciale nella comprensione dell’evoluzione del marketing.

Fabris è netto nel ritenere che il marketing attuale “batte in testa” (l’espressione motoristica è proprio la sua, manifestata in un recente convegno di Ruling Companies), e ciò diventa molto rilevante non solo per la capacità professionale con cui avvalora il suo auspicio di rinnovamento radicale, quanto per l’influenza che esercita sui marketer italiani da molti anni.

Il libro parte dalla disamina del consumatore postmoderno il quale decreta la crisi di fiducia del progresso costante della società, della crescita infinita. Consumatore che diventa oggi ConsumAutore (produce contenuti), ConsumAttore (è competente e selettivo), ConsumatoRE (è lui che guida il rapporto con le aziende). Il marketing tradizionale si trova difronte ad una crisi di identità e ad una perdita di legittimazione sociale, sempre più assimilato nell’immaginario collettivo a mero sinonimo di pubblicità. E ciò avviene perché le aziende per prime hanno continuato a considerare il marketing come un’area tattica e non strategica e a comunicare solo attraverso al pubblicità:

L’impresa può comunicare con una molteplicità di altri canali che divengono, appunto, medium. (…) L’impresa ha comunicato tramite una quantità di canali senza avere la consapevolezza di stare comunicando. Nella convinzione appunto che la sola forma di comunicazione autentica e legittimata fosse la pubblicità.

Studiare il consumatore odierno richiede nuovi schemi, ben rappresentati da Fabris con l’esempio del pescatore e del biologo, ove il pescatore sa tutto di ami, esche e pesci, ma ignora il mondo marino:

Per comprendere il consumatore postmoderno – nomade, eclettico, esigente, curioso, creativo, prosumer, consapevole del proprio potere – è necessario un approccio diverso, più simile al biologo marino. Che indaga su tutto il mondo ittico, studia specie edibili e no, le relazioni che mettono in atto, le correnti che lo traversano.

Non poteva mancare un riferimento sulla crescente inefficacia della comunicazione basata sul concetto di push e interruzione, così come l’auspicio di un approccio che racconti le marche (il grassetto è mio):

Il consumatore si è sbarazzato di antichi pregiudizi e di anatemi ideologici e considera la comunicazione d’impresa come una necessaria, e sovente affascinante, enciclopedia di pronto accesso e facile consultazione sul significato delle merci. Mostra una nuova disponibilità che non trova il mondo della pubblicità pronto, come dovrebbe, a recepirla.

(Societing – seconda parte)

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Per chi si fosse perso l’antefatto: Sergio Sarnari racconta sul suo blog l’insoddisfazione per un acquisto di mobili e la Mosaico Arredamenti lo cita per danni, diffidando anche chiunque altro riprenda le critiche.

Ovviamente, quello che è successo è una mobilitazione generale di solidarietà con Sarnari e una forte critica per l’atteggiamento dell’azienda denunciataria che sfocia addirittura in una lezione di comunicazione sotto forma di lettera aperta.

No, non firmerò questa lettera (mi invitato anche Luca via mail); penso che chiunque sia libero di fare ciò che vuoile nell’ambito delle leggi, poi sarà un giudiche che prenderà le decisioni. Tra l’altro non ho avuto modo di leggere il post di Sarnari (dato che per prudenza l’ha rimosso) e, anche se non ho modo di dubitare che non sia stato realmente denigratorio, preferisco giudicare solo ciò che ho visto direttamente.

Non credo che serva una “lettera aperta dei blogger” (io peraltro non mi sento tale – solo solo una “persona che ha un blog”, che è diverso), o quantomeno non all’azienda. Tanto capiranno comunque l’errore di comunicaizone e, se non lo capissero, il peggio è loro! Meglio evidenziare le opportunità che sottolinea [mini]marketing che condivido in toto.

Semmai è fondamentale vigilare sul seguito di questi eventi, nel senso che se dovessero portare ad azioni d censura o, peggio ancora, di risarcimento, sarà giustro mobilitarsi ma nei confronti di chi fa le leggi e di chi le fa applicare.

Cinicamente ho salutato favorevolmente l’intera vicenda, nel senso che servono casi del genere per testimoniare alle aziende cosa succede in questi casi. Insomma, il caso Kryptonite è stato da esempio a chissà quante aziende che nel 2004 scoprirono come non relazionarsi con il mondo esterno. Bene, adesso abbiamo anche un caso italiano. Grazie Sergio, grazie Mosaico Arredamenti.

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Leggevo sul Corriere le parole del prof. De Rita a proposito del discorso del Presidente Napolitano sulla “regressione civile”. Il grande sociologo dice:

“Bisognerebbe favorire al massimo tutto ciò che aggrega. Mi rendo conto che non è facile. Ma occorrerebbe rifare le associazioni, i sidacati, i partiti, le parrocchie, tutto ciò che può ricreare un’identità positiva. Un po’ alla volta sono venuti a cadere tutti i luoghi e tutte le forme che permettevano di fare qualcosa con gli altri.”

“Incapacità a connettersi” la chiama De Rita.

Proprio riprendendendo in mano La ricchezza della Rete e L’economia della felicità (quest’ultimo che recensirò a breve), ho la conferma che potrebbe essere proprio internet il facilitatore di queste connessioni. Noi che usiamo la Rete sappiamo quanto ci permetta di “fare qualcosa con gli altri”.

Solo che la Rete è una cosa che riguarda attualmente una parte esigua della popolazione italiana, da ricercare probabilmente proprio in quel 25% che lo stesso De Rita identificava a inizio d’anno come la fascia che sostiene il PIL nazionale. O come ragionavamo nei commenti ad un post precedente a proposito di info-commerce, la quantità di popolazione “connessa” va ricercata nei 16 milioni di individui identificati dall’Osservatorio sulla Multicanalità come Open minded e Reloaded. Il problema è che l’area degli “sconnessi” (che rende meglio rispetto ai “non-connessi”) è largamente preponderante rispetto al totale…

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Leggevo sul Corriere le parole del prof. De Rita a proposito del discorso del Presidente Napolitano sulla “regressione civile”. Il grande sociologo dice:

“Bisognerebbe favorire al massimo tutto ciò che aggrega. Mi rendo conto che non è facile. Ma occorrerebbe rifare le associazioni, i sidacati, i partiti, le parrocchie, tutto ciò che può ricreare un’identità positiva. Un po’ alla volta sono venuti a cadere tutti i luoghi e tutte le forme che permettevano di fare qualcosa con gli altri.”

“Incapacità a connettersi” la chiama De Rita.

Proprio riprendendendo in mano La ricchezza della Rete e L’economia della felicità (quest’ultimo che recensirò a breve), ho la conferma che potrebbe essere proprio internet il facilitatore di queste connessioni. Noi che usiamo la Rete sappiamo quanto ci permetta di “fare qualcosa con gli altri”.

Solo che la Rete è una cosa che riguarda attualmente una parte esigua della popolazione italiana, da ricercare probabilmente proprio in quel 25% che lo stesso De Rita identificava a inizio d’anno come la fascia che sostiene il PIL nazionale. O come ragionavamo nei commenti ad un post precedente a proposito di info-commerce, la quantità di popolazione “connessa” va ricercata nei 16 milioni di individui identificati dall’Osservatorio sulla Multicanalità come Open minded e Reloaded. Il problema è che l’area degli “sconnessi” (che rende meglio rispetto ai “non-connessi”) è largamente preponderante rispetto al totale…

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La ricchezza della Rete - Yochai Benkler Credo sia uno dei lavori che hanno meglio studiato le trasformazioni dovute ad internet di questi anni. Il libro dimostra come la Rete stia influendo positivamente sulla politica e sull’economia, arrivando a evidenziare l’aumento della libertà di ciascuno di noi. Tomo da 600 pagine che risulta possente per il dettaglio dell’analisi, sempre confrontata con le diversi visioni di intellettuali e accademici.

In realtà l’ho letto da diversi mesi, ma mi  sono riservato un’oretta per riprendere alcuni passi che avevo annotato. Partiamo da uno spunto da tenere a mente quando si ragiona, ad esempio, sulle audience dei social network e dei blog.

“(…) nell’ambiente informazionale di rete, per raccogliere attenzione è necessario suscitare l’interesse di un gruppo di individui impegnati più di quanto non succeda nell’ambiente massmediatico, nel quale è preferibile sucitare l’interesse moderato di grandi numeri di persone poco coinvolte”

E sempre legato al tema dell’utente attivo:

“L’altro forte cambiamento causato dall’emergere della produzione sociale è quello nei gusti. (…) Le imprese dell’economia in rete producono strumenti progettati per scopi che vengono decisi e ottimizzati solo al momento dell’uso e che forniscono le piattaforme relazionali flessibili richieste da user attivi”.

Ripetuto lo slancio alla difesa della Rete e l’invito a vigilare sulle scelte politiche che la riguarderanno:

“Siamo nel mezzo di una trasformazione tecnologica, economica e organizzativa che ci consente di rinegoziare le condizioni di libertà, giustizia e produttività nella società dell’informazione. (…) Permettere ai vincitori di ieri di dettare le condizioni della condizione economica di domani sarebbe una scelta disastrosa.”

Molto interessante la risposta analitica all’obiezione di Babele, ossia alla logica per cui la Rete alimenterebbe delle concentrazioni di attenzione e di opinioni anziché stimolare diversi punti di vista. Benkler smonta questa visione attraverso svariate considerazioni . Ne riporto una:

“L’obiezione di Babele è confutata dal fatto che la gente tende ad aggregarsi attorno a scelte comuni. Non lo facciamo perché siamo soggetti a una manipolazione deliberata, ma semplicemente perchè sulla scelta di leggere o meno qualcosa ha un certo peso il fatto che altre persone abbiano letto oppure no la setssa cosa. (…) Inoltre, il profilo di clustering degli utenti nella Rete suggerisce che le persone non seguono il gregge: non legono tutto ciò che legge la maggioranza. Piuttosto, valutano per approssimazione quali preferenze abbiano maggiore probabilità di collimare con le loro”.

Riguardo all’emergere della sfera pubblica in Rete:

“Il costo per poter accedere al dibattito politico si è abbassato di vari ordini di grandezza rispetto a quello necessario a fare la stessa cosa nell’ambiente dei mass media. (…) Il cambiamento qualitativo è rappresentato dall’esperienza di essere speaker potenziali, invece che solo ascoltatori o elettori passivi. È legato alla percezione che gli individui hanno del loro ruolo all’interno della società e alla cultura di partecipazione che possono avere. (…) Cambia il modo di osservare ed elaborare gli eventi dell’esistenza: non siamo più obbligati a considerarli fatti strettamente privati, anzi possiamo farli diventare oggetto di comunicazione pubblica”.

Sulla consapevolezza delle persone in merito all’evoluzione del loro ruolo, Benkler analizza in dettaglio l’esempio Wikipedia evidenziando due dimensioni di questo fenomeno:

“La prima è il grado di autocoscienza realizzabile da una cultura aperta e basata su una capacità di discutere essa stessa più trasparente. La seconda è il grado di scrivibilità della cultura, cioè la misura in cui gli individui possono rimodellare per sé e per gli altri, l’insieme esistente di simboli.”

Ancora sul valore del ruolo attivo delle persone:

“Proprio come imparare a leggere la musica e a suonare uno strumento può fare di una persona un ascoltatore più raffinato, la diffusione della pratica di produrre artefatti culturali di ogni tipo permette gli individui di essere lettori, ascoltatori e spettatori migliori della cultura prodotta in modo professionale, oltre che di inserire il loro contributo in questo insieme culturale collettivo.”

Da ricordare infine l’introduzione al libro di Franco Carlini.

Ultima nota: ho scambiato recentemente un paio di email con Benkler nel tentativo di portarlo in Italia in occasione di Forum PA; questa volta non ce l’ho fatta ma ci riproverò, promesso.

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Global VoicesAvevo letto qualcosa riguardo a Global Voices tra i link del blog di Luca De Biase. Ora tramite Diego scopro che Bernardo Parrella ne ha appena avviato la versione in italiano.

Credo sia un progetto che merita tutto il sostegno, compresa la diffusione del logo!

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Il DDT venne abolito nel 1978 in Italia per cui magari qualcuno non sa di cosa parlo. Era un componente per gli insetticidi. Ora mi si perdonerà il gioco di parole nel titolo (parlo io che mi chiamo Lupi…) che naturalmente non vuole essere offensivo ma solo provocatorio nel guardare la lettera aperta a Vespa e la relativa petizione, come l’inizio di qualcosa di più ampio.

Sono d’accordo con Mantellini quando ritiene che non sia Vespa l’interlocutore giusto, o quantomeno non l’unico, a cui indirizzare la missiva(non condivido invece l’affermazione di Massimo: “Vespa (e la TV in generale) non sono ormai piu’ un grande pericolo“; lo sono ancora, haimé). Paolo sintetizza perfettamente:

Cercare “da” Internet un dialogo con Bruno Vespa richiede una enorme dote di ottimismo e fiducia nel prossimo

Fiducia che non mi sento proprio di dare a questo prossimo. E allora?

Lancio un’idea. Premesso che continueranno ad esserci attacchi disinformati e/o strumentali alla Rete ancora per molto tempo, suggerisco di redigere un documento più generale, stilato sulla falsa riga di quello realizzato in questo caso, che possa prestarsi ogni qualvolta si demonizza la Rete in maniera esagerata.

Attenzione però: non un manifesto che tenti di rappresentare “Il Popolo della Rete”, perché è qui lo sbaglio che a volte facciamo noi “dell’ambiente”, andandoci a ghettizzare da soli. Serve invece qualcosa che dimostri, numeri alla mano, l’entità sociale ed economica di internet. Come sappiamo, internet non è fatta di geek, blogger ed hacker, ma da un’enormità di persone che ormai sono rappresentativi della maggioranza della popolazione.

A noi che abbiamo l’opportunità di usare la Rete e quindi anche di conoscerla, spetta il compito di spiegarla, spiegarla e spiegarla ancora. Difendendola se occorre. E ribadisco: non dichiarandoci cantori di un’area tecnicologica o di frontiera, ma semplicemente utilizzatori di qualcosa che sta migliorando il mondo (a proposito leggere l’articolo di Weinberger su Nòva di oggi).

Che ne dite?

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