Archivio: “Senza categoria”

Non ho visto molti commenti in giro riguardo a Schema.org ed invece penso sia un’iniziativa importante. Si tratta della definizione di uno standard per segnalare ai motori di ricerca alcune caratteristiche strutturali dei contenuti delle propri pagine web, in modo che nei risultati di ricerca venga esposto non solo titolo, link e descrizione delle pagine, ma anche informazioni di dettaglio in funzione della richiesta.

Lo spiego meglio con un esempio (che riprendo da Searchengineland) a proposito di una ricerca relativa ad una ricetta, a fronte della quale è possibile selezionare i risultati in funzione degli ingredienti, del tempo di cottura, delle calorie, ecc. Sempre che, naturalmente, le pagine riportino i rispettivi valori strutturati in modo omogeneo.

Ricerca ricette su Google

Ora Schema.org nasce per sistematizzare i codici che permettono di catalogare i contenuti delle pagine in formati standard, secondo codici riconosciuti dai principali motori di ricerca: qui i link degli annunci contemporanei di Bing, Google e Yahoo! (in ordine alfabetico!).

Questi sono invece alcuni dei formati disponibili:

Sicuramente si tratta di lavoro aggiuntivo per webmaster e publisher online, ma se l’obiettivo è quello di risultare maggiormente rilevanti e pertinenti ai motori di ricerca, lo sforzo potrebbe essere ampiamente premiato.

È altresì evidente che tale sistema accelera la direzione intrapresa dai motori di ricerca di passare da catalogatori di siti a fornitori di risposte. Esplicativa come non mai l’espressone “noi vogliamo i vostri dati”, seppur detta in modo scherzoso, pronunciata da Luca Forlin, Strategic Partnership EMEA di Google, all’ultimo IAB Seminar il 4 aprile scorso (qui il link al PDF del suo intervento).


Abituate a suddividere gerarchie e competenze in compartimenti distinti, molte aziende trovano delle oggettive difficoltà ad inquadrare internet e, di conseguenza, a coglierne tutte le innumerevoli opportunità. Il problema è proprio la pervasività di internet all’interno di ogni organizzazione, molte delle quali lo hanno razionalmente inquadrato nel silos della comunicazione e del marketing, alla stregua degli altri media. Il punto è che la Rete non è solo comunicazione e pubblicità, le quali naturalmente rimangono sue connotazioni peculiari, ma estende la sua importanza in altri ambiti aziendali. Nella figura qui accanto abbiamo schematizzato i principali ambiti aziendali nei quali interviene internet, suddividendo in chiave cronologica tra Ascolto, Contenuti, Pubblicità e Conversazione. Naturalmente, si tratta di una esemplificazione che manca, ad esempio, delle importanti applicazioni della Rete in ambito di comunicazione interna e HR; così come la sovrapposizione tra i reparti aziendali e gli elementi di impiego di internet, va declinata in funzione delle diverse organizzazioni.


IT: Internet Trasversale


Una schematizzazione delle applicazioni di internet è comunque indispensabile, in modo che vengano conseguentemente interessati i team aziendali più opportuni a gestirne tutte le implementazioni. Altrimenti il rischio è di disperdere opportunità e risorse o, peggio, di utilizzarne impropriamente determinati elementi. Un caso esemplare riguarda la comunicazione su e attraverso blog e social network, che rimane spesso “in charge” unicamente al team che pianifica la pubblicità online, e che invece necessiterebbe di una strategia che parta da logiche diametralmente opposte, orientate principalmente all’ascolto, alla condivisione, al dialogo. Ma questi sono ambiti professionali tipicamente coordinati da altri comparti, supportati peraltro da partner esterni l’azienda differenti rispetto a quelli utilizzati per le pianificazioni pubblicitarie.


Per fortuna, sono sempre più numerose le organizzazioni che hanno iniziato a rendere l’impiego della Rete effettivamente diffuso e distribuito all’interno delle strategie complessive (e non solo quelle legate al marketing e alla comunicazione) e, nei casi più virtuosi, è il management stesso ad essere coinvolto. Così troviamo dei team di Ricerca e Sviluppo che utilizzano internet per co-creare i prodotti con i consumatori, numerosi reparti PR che seguono la reputazione dell’azienda attraverso l’analisi delle discussioni online, alcune divisioni Customer Support che gestiscono dei “call center 2.0” su forum e community pubbliche. E così via.


Una evoluzione quindi della strategia multicanale, la quale va a percorrere in modo trasversale le funzioni aziendali. Uno degli elementi che poi le amalgama sono gli Analytics, ossia tutte le attività di monitoraggio e analisi dei risultati delle attività svolte, che di fatto caratterizzano internet rendendolo estremamente misurabile, tanto da suggerire la progettazione e l’esecuzione di qualsiasi iniziativa online all’interno di una specie di loop, nel quale viene effettuato un continuo perfezionamento e adeguamento delle stesse, in funzione dei risultati che stanno generando.


Mauro Lupi
Pubblicato sul pamphlet annuale “La pubblicità interattiva in Italia” di IAB Italia, Ottobre 2009


La ricorrenza dei venti anni dalla nascita del Web è una di quelle situazioni legate alle tecnologie in cui anche brevi periodi temporali sono segnati da fasi molteplici, con un rapido incedere fatto di sconvolgimenti, riflussi e nuove scoperte. Così le due decadi di vita del Web (e qui permettetemi di generalizzare riferendomi ad internet nel suo complesso), hanno visto susseguirsi momenti con scatti repentini, alcuni dei quali hanno avuto riflessi profondi su gran parte della popolazione mondiale. Dopo il primo impiego carbonaro nelle università, in cui l’aspetto tecnologico era prevalente, ci fu la “fase finanziaria” che sognava, per lo più in modo interessato e con intenti speculativi, la nascita di modelli economici evidentemente slegati da basi sostenibili. Poi il crollo dei modelli fanta-finanziari e la relativa disillusione, seguiti da un periodo di crescita più lenta ma costante e, soprattutto, maggiormente consapevole delle dimensioni e delle opportunità della Rete. Arriviamo quindi dalle parti degli anni che stiamo vivendo, circondati di popolari social network amalgamati dalle applicazioni Web 2.0 che, peraltro, iniziamo a portarci comodamente in tasca attraverso gli apparecchi mobili.


Un elemento di osservazione di questi venti anni di Web sono i suoi vari “passaggi di proprietà”: prima i laboratori tecnologici e le università, poi il mondo finanziario ed alcune corporation, infine le persone tutte che hanno acquisito la leadership negli ultimi anni. Ecco, penso che oggi il Web, sia in mano a ognuno di noi, che da utenti di un sistema tecnologico siamo diventati protagonisti di un ambiente di relazione e comunicazione. Ne abbiamo preso il possesso, ci abbiamo piantato le nostre tende, entro le quali ci informiamo, pubblichiamo contenuti, gestiamo le connessioni con individui e organizzazioni, prendiamo decisioni maggiormente consapevoli e influenziamo quelle di altre persone come noi. Non è più una realtà virtuale ma è parte della nostra vita. Certo, si tratta di modellare questa cittadinanza digitale con gli equilibri economici basati sulla pubblicità più o meno personalizzata o su servizi specializzati a pagamento, ma sono scambi di valore tra individui e fornitori di servizi che riescono a plasmarsi esclusivamente su modelli pensati per le persone e non più calati dall’alto unilateralmente.


Ora si tratta di difendere questo “nostro” Web, perché un potere di queste dimensione non è mai stato disponibile in modo così diffuso e distribuito sull’umanità e abbiamo ancora tutto da imparare nel mantenerlo adeguato alla volontà collettiva. Organizzazioni e governi vorrebbero esercitare un maggior controllo, perché evidentemente il sistema sfugge dai canonici ambiti in cui sono circolate idee e denaro fino a pochi anni fa. Ma la Rete ha ormai dimostrato che vincoli e regolamentazioni imposti d’autorità o eccessivamente di parte, non solo risultano poco efficaci o addirittura controproducenti, ma diventano rapidamente obsoleti perché il Web riesce ad adattarsi comunque ai desideri dei suoi “cittadini”.


Teniamo quindi alta l’attenzione su chi regolamenta la Rete, così come sui fornitori di servizi online diventati custodi delle nostre vite private e dei nostri interessi. Abbiamo gli strumenti per informare e informarci, per indirizzare la volontà popolare e anche quella di piccoli gruppi di persone. È un’opportunità che molti dei nostri genitori non avevano. Lasciamo invece che i nostri figli possano goderne appieno.


Mauro Lupi


Articolo uscito su TakeOff, Luglio 2009


Questo è il mio contributo al libro “Web Analytics” di Alessio Semoli, edito da Hoepli.

Qual è il concetto più difficile da far comprendere ad un cliente?

Mauro: Ciò che ritengo cruciale riguardo ad internet è capire che i risultati dell’analisi sono parte integrante del processo di comunicazione e non solo un task a valle delle campagne.

Provo a spiegarlo con un esempio relativo alla pianificazione della pubblicità sui motori di ricerca. In questo caso, l’obiettivo, di solito, è incrementare visite qualificate al sito, e il cliente deve maturare la consapevolezza che tutte le fasi della campagna sono misurabili fin nei minimi particolari: la quantità di ricerche effettuate sulle keyword oggetto della campagna, la numerosità ed il relativo costo di ogni singola visita, il comportamento dei visitatori sul sito in funzione di ogni singola chiave di ricerca utilizzata per accedere, ecc.

Ebbene, partendo da tali presupposti di misurabilità, l’approccio alla campagna dovrebbe essere di tipo “learn by doing”, ossia sviluppato in funzione dei dati costanti che derivano dalla misurazione.

Pretendere di predefinire l’entità di tutti i parametri in gioco (numero di ricerche, costo per click, numero e attività dei competitor, capacità di conversione delle pagine di arrivo, …) è semplicemente un rischio inutile.

È la Rete che può darci tutte le risposte: reali, dettagliate e in tempo reale.

Basta volerle e usarle, in itinere e non solo a consuntivo di un’operazione! L’impostazione di una campagna dovrebbe nascere da una pianificazione “in progress”, nella quale è già strategicamente impostato un lavoro di perfezionamento continuo (e qui penso ad una frequenza di tuning anche quotidiana, se coerente con la campagna) in base alle generose indicazione che arrivano dai tool della web Analytics.

Guardare semplicemente i dati alla fine della campagna, significa solo constatare il livello di inefficienza con la quale è stata gestita.

Mi rendo evidentemente conto che questo atteggiamento tocca l’impostazione del business che, nel nostro Paese, non ha un così alto valore pragmatico. L’approccio che talvolta viene chiamato “beta perenne”, una strategia votata al costante cambiamento e perfezionamento, è lontana da una visione manageriale che invece considera ancora l’errore come un grave difetto e non come spunto per imparare e acquisire informazioni utili e concrete. Gli errori sono ancora dei tabù da nascondere, da sminuire; e questo non fa che tarpare le ali alla sperimentazione, alla ricerca, ai ragionamenti “out of the box”.

Qual è secondo te il valore aggiunto più grande della Web Analytics?

Mauro: Anni fa paragonai gli strumenti di analisi alle telecamere presenti nei supermercati le quali, oltre a identificare i ladruncoli di passaggio, forniscono delle indicazioni strepitose sui comportamenti dei consumatori davanti agli scaffali: cosa li attira e cosa ignorano, cosa scelgono, il percorso nel negozio, ecc. …

Ebbene, ogni sito web ha potenzialmente una potentissima telecamera che registra tutti i movimenti dei visitatori; solo che molto spesso non viene accesa affatto oppure la si guarda molto superficialmente. O, peggio, vengono ignorate le evidenze che dimostrano l’inconsistenza di alcune aree del sito e che implicitamente auspicano delle revisioni.

La buona notizia è che sbagliare su internet costa poco, anzi, io credo che la strategia migliore su internet sia osare, misurare e correggere il tiro. Meglio un processo graduale che cresce corroborato da una misurazione e ne traccia costantemente plus e minus, piuttosto che un progetto in cui si cerca di prevedere tutto ma che non prevede la capacità (o la voglia) di cambiare in corsa.

Come cambia la Web Analytics con la diffusione sempre più massiccia dei social media?

Mauro: Penso che si tratti davvero di un momento speciale per chi si occupa di marketing e per chi si interessa di ricerca sociale. La rete con le sue connessioni e la sua grande diffusione e partecipazione sta creando il più grande focus group mai esistito. Centinaia di milioni di persone nel mondo “parlano” dei loro interessi, dei loro bisogni. Lo fanno in modo diretto, sincero, spontaneo. Nei blog, nei forum, nei social network, su YouTube o Flickr, gli utenti inseriscono contenuti che trattano anche delle aziende, dei loro prodotti o di quelle dei loro competitor. La grande differenza è talmente evidente che a volte resta celata perché sembra banale citarla: un focus group o un’indagine tradizionale rilevano opinioni di singoli (seppur rappresentative di un campione più ampio) mentre ascoltare le discussioni online significa invece identificare delle “voci connesse”, dei contenuti che sono visibili a milioni di utenti e che hanno grandi capacità di impatto e influenza. L’obiettivo da raggiungere è di riuscire a “pesare”le voci e non più solo contarle. Per cominciare è utile anche solo cambiare la terminologia e spostare il focus sulle persone: le persone sono partecipanti molto più complessi e interessanti dei semplici “utenti” o “consumatori”.

Evidentemente siamo su un terreno ancora nuovo ma la tecnologia sta producendo strumenti sempre più precisi per permettere alle aziende di compiere il passo successivo: interagire con i singoli individui, sempre più coscienti delle loro capacità di giudizio, di scelta e di influenza.


Io continuo a credere al valore strategico dei blog aziendali, anche se indubbiamente fanno riflettere le recenti chiusure di quelli di Mandarina Duck e Samsung Italia e il blackout per due mesi di popolare Desmblog della Ducati. Così come c’è da valutare l’ulteriore proliferazione di luoghi online (Twitter e Facebook in primis) che tentano l’esplorazione di altre piattaforme. In questo articolo cercherò di spiegare perché penso che i blog siano comunque una delle basi da cui partire per rinnovare la comunicazione da parte delle aziende.


Oltre alle evidenze numeriche (sono oltre 9 milioni gli italiani che leggono i blog ogni mese secondo Nielsen), il blog è l’estensione più naturale della presenza online delle aziende. Spesso viene utilizzato efficacemente come area news, dato che si presta perfettamente a raccogliere contenuti periodici. Nel contempo è lo strumento più facilmente gestibile per avviare un canale di comunicazione bidirezionale, attività questa che risulta ancora complicata per molte organizzazioni e che un blog permette di affrontare in modo graduale e consapevole.


Considerando che in definitiva il blog è un sito web, il suo impiego è in grado di soddisfare obiettivi differenti: il lancio di un prodotto (www.quellichebravo.it di Fiat), la gestione dell’area recruiting (joinus.maxmarafashiongroup.it di Max Mara), il confronto sull’innovazione (lab.vodafone.it di Vodafone), uno spazio informale di comunicazione (village.cepu.it di CEPU), l’area per raccontare l’azienda e le sue storie attraverso la voce del titolare o di un manager (www.wineislove.it di Zonin).


E se è evidente che l’evoluzione del rapporto tra aziende e consumatori, cruciale ma altresì abbastanza complicata, passa per una comunicazione orientata ad un rapporto tra persone, e quindi più informale e trasparente, il blog è un ottima palestra ove esercitare questa attività. Un luogo che da una parte costringe ad aprirsi all’informalità e a risultare credibili, dall’altra che tende a premiare le passioni e ad esaltare quei contenuti di valore che le aziende spesso celano o trasformano in messaggi pubblicitari. Altro effetto è quello di stimolare più o meno naturalmente l’interesse a guardarsi attorno e individuare altre community, altre persone da ascoltare e con cui sviluppare relazioni.


Naturalmente un progetto di blog aziendale richiede una pianificazione attenta e degli obiettivi nel medio termine. Insomma, si tratta di un elemento che deve divenire parte della strategia di comunicazione e non un’operazione tattica di tipo prettamente promozionale. Prendiamo il caso di successo del blog italiano di Playstation (blog.playstationplanet.it): il progetto, nato nel 2006, ha richiesto almeno un anno per maturare, per esprimere tutta la sua potenzialità, per sincronizzarsi con la blogosfera, ma oggi è uno dei capisaldi della comunicazione dell’azienda. Tra l’altro, il blog di Playstation è stato il primo blog al mondo avviato dalla multinazionale, un primato che ha visto distinguersi il nostro paese anche in altre occasioni, ad esempio col blog collettivo di Microsoft Italia (www.mclips.it) oppure con il blog di Google Italia (googleitalia.blogspot.com) che è stato il primo in assoluto tra quelli del gruppo ad abilitare i commenti.


Ad aprire un blog ci si impiega un attimo, sostenendo costi limitatissimi. Ma quello su cui occorre investire è il rinnovamento dell’approccio dell’azienda al mondo esterno. E questo è complesso e non accade automaticamente implementando un tool web 2.0 o aprendo una pagina su Facebook. Serve una strategia e un percorso graduale. Ecco, un blog permette di partire in modo scalabile, senza particolari rischi, come un olio salutare che pian piano pervade orizzontalmente l’organizzazione. Quando aprite il vostro?


Mauro Lupi


Pubblicato su Nòva/IlSole24Ore il 7 Maggio 2009


Internet ha creato un mercato complesso, sconvolgendo professioni, cambiando il rapporto tra le persone, mettendo in crisi modelli economici che apparivano consolidati. Le aziende e le organizzazioni chiedono a più riprese agli addetti ai lavori di rendere più semplici e comprensibili le loro proposte di servizi legate alla Rete. Auspicano di poter omologare le analisi e le metriche utilizzate per altri comparti a quelli relativi ad internet. L’ultimo appello in ordine di tempo è arrivato dall’edizione 2008 di IAB Forum, l’evento dedicato alla comunicazione interattiva, nel quale molte aziende hanno reiterato l’invito: semplifichiamo l’approccio ad internet che oggi è invece eccessivamente articolato e gestito da troppe figure professionali diverse, allineiamo le numeriche della Rete con quelle con le quali si gestiscono i media tradizionali, forniteci supporto formativo sui più recenti servizi e tool online.

Ebbene, io penso che la ricerca di semplificazione e omologazione non solo non sia possibile, ma rischia di appiattire le principali potenzialità della Rete, la quale proprio nelle pieghe della sua oggettiva complessità, nasconde le opportunità migliori. Per spiegare meglio cosa intendo, volevo partire da un’esperienza di qualche anno fa.

Nel periodo in cui si diffusero i primi personal computer io mi occupavo, tra l’altro, di formazione sui programmi applicativi. Era molto interessante verificare l’approccio che gli utenti avevano con i primi programmi per la scrittura. Anche se i loro nomi erano tutto sommato rassicuranti (Wordstar, Word, Word Perfect, ecc.), ciò che intimoriva era la quantità di funzioni disponibili: “come riusciremo a impararle tutte?”. D’altronde, il naturale confronto era con la base di esperienze maturate con lo strumento precedente, ossia la macchina da scrivere, la cui gamma di opzioni era praticamente circoscritta al numero dei pulsanti visibili sulla tastiera. Dei word processor, invece, spaventava l’incognita delle funzioni non immediatamente riconoscibili, la presunta necessità che per poterli utilizzare occorresse imparare ogni singola funzione. Allora qualche produttore di software provò a realizzare delle applicazioni semplificate: programmi spartani e facilissimi anche se dotati di tutte le caratteristiche fondamentali: ebbene, furono un completo fallimento. Alla fine, gli utenti brontolavano un po’ ma avevano capito una regola fondamentale: la complessità è anche sinonimo di versatilità; la semplificazione, invece, molto spesso sottrae valore. Il punto semmai è quello di poter gestire la complessità in modo produttivo e profittevole. E qui torniamo alla Rete.

Prendiamone atto una volta per tutte: che ci piaccia o no, internet è molto complessa e non è omologabile col passato. Non sono gli operatori del settore che “la fanno difficile”, è invece la sua struttura ad essere splendidamente inedita e articolata. Ricordiamolo ancora: internet non è un “media” ma un ambiente digitale di relazione e questo complica la vita quando si vuole conformarlo all’approccio e alle metriche dei mezzi di comunicazione tradizionali. Troviamo un’indiretta conferma di questo anche nell’interessante relazione a IAB Forum di Marco Vernocchi, Managing Director M&E Europe di Accenture, che mostra tutta l’articolazione del mondo della comunicazione digitale attraverso le svariate figure professionali presenti sul mercato. Io penso che non siano solo frutto della relativa gioventù del settore (almeno rispetto agli altri mezzi), ma dell’oggettiva necessità di gestire attività diversificate e peraltro in continuo divenire.

Volersi rapportare al passato oppure sperare che la complessità della Rete possa svanire magicamente, rischia solo di far perdere opportunità. Sarebbe come dover camminare (anzi, correre) in avanti e, anziché sviluppare le capacità di capire la direzione da prendere tra le innumerevoli direzioni a disposizione, si continuasse a guardare indietro rischiando di sbattere al primo ostacolo, oppure si cercasse di trovare la direzione guardando una cartina stradale ormai desueta. Meglio cercare una guida esperta, anzi, uno sherpa, capace di avvicinare a mete impervie anche rocciatori non professionisti, sapendo però che nessuno potrà mai eliminare l’impegno e la fatica necessari per arrivare in vetta.

Articolo pubblicato su Nòva/IlSole24Ore del 27 Novembre 2008


Internet ha creato un mercato complesso, sconvolgendo professioni, cambiando il rapporto tra le persone, mettendo in crisi modelli economici che apparivano consolidati. Le aziende e le organizzazioni chiedono a più riprese agli addetti ai lavori di rendere più semplici e comprensibili le loro proposte di servizi legate alla Rete. Auspicano di poter omologare le analisi e le metriche utilizzate per altri comparti a quelli relativi ad internet. L’ultimo appello in ordine di tempo è arrivato dall’edizione 2008 di IAB Forum, l’evento dedicato alla comunicazione interattiva, nel quale molte aziende hanno reiterato l’invito: semplifichiamo l’approccio ad internet che oggi è invece eccessivamente articolato e gestito da troppe figure professionali diverse, allineiamo le numeriche della Rete con quelle con le quali si gestiscono i media tradizionali, forniteci supporto formativo sui più recenti servizi e tool online.

Ebbene, io penso che la ricerca di semplificazione e omologazione non solo non sia possibile, ma rischia di appiattire le principali potenzialità della Rete, la quale proprio nelle pieghe della sua oggettiva complessità, nasconde le opportunità migliori. Per spiegare meglio cosa intendo, volevo partire da un’esperienza di qualche anno fa.

Nel periodo in cui si diffusero i primi personal computer io mi occupavo, tra l’altro, di formazione sui programmi applicativi. Era molto interessante verificare l’approccio che gli utenti avevano con i primi programmi per la scrittura. Anche se i loro nomi erano tutto sommato rassicuranti (Wordstar, Word, Word Perfect, ecc.), ciò che intimoriva era la quantità di funzioni disponibili: “come riusciremo a impararle tutte?”. D’altronde, il naturale confronto era con la base di esperienze maturate con lo strumento precedente, ossia la macchina da scrivere, la cui gamma di opzioni era praticamente circoscritta al numero dei pulsanti visibili sulla tastiera. Dei word processor, invece, spaventava l’incognita delle funzioni non immediatamente riconoscibili, la presunta necessità che per poterli utilizzare occorresse imparare ogni singola funzione. Allora qualche produttore di software provò a realizzare delle applicazioni semplificate: programmi spartani e facilissimi anche se dotati di tutte le caratteristiche fondamentali: ebbene, furono un completo fallimento. Alla fine, gli utenti brontolavano un po’ ma avevano capito una regola fondamentale: la complessità è anche sinonimo di versatilità; la semplificazione, invece, molto spesso sottrae valore. Il punto semmai è quello di poter gestire la complessità in modo produttivo e profittevole. E qui torniamo alla Rete.

Prendiamone atto una volta per tutte: che ci piaccia o no, internet è molto complessa e non è omologabile col passato. Non sono gli operatori del settore che “la fanno difficile”, è invece la sua struttura ad essere splendidamente inedita e articolata. Ricordiamolo ancora: internet non è un “media” ma un ambiente digitale di relazione e questo complica la vita quando si vuole conformarlo all’approccio e alle metriche dei mezzi di comunicazione tradizionali. Troviamo un’indiretta conferma di questo anche nell’interessante relazione a IAB Forum di Marco Vernocchi, Managing Director M&E Europe di Accenture, che mostra tutta l’articolazione del mondo della comunicazione digitale attraverso le svariate figure professionali presenti sul mercato. Io penso che non siano solo frutto della relativa gioventù del settore (almeno rispetto agli altri mezzi), ma dell’oggettiva necessità di gestire attività diversificate e peraltro in continuo divenire.

Volersi rapportare al passato oppure sperare che la complessità della Rete possa svanire magicamente, rischia solo di far perdere opportunità. Sarebbe come dover camminare (anzi, correre) in avanti e, anziché sviluppare le capacità di capire la direzione da prendere tra le innumerevoli direzioni a disposizione, si continuasse a guardare indietro rischiando di sbattere al primo ostacolo, oppure si cercasse di trovare la direzione guardando una cartina stradale ormai desueta. Meglio cercare una guida esperta, anzi, uno sherpa, capace di avvicinare a mete impervie anche rocciatori non professionisti, sapendo però che nessuno potrà mai eliminare l’impegno e la fatica necessari per arrivare in vetta.

Articolo pubblicato su Nòva/IlSole24Ore del 27 Novembre 2008


Technorati è stato per diversi anni il principale punto di riferimento nell’analisi dell’articolato mondo dei blog, tanto da essere identificato come il “Google dei blog”. Ha iniziato a perdere di smalto per via di saltuari problemi tecnici ma soprattutto perché è la blogosfera ad essere cambiata. Lo testimonia il fatto che la rilevazione sulla numerosità e tipologia dei blog svolta periodicamente da Technorati per fotografare l’intero settore, oggi è stata praticamente sostituita da un’indagine realizzata mediante interviste. Dall’esame quantitativo e generalizzato sulla numerosità e sulla frequenza di pubblicazione, si è passati ad analizzare elementi più specifici tra i quali il modello di business (quando esiste) sottostante ai blog.

È una specie di resa consapevole di fronte alla difficoltà di classificare quella che, insieme ai video e alle foto condivise online, è la parte più significativa degli user generated content. A ciò si aggiunge la continua polverizzazione di tali contenuti in altre decine di luoghi differenti: i microblog di Tumblr, le comunicazioni brevi di Twitter, i social network verticali di Ning, le relazioni su Facebook, senza dimenticare FriendFeed che prova a fare da collettore a tutto questo. C’è anche Knol, la piattaforma di Google per la pubblicazione di articoli, disponibile ora anche in italiano.

Uno scenario che si evolve rapidamente verso cento direzioni differenti, ove l’unica certezza è che tra sei mesi potremmo trovarci davanti una situazione nuovamente diversa. Tutto questo fa impazzire chi prova a capire e fotografare la Rete con sistemi e metriche con cui si valutano gli altri mezzi di comunicazione. Le logiche delle classifiche e delle generalizzazioni non funzionano più. I blog più seguiti e popolari sono comunque fenomeni circoscritti e difficilmente (lo si spera in qualità di lettori) diventeranno singoli canali mainstream. Di certo non rappresentano la blogosfera tutta, che invece è sempre più espressione delle splendide diversità di cui si compone il genere umano. Così come i due milioni di utenti che usano Facebook, altro non sono che un eterogeneo insieme di persone non certo rappresentativo di valori comuni se non quello relativo all’uso uno strumento online, adottato peraltro in massa solo negli ultimi sei mesi e che alla stessa velocità potrebbe orientarsi altrove in futuro.

Decifrare social network e blog presuppone accettare alcune regole non scritte che iniziano però a ripetersi in questo pur breve periodo di esistenza.

  1. Le aggregazioni attorno a siti e servizi online hanno dei cicli di vita piuttosto brevi. Si crea spesso una specie di loop che esplode nel momento di massima popolarità per rigenerarsi in mille modi diversi. Quindi è bene dedicare l’attenzione su più fronti, pronti però a cambiare rotta quando serve.
  2. La quantità di contenuti digitali è un mare in piena: meglio analizzarlo dall’alto perché a concentrarsi troppo sui particolare o con eccessiva minuzia, fa rischiare solamente di essere travolti dall’onda. Inutile è anche cercare di mettere argini e costruire dighe: meglio imparare a fare surf.
  3. Chi per ragioni personali o professionali ha interesse a far parte di questo ecosistema digitale, non può limitarsi ad “esserci” ma ne deve diventarne effettivamente uno degli elementi. In pratica, la differenza tra aprire un blog autoreferenziale piuttosto che relazionarsi con una serie di “ambienti” nei quali si ascolta e si ha qualcosa di interessante da raccontare.
  4. Non esiste un “prime time” sulla Rete se lo si cerca di individuare su canali specifici. Audience, influenza e impatti significativi, sono generati da internet quando scattano le sue capacità di aggregare le persone e sviluppare cicli virtuosi crescenti. E succede quando la tanto decantata “viralità” della Rete, risulta essere il frutto di motivazioni oggettive piuttosto che un caratteristica ricercata dai marketers.

Articolo pubblicato su Nòva/IlSole24Ore del 13 Novembre 2008


Una delle maggiori trasformazioni nel mondo dei mezzi di comunicazione è il fatto che si stia passando dal concetto di “media” a quello più articolato di “ambienti interattivi”, soprattutto in riferimento ai canali digitali. Il livello di interazione che è implicito nel web, è stato per anni considerato quasi esclusivamente in funzione del click sui link, pensato principalmente come fatto tecnico, specie in chiave pubblicitaria. L’interattività della Rete mostra invece quanto la tecnologia abbia creato una vera e propria connessione universale, la quale sta cambiando per sempre le relazioni tra gli individui con chiari effetti anche nel mondo degli affari.

Le aziende si trovano a dover gestire dei canali di comunicazione che sono meno controllabili e circoscrivibili rispetto al passato e, soprattutto, ove la mera logica dell’esporre i propri brand non è più sufficiente. Occorre sviluppare relazioni e non più sparare messaggi pubblicitari più o meno segmentati.

La buona notizia è che tutti gli strumenti digitali permettono, oggi come non mai, la valorizzazione delle aziende che offrono prodotti e servizi di qualità, al giusto prezzo e con l’adeguato supporto. Internet tende ad amplificare quasi naturalmente “i migliori”, da un parte esaltando una sana competizione, dall’altra stimolando la creatività industriale e anche quella comunicativa, esaltando le connotazioni di originalità e unicità.

Può sembrare un paradosso, ma proprio nell’era dei “contenuti generati dagli utenti” in cui cresce il potere delle persone (potere informativo, potere di scelta, potere di influenzare), le aziende devono comunicare di più e in modo diverso, aprendo dei canali trasmissivi che non siano solo prettamente promozionali, ma che offrano contenuti di qualità, utili e piacevoli (io li chiamo “company generated contents”). La necessaria discontinuità deve partire dalla posizione nei confronti dei consumatori che non possono più essere considerati dei passivi destinatari di messaggi uniformati, ma che diventano protagonisti, interlocutori e poi giudici. Va quindi superata la logica dello stimolo di scelte e azioni di acquisto a fronte di attività persuasive, ma va perseguita quella di coinvolgere e trasformare le persone in amplificatori di messaggi positivi, alimentando continuamente una relazione attiva e bidirezionale.

Il punto è: la pubblicità online può risultare davvero interattiva? Si, certo! Occorre solo che sia pensata per la Rete, che si orienti a imbastire un discorso, che sia parte di un progetto complessivo ove i destinatari siano al centro dell’attenzione e non al centro di un bersaglio (che è poi il significato letterale di target). Questo significa parlare una lingua più simile possibile a quella delle persone che sulla Rete esprime tutta la sua forza nelle community, nei social network, nei blog. Elementi da cui anche la pianificazione pubblicitaria online tradizionale non dovrebbe prescindere, sapendo però di dover utilizzare questi canali non solo come aggregatori di audience su cui esporre messaggi promozionali, ma come aree di conversazione e confronto.

E questi cambiamenti radicali nel rapporto aziende-consumatori, trovano con internet il loro naturale ambiente di sbocco, molto meglio di qualsiasi altro mezzo di comunicazione tradizionale. Questa è l’opportunità che la Rete mette a disposizione di tutti i marketers: affrontare il consumatoRe (ma anche consumAttore e consumAutore) con le leve dell’interattività, della relazione, dello scambio. L’evoluzione in atto e l’accresciuta competitività dei mercati costringe ogni azienda ad agire velocemente, puntare su aree specifiche di mercato, creare molteplici touchpoint con i consumatori, programmare e verificare in dettaglio i risultati degli investimenti: nessuno strumento meglio della Rete permette di soddisfare tutto questo.

Articolo di Mauro Lupi contenuto nel pamphlet 2008 di IAB Italia.


Una delle maggiori trasformazioni nel mondo dei mezzi di comunicazione è il fatto che si stia passando dal concetto di “media” a quello più articolato di “ambienti interattivi”, soprattutto in riferimento ai canali digitali. Il livello di interazione che è implicito nel web, è stato per anni considerato quasi esclusivamente in funzione del click sui link, pensato principalmente come fatto tecnico, specie in chiave pubblicitaria. L’interattività della Rete mostra invece quanto la tecnologia abbia creato una vera e propria connessione universale, la quale sta cambiando per sempre le relazioni tra gli individui con chiari effetti anche nel mondo degli affari.

Le aziende si trovano a dover gestire dei canali di comunicazione che sono meno controllabili e circoscrivibili rispetto al passato e, soprattutto, ove la mera logica dell’esporre i propri brand non è più sufficiente. Occorre sviluppare relazioni e non più sparare messaggi pubblicitari più o meno segmentati.

La buona notizia è che tutti gli strumenti digitali permettono, oggi come non mai, la valorizzazione delle aziende che offrono prodotti e servizi di qualità, al giusto prezzo e con l’adeguato supporto. Internet tende ad amplificare quasi naturalmente “i migliori”, da un parte esaltando una sana competizione, dall’altra stimolando la creatività industriale e anche quella comunicativa, esaltando le connotazioni di originalità e unicità.

Può sembrare un paradosso, ma proprio nell’era dei “contenuti generati dagli utenti” in cui cresce il potere delle persone (potere informativo, potere di scelta, potere di influenzare), le aziende devono comunicare di più e in modo diverso, aprendo dei canali trasmissivi che non siano solo prettamente promozionali, ma che offrano contenuti di qualità, utili e piacevoli (io li chiamo “company generated contents”). La necessaria discontinuità deve partire dalla posizione nei confronti dei consumatori che non possono più essere considerati dei passivi destinatari di messaggi uniformati, ma che diventano protagonisti, interlocutori e poi giudici. Va quindi superata la logica dello stimolo di scelte e azioni di acquisto a fronte di attività persuasive, ma va perseguita quella di coinvolgere e trasformare le persone in amplificatori di messaggi positivi, alimentando continuamente una relazione attiva e bidirezionale.

Il punto è: la pubblicità online può risultare davvero interattiva? Si, certo! Occorre solo che sia pensata per la Rete, che si orienti a imbastire un discorso, che sia parte di un progetto complessivo ove i destinatari siano al centro dell’attenzione e non al centro di un bersaglio (che è poi il significato letterale di target). Questo significa parlare una lingua più simile possibile a quella delle persone che sulla Rete esprime tutta la sua forza nelle community, nei social network, nei blog. Elementi da cui anche la pianificazione pubblicitaria online tradizionale non dovrebbe prescindere, sapendo però di dover utilizzare questi canali non solo come aggregatori di audience su cui esporre messaggi promozionali, ma come aree di conversazione e confronto.

E questi cambiamenti radicali nel rapporto aziende-consumatori, trovano con internet il loro naturale ambiente di sbocco, molto meglio di qualsiasi altro mezzo di comunicazione tradizionale. Questa è l’opportunità che la Rete mette a disposizione di tutti i marketers: affrontare il consumatoRe (ma anche consumAttore e consumAutore) con le leve dell’interattività, della relazione, dello scambio. L’evoluzione in atto e l’accresciuta competitività dei mercati costringe ogni azienda ad agire velocemente, puntare su aree specifiche di mercato, creare molteplici touchpoint con i consumatori, programmare e verificare in dettaglio i risultati degli investimenti: nessuno strumento meglio della Rete permette di soddisfare tutto questo.

Articolo di Mauro Lupi contenuto nel pamphlet 2008 di IAB Italia.


Quali logiche applicare al settore turistico e quali evitare?

Una premessa: per Web 2.0 qui ci riferiamo in particolare all’evoluzione recente di internet in quando a disponibilità di nuovi servizi online di collaborazione e condivisione e alla relativa opportunità di pubblicare, commentare e catalogare ogni tipo di contenuto multimediale. Tool online come i social network, i blog, i podcast, gli RSS, ecc., hanno di fatto reso gli utenti internet molto più ricchi in termini di quantità e tipologia di informazioni accessibili, comprese quelle derivate dalla relazione con altri individui nelle community online. Tale scenario sta modificando profondamente la relazione tra aziende e consumatori e costringe imprenditori e uomini di marketing a rivedere le loro strategie e attività di comunicazione.

Il settore turistico è uno dei più toccati da questa enorme evoluzione di internet, sia per le rinnovate modalità di selezione e scelta dei servizi turistici da parte dei consumatori, sia per la condivisione di informazioni dettagliatissime su qualsiasi località e su ogni struttura ricettiva e servizio turistico che si sono utilizzati.

Il Web 2.0 è caratterizzato dalla polverizzazione dei contenuti, ormai disponibili su molteplici piattaforme tecnologiche, in grado di veicolare non solo le informazioni sviluppate dai media tradizionali ma soprattutto quelle realizzate dai singoli individui. Per avere un’idea dell’impatto dei contenuti generati dagli utenti, basti pensare che il numero di blog esistenti nel mondo ha superato già da alcuni mesi quello dei siti web e che tra i primi 10 siti più visitati in assoluto, almeno la metà sono social network o siti di condivisione di documenti (immagini, video, ecc.)

In tale contesto, il primo riflesso sul mondo del turismo riguarda le modalità per raggiungere i potenziali clienti. Non bastano più le tradizionali campagne pubblicitarie, comprese quelle sempre efficientissime sui motori di ricerca. Occorre raggiungere gli utenti lì dove passano sempre più tempo, ossia nelle aree in cui condividono passioni e contenuti con altre persone come loro. Ma questa strategia va sviluppata attraverso nuove modalità di relazione, non più prettamente pubblicitarie ma orientate al dialogo e alla fornitura di servizi e contenuti che catturino l’attenzione (che poi è la vera “valuta” dei nostri tempi ancor più del denaro) dei potenziali clienti.

Lo sviluppo della relazione con gli utenti online, si deve poi confrontare con gli innumerevoli siti, blog, forum, community, ecc. in cui le persone scambiano giudizi e opinioni sui servizi turistici che hanno utilizzato. Si tratta di aree che influenzano ormai in modo decisivo una grandissima parte delle decisioni di acquisto, sia quelle completate online, sia quelle perfezionate nei punti vendita fisici. Un approccio produttivo ai contenuti generati dagli utenti, è quello di aprire un canale di dialogo con le persone, ad esempio attraverso un blog, e mantenere un atteggiamento trasparente ed una comunicazione credibile, cercando di “sintonizzarsi” con nuove regole e con le applicazioni su cui si basa l’internet di questi tempi.

Abstract dell’intervento di Mauro Lupi a Web in Tourism, Roma 16 ottobre 2008


Misurabilità e numeri del web

Riporto qui per esteso un’intervista che ho rilasciato per il n. 28 di Pubblicità Italia del 25.07.2008 sui temi della misurabilità di internet e della pubblicità online in particolare.

 

La pubblicità on line stenta ancora a decollare nel mercato italiano, almeno quanto a ripartizione del budget. Tuttavia, nonostante gli investimenti particolarmente contenuti, essa ha portato a una forte riduzione del rischio di impresa e di investimento. È d’accordo con questa affermazione?

Indubbiamente internet permette di modulare meglio gli investimenti, programmarli e pianificarli in maniera maggiormente consapevole. Questo sia perché si possono svolgere test preliminari in modo veloce ed efficace, sia perché normalmente si può intervenire anche in corso di campagna per ottimizzarne ulteriormente la portata. Mi preme però sfatare un luogo comune sulla economicità di internet: talvolta si pensa che si tratti di un canale “low cost” in tutto, dimenticando che per cogliere le numerose opportunità della Rete è richiesto comunque un progetto articolato e con un budget adeguato, compreso quello per utilizzare le professionalità che non potranno mai essere “low cost” se si vuole perseguire un risultato positivo.

Da tempo si dice che il web advertising è sul punto di affermarsi nel mercato italiano. È veramente così? In tal caso, quali sono i criteri per affermare che esso non rappresenta più solo una nicchia di mercato?

Le elaborazioni di IAB indicano una quota percentuale della pubblicità su internet pari a circa il 7% della spesa complessiva, con una crescita che rimane attorno al 40% anno su anno. Numeri che proprio di nicchia non sono anche se è evidente il minor peso che in Italia si attribuisce alla Rete rispetto agli altri paesi europei. Mi auguro che tutte le analisi che testimoniano il crescente peso di internet nel panorama complessivo dei mezzi, siano finalmente recepite dagli investitori pubblicitari. Il punto è che non si tratta solo di allocazione di mezzi finanziari, ma di un cambiamento del modo di fare comunicazione e questo rende molte aziende timorose e fin troppo prudenti.

Quali sono i principali strumenti per misurare l’efficacia della pubblicità sul web? E quali invece i principali punti di forza della pubblicità on line in termini di costo, misurabilità e immediatezza? Quali sono le principali differenze rispetto ai sistemi di misurazione dei mezzi tradizionali?

Internet è misurabile in lungo e in largo e, in funzione degli obiettivi delle campagne, si possono attivare strumenti di analisi diversi. Per le azioni concentrate sul sito web, ci sono tutta una serie di strumenti che consentono di capire l’efficacia di ogni singolo canale utilizzato e l’effetto che genera in relazione al sito, individuando sia parametri quantitativi (numero di visite, numero di lead e di vendite generati, ROI, ecc.) che indicatori qualitativi (livello di interazione e fedeltà al sito, tipologia e sentiment dei feedback, ecc.). Se invece l’obiettivo della campagna è più orientato a rafforzare i valori di marca, si possono attivare delle interviste online tali da ottenere indicazioni precise con tempi e costi decisamente migliori rispetto a quanto normalmente si fa con i canali off-line.

Sempre a proposito di strumenti e strategie volte alla misurazione dei risultati, secondo la sua esperienza quali sono oggi quelli più richiesti dai clienti? E quali, se ce ne sono, quelli sottovalutati, magari ingiustamente?

La richiesta è normalmente di correlare il costo della campagna di comunicazione online con i risultati in termini di vendite generate. E se questo è abbastanza facile da analizzare per le campagne dedicate ai siti di e-commerce, più complesso è il caso (peraltro più frequente) di campagne che promuovono prodotti o servizi che non sono o non possono essere venduti online. In questo caso, cerchiamo di definire dei KPI (key performance indicator) sui quali impostare le attività. Ciò che a volte viene sottovalutata è la possibilità di fare analisi post-campagna che misurino l’awareness complessivo (associazione ai valori del brand, comparazione del ricordo rispetto ai competitor, e così via), utilizzando dei collaudati strumenti che sono estremamente efficaci.

Spesso si parla di misurazione in termini quantitativi: numero di visitatori, numero di click ecc.. C’è però tutto un panorama qualitativo, fatto di engagement tra brand e consumatore. Cosa ci può dire a riguardo, specie per quanto riguarda la sua esperienza professionale?

Giustissimo. E se gli elementi legati all’awareness sono analizzabili già da tempo come dicevo prima, sono ancora tutte da definire le rinnovate relazioni delle persone con i brand. Non si tratta solo di opinioni o di propensione all’acquisto ma di influenza che i singoli individui hanno nell’ambito delle loro comunità di riferimento. Non è quindi solo importante seguire l’efficacia della relazione col singolo, ma inquadrarla in un contesto più ampio che sulla Rete sono i blog, i social network, le comunità digitali. In questo caso, c’è necessità di chiarire e perseguire sin da subito gli obiettivi dell’azione di comunicazione per poi seguire gli indicatori che ne traccino i risultati, in parte espressi comunque quantitativamente seppur con metriche nuove (link, commenti, follower, friend, subscriber, ecc.), in parte esaminati su parametri qualitativi: partecipazione, sentiment, fedeltà, e così via.

Ritiene che l’affannosa ricerca del numero abbia tolto spazio alla dimensione qualitativa del rapporto che si può instaurare tra brand e consumatore? (es: branding, engagement).

Credo che è finalmente accettata l’idea che le marche devono tornare a relazionarsi con le persone, anziché considerarle solo dei soggetti passivi di attività pubblicitarie monodirezionali e autoreferenziali. Il vero scoglio è questo, perché è la cultura d’impresa che deve cambiare, che deve aprirsi al dialogo col consumatore. Come singoli individui siamo oggi tutti più potenti nei confronti dei brand: abbiamo maggiore potere di scelta, abbiamo più informazioni e tendiamo ad essere consumatori meno fedeli che in passato. Le marche devono ricostruire la fiducia dando senso alla loro comunicazione e proponendosi in modo più intelligente e trasparente. Sono logiche di medio periodo e come tali vanno misurate anche se molte iniziative, seppure avviate in modo timido e prudente, generano risultati immediati perché risultano fresche ed originali o semplicemente più vicine alle persone.

All’interno dell’universo Web 2.0 da tempo si è imposta la dimensione social network, anche come strumento al servizio del marketing aziendale. Quali sono gli strumenti e le strategie per misurare l’interazione tra utenti e tra brand e utente, all’interno di simili community?

Anche in questo caso dipende dagli obiettivi che ci si pone. Una cosa, ad esempio, è sviluppare una migliore fiducia nel brand, un’altra è ottenere feedback dai consumatori sull’uso di un prodot
to, così come ancora diversa è una strategia che punti ad aumentare i touchpoint dell’azienda facendo “scendere in campo” manager e collaboratori. In linea generale si cerca di misurare non solo l’audience raggiunta in termini numerici assoluti, ma di analizzarla con indicatori qualitativi che, ad esempio, ne identifichino l’influenza e l’autorevolezza.

 

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Misurabilità e numeri del web

Riporto qui per esteso un’intervista che ho rilasciato per il n. 28 di Pubblicità Italia del 25.07.2008 sui temi della misurabilità di internet e della pubblicità online in particolare.

 

La pubblicità on line stenta ancora a decollare nel mercato italiano, almeno quanto a ripartizione del budget. Tuttavia, nonostante gli investimenti particolarmente contenuti, essa ha portato a una forte riduzione del rischio di impresa e di investimento. È d’accordo con questa affermazione?

Indubbiamente internet permette di modulare meglio gli investimenti, programmarli e pianificarli in maniera maggiormente consapevole. Questo sia perché si possono svolgere test preliminari in modo veloce ed efficace, sia perché normalmente si può intervenire anche in corso di campagna per ottimizzarne ulteriormente la portata. Mi preme però sfatare un luogo comune sulla economicità di internet: talvolta si pensa che si tratti di un canale “low cost” in tutto, dimenticando che per cogliere le numerose opportunità della Rete è richiesto comunque un progetto articolato e con un budget adeguato, compreso quello per utilizzare le professionalità che non potranno mai essere “low cost” se si vuole perseguire un risultato positivo.

Da tempo si dice che il web advertising è sul punto di affermarsi nel mercato italiano. È veramente così? In tal caso, quali sono i criteri per affermare che esso non rappresenta più solo una nicchia di mercato?

Le elaborazioni di IAB indicano una quota percentuale della pubblicità su internet pari a circa il 7% della spesa complessiva, con una crescita che rimane attorno al 40% anno su anno. Numeri che proprio di nicchia non sono anche se è evidente il minor peso che in Italia si attribuisce alla Rete rispetto agli altri paesi europei. Mi auguro che tutte le analisi che testimoniano il crescente peso di internet nel panorama complessivo dei mezzi, siano finalmente recepite dagli investitori pubblicitari. Il punto è che non si tratta solo di allocazione di mezzi finanziari, ma di un cambiamento del modo di fare comunicazione e questo rende molte aziende timorose e fin troppo prudenti.

Quali sono i principali strumenti per misurare l’efficacia della pubblicità sul web? E quali invece i principali punti di forza della pubblicità on line in termini di costo, misurabilità e immediatezza? Quali sono le principali differenze rispetto ai sistemi di misurazione dei mezzi tradizionali?

Internet è misurabile in lungo e in largo e, in funzione degli obiettivi delle campagne, si possono attivare strumenti di analisi diversi. Per le azioni concentrate sul sito web, ci sono tutta una serie di strumenti che consentono di capire l’efficacia di ogni singolo canale utilizzato e l’effetto che genera in relazione al sito, individuando sia parametri quantitativi (numero di visite, numero di lead e di vendite generati, ROI, ecc.) che indicatori qualitativi (livello di interazione e fedeltà al sito, tipologia e sentiment dei feedback, ecc.). Se invece l’obiettivo della campagna è più orientato a rafforzare i valori di marca, si possono attivare delle interviste online tali da ottenere indicazioni precise con tempi e costi decisamente migliori rispetto a quanto normalmente si fa con i canali off-line.

Sempre a proposito di strumenti e strategie volte alla misurazione dei risultati, secondo la sua esperienza quali sono oggi quelli più richiesti dai clienti? E quali, se ce ne sono, quelli sottovalutati, magari ingiustamente?

La richiesta è normalmente di correlare il costo della campagna di comunicazione online con i risultati in termini di vendite generate. E se questo è abbastanza facile da analizzare per le campagne dedicate ai siti di e-commerce, più complesso è il caso (peraltro più frequente) di campagne che promuovono prodotti o servizi che non sono o non possono essere venduti online. In questo caso, cerchiamo di definire dei KPI (key performance indicator) sui quali impostare le attività. Ciò che a volte viene sottovalutata è la possibilità di fare analisi post-campagna che misurino l’awareness complessivo (associazione ai valori del brand, comparazione del ricordo rispetto ai competitor, e così via), utilizzando dei collaudati strumenti che sono estremamente efficaci.

Spesso si parla di misurazione in termini quantitativi: numero di visitatori, numero di click ecc.. C’è però tutto un panorama qualitativo, fatto di engagement tra brand e consumatore. Cosa ci può dire a riguardo, specie per quanto riguarda la sua esperienza professionale?

Giustissimo. E se gli elementi legati all’awareness sono analizzabili già da tempo come dicevo prima, sono ancora tutte da definire le rinnovate relazioni delle persone con i brand. Non si tratta solo di opinioni o di propensione all’acquisto ma di influenza che i singoli individui hanno nell’ambito delle loro comunità di riferimento. Non è quindi solo importante seguire l’efficacia della relazione col singolo, ma inquadrarla in un contesto più ampio che sulla Rete sono i blog, i social network, le comunità digitali. In questo caso, c’è necessità di chiarire e perseguire sin da subito gli obiettivi dell’azione di comunicazione per poi seguire gli indicatori che ne traccino i risultati, in parte espressi comunque quantitativamente seppur con metriche nuove (link, commenti, follower, friend, subscriber, ecc.), in parte esaminati su parametri qualitativi: partecipazione, sentiment, fedeltà, e così via.

Ritiene che l’affannosa ricerca del numero abbia tolto spazio alla dimensione qualitativa del rapporto che si può instaurare tra brand e consumatore? (es: branding, engagement).

Credo che è finalmente accettata l’idea che le marche devono tornare a relazionarsi con le persone, anziché considerarle solo dei soggetti passivi di attività pubblicitarie monodirezionali e autoreferenziali. Il vero scoglio è questo, perché è la cultura d’impresa che deve cambiare, che deve aprirsi al dialogo col consumatore. Come singoli individui siamo oggi tutti più potenti nei confronti dei brand: abbiamo maggiore potere di scelta, abbiamo più informazioni e tendiamo ad essere consumatori meno fedeli che in passato. Le marche devono ricostruire la fiducia dando senso alla loro comunicazione e proponendosi in modo più intelligente e trasparente. Sono logiche di medio periodo e come tali vanno misurate anche se molte iniziative, seppure avviate in modo timido e prudente, generano risultati immediati perché risultano fresche ed originali o semplicemente più vicine alle persone.

All’interno dell’universo Web 2.0 da tempo si è imposta la dimensione social network, anche come strumento al servizio del marketing aziendale. Quali sono gli strumenti e le strategie per misurare l’interazione tra utenti e tra brand e utente, all’interno di simili community?

Anche in questo caso dipende dagli obiettivi che ci si pone. Una cosa, ad esempio, è sviluppare una migliore fiducia nel brand, un’altra è ottenere feedback dai consumatori sull’uso di un prodot
to, così come ancora diversa è una strategia che punti ad aumentare i touchpoint dell’azienda facendo “scendere in campo” manager e collaboratori. In linea generale si cerca di misurare non solo l’audience raggiunta in termini numerici assoluti, ma di analizzarla con indicatori qualitativi che, ad esempio, ne identifichino l’influenza e l’autorevolezza.

 

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Una delle trasformazioni più evidenti nel mondo della comunicazione, sia che riguardi i media tradizionali che quelli digitali, concerne l’atteggiamento delle aziende nei confronti di quelli che una volta venivano chiamati esclusivamente “target” o “consumatori”. Finalmente ci si sta accorgendo che insistere sulla segmentazione dei mercati e sulle “mappe” che identificano le classi di consumo in modo netto, è riduttivo e soprattutto non coglie la pressante richiesta (espressa palesemente o solo ambita) da parte di questi “target” di essere trattati come persone. E oggi le persone tendono ad essere sempre più multi-target, riservando il loro tempo e la loro attenzione alle innumerevoli e crescenti destinazioni che la vita moderna offre loro. Nel contempo, passare a comunicare alle persone e non ai consumatori è solo un primo passo. Il successivo è quello di relazionarsi con queste persone attraverso le stesse persone dell’azienda e non più solamente mediante la pubblicità, i comunicati stampa e le altre attività di marketing tradizionali. Peraltro, si tratta di un processo già in atto testimoniato, ad esempio, dalle campagne di Barilla e, meglio ancora, della Banca San Paolo, le quali raccontano i prodotti delle rispettive aziende attraverso “la faccia” delle persone che vi lavorano.

Incontriamo le persone

Quelli che una volta erano visti semplicemente come “utenti” oppure “consumatori”, oggi sono parte attiva del rapporto con le aziende e, in generale, nella formazione delle decisioni di acquisto anche di altri soggetti. Sono senz’altro più informati, perché tramite internet accedono velocemente a notizie sui prodotti che li interessano, ma sono anche meno influenzabili dalla pubblicità emotiva e superficiale, perché sulla Rete si confrontano con altre individui che in modo disinteressato suggeriscono i prodotti e i servizi che ritengono più convenienti e affidabili. Per le aziende, un primo modo di incrociare i loro potenziali clienti è farsi trovare proprio quando vengono cercati gli argomenti di cui si occupa l’azienda e, non a caso, il “search marketing” rappresenta ormai poco meno della metà di tutta la spesa pubblicitaria su internet. È altresì fondamentale capire cosa e come gli utenti cercano le informazioni su internet. In Ad Maiora, ad esempio, realizziamo analisi di mercato proprio studiando le richieste inoltrate ai motori di ricerca, individuando le esigenze espresse e le caratteristiche linguistiche di queste interrogazioni, fornendo quindi uno strumento di osservazione unico ed efficace, una specie di focus group globale, con la garanzia della sincerità di tutte le risposte. Ma oltre a capire ciò che viene cercato online, è fondamentale seguire il fenomeno dei blog, ascoltando i milioni di persone nel mondo (in Italia se ne contano almeno 350.000 mila, il doppio rispetto a 6 mesi fa) che creano nuovi contenuti esprimendo le loro opinioni e diventando in molti casi estremamente influenti.

Quindi: ascoltiamo le persone, trattiamole come tali e facciamoci trovare quando ci cercano. Il passo successivo? Conversare con loro attraverso un blog aziendale, una scelta sicuramente impegnativa ma che, prima o poi, diventerà inevitabile.

Mauro Lupi

(c) ICT & Tech Solutions – IlSole24Ore, Giugno 2006


Company Generated Content Ogni giorno incontro persone che lavorano in aziende di ogni tipo. Ascoltandole con attenzione e curiosità apprendo sempre informazioni nuove e stimolanti , magari anche curiose e divertenti. Quando invece osservo il modo di comunicare di queste aziende, non sempre riscontro l’emergere di quella passione, quelle competenze e, perché no, quelle storie che a me sono sembrate così interessanti. È come se ci togliessero la possibilità di raccontare a tutti le nostre vacanze o il film appena visto: che gusto ci sarebbe? Ebbene, in questo articolo cercherò di spiegare perché le aziende dovrebbero iniziare a produrre contenuti in modo strutturale, affiancandosi in questo sia ai media tradizionali sia agli user generated content: è arrivato il momento dei company generated content.

Naturalmente la pubblicità rimarrà una delle forme principali di comunicazione da parte delle imprese. Ma oltre alla visibilità che è possibile “acquistare” esistono diverse possibilità di guadagnarsela: naturalmente facendo ottimi prodotti e servizi beneficiando del conseguente passaparola, ma non basta. La vera guerra è l’attenzione degli individui, distratta da un’infinità di contenuti e canali disponibili, ubicati peraltro su device sempre più differenziati, sviluppati dai professionisti dei media ma anche da milioni di individui senza un diretto modello economico sottostante. È ora che le aziende scendano in campo e partecipino a questo gioco, contando soprattutto su internet per arrivare direttamente ai propri stakeholder. Non possono sperare di raggiungere i propri consumatori solo continuando ad acquistare spazi pubblicitari dai publisher on/off-line; così come non ha senso illudersi che i contenuti generati dalle persone siano riconducibili alle finalità di business dell’impresa o, peggio ancora, manipolabili in qualche modo.

L’auspicio per le aziende non è certo quello di cambiare mestiere e mettersi a fare gli editori. Però a guardare bene nei cassetti degli uffici si scoprono mille argomenti che potrebbe aver senso raccontare, naturalmente sempre in relazione agli obiettivi con cui si vuole sviluppare un tale progetto di comunicazione. Anche se sviluppare contenuti per chi di mestiere fa altro può sembrare impegnativo o impossibile, a cercar bene si scopre che c’è materiale ovunque in azienda: basta saperlo individuare, valorizzare e diffondere.

Si può partire dalle classiche news aziendali (compresi i tradizionali comunicati stampa) che molto spesso celano dei contenuti che possono essere sviluppati in chiave informativa così da produrre contenuti utili e interessanti. Quindi fuori tutte le ricerche, le white paper, gli articoli e gli approfondimenti che non solo sanciscono la competenza professionale e generano awareness, ma sono altresì estremamente utili da dare in pasto ai motori di ricerca così da accrescere le porte di ingresso al sito web.

Un altro approccio è quello far scendere in campo le persone dell’impresa, attraverso le loro storie, la loro passione, la loro capacità di spiegare i prodotti e i servizi in modo spontaneo e, in genere, decisamente più credibile della comunicazione promozionale. Si tratta peraltro di un processo già in atto in cui manager e collaboratori “ci mettono la faccia” e iniziano un processo di relazione tra persone e non più solamente tra azienda e consumatore.

Una segnalazione specifica meritano tutti gli eventi a cui partecipano o che organizzano le società (convegni, workshop, fiere, ecc.) che praticamente potrebbero estendere la loro vita se opportunamente digitalizzati e sviluppati sulla rete, fornendo quindi una grande qualità di contenuti in qualche modo “già pagati” e praticamente pronti per sviluppare ulteriore visibilità online.

Tra le diverse forme con cui produrre nuovi prodotti editoriali, il blog aggiunge infine la possibilità non solo di rinnovare la forma dei contenuti ma anche di aprire un canale di comunicazione bidirezionale, aperto ai contributi dei lettori.

I contenuti prodotti dalle aziende diventeranno cruciali nelle loro strategie di comunicazione e nelle tattiche per sviluppare visibilità e autorevolezza. Il sito web fungerà da elemento centrale, aggiungendo alla sua funzione istituzionale e di destinazione delle iniziative pubblicitarie, il ruolo di smistamento di tutti gli altri contenuti periodici prodotti, dei quali si dovrà curare l’ottimizzazione per i motori di ricerca e le funzionalità di condivisione e distribuzione tipiche del Web 2.0. L’estensione verso la conversazione col mondo esterno sarà affidata ad una sezione blog che fungerà da membrana con le persone.

Articolo di Mauro Lupi del 24 Aprile 2008 su Nòva (Copyright IlSole24Ore)

Qui ulteriori informazioni e grafici

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Colazione con Ballmer
Sedere ad un tavolo con dieci amministratori delegati di grandi aziende ad ascoltare e chiaccierare con Steve Ballmer è stato un grande onore ed estramente interessante. Un grande regalo dagli amici di MDAS. Grazie.

Sentire Ballmer affermare che prima di pianificare search advertising ci si dovrebbe preoccupare di farsi trovare facendo search engine optimization, è stato quasi emozionante.

Sentirlo pronosticare il futuro dell’advertising toccando alcune di temi di cui parlerò nel mio intervento di oggi pomeriggio, mi carica di una certa responsabilità.

La giornata prosegue al Crown Plaza. A dopo.


Intervista su DailyNet Domenico Fabbricini ha ben sintetizzato su DailyNet il mio parere sulla possibile acquisizione di Yahoo! da parte di Microsoft.

 

 

 

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Articolo pubblicato giovedì 15 novembre 2007 su Nòva/IlSole24Ore

Ormai abbiamo capito che il consumatore sta cambiando, così come cambiano i media e la comunicazione in generale. Per evolversi di conseguenza, ogni azienda deve aggiornare il processo col quale si definiscono attualmente le strategie di comunicazione partendo, ad esempio, dal mutato scenario competitivo a proposito della visibilità online. Osservando Google, ossia il sito web più visitato in assoluto, nonché l’origine di buona parte degli accessi ai siti, possiamo avere un’idea di cosa significa oggi “competizione”. Negli ultimi cinque anni, il numero complessivo delle pagine censite da Google è aumentato di oltre diciassette volte, per cui ogni sito si trova a competere con una quantità di altri contenuti che aumenta a ritmo esponenziale, contendendosi peraltro sempre lo spazio dei primi dieci risultati. È come se in una strada del centro si passasse in cinque anni da 10 negozi dello stesso settore a 170, tutti a contendersi la medesima clientela.

Indubbiamente la visibilità si può comprare, e la pubblicità interattiva sforna ogni giorno delle nuove ed efficaci soluzioni. Ritengo però che occorra una riflessione più allargata su come le aziende potranno raggiungere i loro stakeholder e sul tipo di comunicazione orientare loro.

In primo luogo, credo sia arrivato il momento per le aziende di iniziare a pensarsi anche come produttori di contenuti. Non più solo pubblicità e comunicati stampa, ma aprirsi in chiave strategica alla divulgazione di contenuti e servizi utili a presidiare l’attenzione delle persone, per informarle e intrattenerle di conseguenza. L’obiettivo non è ovviamente quello di sostituirsi ai media, né di fare il mestiere di editori, ma di affiancarsi ai mezzi tradizionali ancorché ai contenuti generati dagli utenti che sempre più spesso “rubano la scena”. Recentemente Trevor Edwards, il responsabile corporate del brand Nike, ha detto al New York Times: “Noi non siamo nel business di tenere in vita le aziende dei media, noi siamo nel business del connetterci con le persone”. E questo significa che aziende come Nike possono anche bypassare i media, almeno sul fronte dei contenuti. Attenzione però: i contenuti aziendali, specie quelli digitali, non devono più essere solo inclusivi, tutti infilati in pachidermici portali aziendali, ma vanno distribuiti lì dove ci sono le persone, offrendo contenuti e servizi davvero interessanti e non più solo pubblicitari e autoreferenziali.

Un altro aspetto riguarda il modo di comunicare. A me pare che negli ultimi anni, molte aziende si sono spostate, in senso figurato, ai piani alti dei loro palazzi per comunicare con l’esterno. In questo modo hanno senza dubbio potuto guardare un numero maggiore di individui, e urlare messaggi generalisti sempre più forti. Purtroppo, qualche volta la distanza ha reso inascoltabili molti dei messaggi lanciati, così come i feedback dei destinatari erano troppo lontani per essere interpretati adeguatamente. Nel frattempo, le persone sono entrate dal pian terreno e sono in perenne assemblea (ovviamene su Internet) a parlare dell’azienda, dei suoi prodotti, dei servizi, dei suoi manager.

In conclusione, sintetizziamo l’auspicio di rinnovamento con il più classico degli acronimi: AAA.

  • Abbassare il volume. Occorre ritornare ai fondamentali, quando per “marketing” si intendeva l’orientamento al cliente e non un sinonimo di pubblicità.
  • Ascoltare le persone. Intercettare le esigenze e le opinioni degli individui è più che mai fondamentale, soprattutto oggi che ogni singola persona è potenzialmente influente sulle scelte di moltissimi altri consumatori.
  • Aprire le porte dell’azienda. L’apertura concettuale riguarda sia il modo di interfacciarsi con il mondo esterno, sia l’opportunità di produrre e distribuire contenuti utili ed interessanti.


Articolo pubblicato giovedì 11 ottobre 2007 su Nòva/IlSole24Ore

Il fatto che da qualche anno internet ospiti un fiume di contenuti generati dalle persone, alimenta il dibattito sulla relazione tra user generated content e media tradizionali e, più insistentemente, sulla apparente scarsa qualità di tali contenuti. I più allarmati, o semplicemente i meno attenti, provano a leggere una ventina di blog e ne traggono la conclusione che internet è diventato patria della sottocultura, crocevia della superficialità, destinazione dei mancati professionisti della scrittura. Ma le cose stanno diversamente e qui evidenziamo tre fattori per meglio interpretare la situazione.

Spazio ai non-professionisti. È comprensibile il disagio di fronte a blog, social network o forum: da sempre i contenuti sono stati prodotti essenzialmente da professionisti, con l’obiettivo di essere venduti oppure di ospitare pubblicità. Oggi la situazione è cambiata. Nelle discussioni sui business model dei contenuti digitali, è forte l’imbarazzo nel constatare la crescente competizione con i lavori prodotti da singoli individui, i quali sembrano non avere un evidente modello economico sottostante. Il fatto è che i rapporti sociali tra persone e le conseguenti forme di comunicazione, trovano sempre più spazio sulla Rete e qui attraggono l’attenzione di altri soggetti e di conseguenza catturano il loro tempo. Pur non avendo ragioni di business sottostanti, l’impatto per i professionisti della comunicazione è evidente.

La qualità è soggettiva. Per favore, non dite che le foto dei miei figli che ho messo su un social network sono di scarsa qualità: per me sono la cosa più bella del mondo! Insomma, prima di discriminare sul valore di un elemento di comunicazione, occorrerebbe riflettere sul significato che rappresenta per l’autore e per i destinatari, seppur limitati. Inoltre, si è sempre socializzato senza badare in modo rigoroso alla qualità dei contenuti prodotti. Anzi, l’informalità e la tolleranza sulla forma, comprese sgrammaticature di ogni genere, sono elementi che distinguono in senso positivo determinate forme di comunicazione. Ecco, la Rete oggi dimostra che c’è voglia di leggere e ascoltare le persone, con la consapevolezza che le peculiarità espressive dei singoli non sono quelle dei media e che proprio per questo vengono apprezzate.

User filtered content. È noto che la quantità è sempre stata inversamente proporzionale alla qualità. L’enorme mole di contenuti digitali continuamente riversati su internet è oggettivamente difficile da decifrare, tanto che l’occhio distratto ne vede solo i tratti più deleteri e la difficoltà nel reperire degli elementi interessanti. È altresì inconfutabile che solo in un contesto dove non ci sono vincoli di ingresso, è maggiore la probabilità che emergano contenuti di spessore. Il punto quindi non è il marasma di contenuti, ma la capacità di saper utilizzare i filtri (e ce ne sono moltissimi) capaci di evidenziare le espressioni di valore. L’impegno nel conoscere ed applicare tali filtri, è il prezzo da pagare per poter estendere possibilità di accesso ad un bacino di milioni di produttori di contenuti, tra i quali peraltro, possiamo individuare la nostra nicchia specifica di interesse, notoriamente non soddisfatta da nessun media professionale.

Internet sta mantenendo la promessa di dare uno spazio espressivo a chiunque, in un processo che sta costruendo le sue regole ed i suoi confini man mano che l’umanità collegata alla Rete ne coglie le opportunità e ne individua il senso. Di sicuro, la logica di qualificazione applicata finora, basata su valori assoluti di audience e diritto di pubblicazione riservato a professionalità specifiche, ha fatto il suo tempo.

Mauro Lupi

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Articolo pubblicato giovedì 11 ottobre 2007 su Nòva/IlSole24Ore

Il fatto che da qualche anno internet ospiti un fiume di contenuti generati dalle persone, alimenta il dibattito sulla relazione tra user generated content e media tradizionali e, più insistentemente, sulla apparente scarsa qualità di tali contenuti. I più allarmati, o semplicemente i meno attenti, provano a leggere una ventina di blog e ne traggono la conclusione che internet è diventato patria della sottocultura, crocevia della superficialità, destinazione dei mancati professionisti della scrittura. Ma le cose stanno diversamente e qui evidenziamo tre fattori per meglio interpretare la situazione.

Spazio ai non-professionisti. È comprensibile il disagio di fronte a blog, social network o forum: da sempre i contenuti sono stati prodotti essenzialmente da professionisti, con l’obiettivo di essere venduti oppure di ospitare pubblicità. Oggi la situazione è cambiata. Nelle discussioni sui business model dei contenuti digitali, è forte l’imbarazzo nel constatare la crescente competizione con i lavori prodotti da singoli individui, i quali sembrano non avere un evidente modello economico sottostante. Il fatto è che i rapporti sociali tra persone e le conseguenti forme di comunicazione, trovano sempre più spazio sulla Rete e qui attraggono l’attenzione di altri soggetti e di conseguenza catturano il loro tempo. Pur non avendo ragioni di business sottostanti, l’impatto per i professionisti della comunicazione è evidente.

La qualità è soggettiva. Per favore, non dite che le foto dei miei figli che ho messo su un social network sono di scarsa qualità: per me sono la cosa più bella del mondo! Insomma, prima di discriminare sul valore di un elemento di comunicazione, occorrerebbe riflettere sul significato che rappresenta per l’autore e per i destinatari, seppur limitati. Inoltre, si è sempre socializzato senza badare in modo rigoroso alla qualità dei contenuti prodotti. Anzi, l’informalità e la tolleranza sulla forma, comprese sgrammaticature di ogni genere, sono elementi che distinguono in senso positivo determinate forme di comunicazione. Ecco, la Rete oggi dimostra che c’è voglia di leggere e ascoltare le persone, con la consapevolezza che le peculiarità espressive dei singoli non sono quelle dei media e che proprio per questo vengono apprezzate.

User filtered content. È noto che la quantità è sempre stata inversamente proporzionale alla qualità. L’enorme mole di contenuti digitali continuamente riversati su internet è oggettivamente difficile da decifrare, tanto che l’occhio distratto ne vede solo i tratti più deleteri e la difficoltà nel reperire degli elementi interessanti. È altresì inconfutabile che solo in un contesto dove non ci sono vincoli di ingresso, è maggiore la probabilità che emergano contenuti di spessore. Il punto quindi non è il marasma di contenuti, ma la capacità di saper utilizzare i filtri (e ce ne sono moltissimi) capaci di evidenziare le espressioni di valore. L’impegno nel conoscere ed applicare tali filtri, è il prezzo da pagare per poter estendere possibilità di accesso ad un bacino di milioni di produttori di contenuti, tra i quali peraltro, possiamo individuare la nostra nicchia specifica di interesse, notoriamente non soddisfatta da nessun media professionale.

Internet sta mantenendo la promessa di dare uno spazio espressivo a chiunque, in un processo che sta costruendo le sue regole ed i suoi confini man mano che l’umanità collegata alla Rete ne coglie le opportunità e ne individua il senso. Di sicuro, la logica di qualificazione applicata finora, basata su valori assoluti di audience e diritto di pubblicazione riservato a professionalità specifiche, ha fatto il suo tempo.

Mauro Lupi

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Così le aziende devono rivoluzionare il loromodo di proporsi di fronte alle critiche nei blog e nella rete.

Cambiare i codici, Nòva, Mauro LupiLe aziende iniziano a percepire l’influenza dei contenuti generati dagli utenti, soprattutto quando si tratta di contenuti ostili. Se ne accorgono in modo drastico e improvviso scoprendo, ad esempio, che decine e poi centinaia di persone rim balzano opinioni critiche da sito in sito, a volte decisamente negative e offensive. Succede pure che tali contenuti si vadano a piazzare ai primi posti dei motori di ricerca, intercettando tutti gli interessati al brand o ai prodotti dell’azienda, affiancando i siti corporate vestiti a festa con la voce di tanti “signor nessuno” che non hanno certo peli sulla lingua.

Indubbiamente gli interrogativi da porsi riguardano la capacità della Rete di regolare questa anarchia nello sviluppo di contenuti, specie quando si riferiscono ad opinioni su soggetti terzi o quando sono palesemente artificiose e pilotate. In questa sede vogliamo però fare un passo avanti. Dando per assodata la situazione attuale che vede le aziende costrette a confrontarsi con nuovi attori sulla scena della produzione di contenuti che stanno continuamente parlando di loro, vediamo come stanno reagendo e come dovrebbero comportarsi.

Una delle tipiche reazioni è ignorare il fenomeno, probabilmente la più dannosa. Poi c’è chi affronta il problema secondo i tradizionali canoni di relazione con i media tradizionali: si va dall’inoltro di comunicati stampa ai blogger, alla lettera formale o in legalese nel caso di risposte particolarmente arrabbiate. Sintomatico è il classico tentativo di fare un’escalation, ossia di cercare di arrivare “al capo”, scoprendo che i blogger non hanno un padrone. Non c’è qualcuno in Google che può eliminare o spostare contenuti fastidiosi; si può anche tentare di chiamare i dirigenti da Mountain View (e vi assicuro che qualcuno l’ha fatto), con il solo risultato di scoprire che il mondo nel quale si chiamava il direttore del giornale per censurare un giornalista scomodo, semplicemente non esiste più.

Quando poi si decide di intervenire nelle discussioni, ci si rende conto di quanto la maggior parte della comunicazione aziendale attuale sia realizzata davanti ad uno specchio. Si raccontano dei benefici dei prodotti e dei valori emotivi legati ai brand; e lo si fa con la pubblicità e con i comunicati stampa. Quando bisogna affrontare i problemi e le esigenze di cui discutono le persone sui blog e nei forum, entrano in crisi, scoprendo come gli sia difficile essere credibili e risultare interessanti.

Di sicuro non è facile avviare la conversazione col mondo esterno ed è giusto che ogni organizzazione lo faccia in modo ragionato e graduale. Due gli spunti che ci sentiamo di dare.

Il primo: agli “user generated content” si risponde con i “company generated content”; solo in casi specifici è indispensabile intervenire direttamente in blog e forum. Meglio invece sviluppare un canale trasparente e continuativo in cui esporre il punto di vista aziendale, a patto che sia davvero orientato a conversare e non solo a fare l’ennesimo spot commerciale. Il secondo invito riguarda la forma dei contenuti, che deve essere allineata all’etichetta che le persone applicano su internet e quindi informale e trasparente. Difficile? Probabilmente per molti si. Eppure sono convinto che esistano ovunque manager e collaboratori in grado di raccontare la propria azienda con passione, competenza e credibilità: occorre dar loro voce!

Articolo di Mauro Lupi del 2 agosto 2007 su Nòva (Copyright IlSole24Ore)

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Articolo di Mauro Lupi per il pamphlet IAB Italia “La pubblicità interattiva in Italia“, edizione 2007

Trattandosi del servizio più utilizzato sul web, i motori di ricerca continuano ad essere al centro dell’attenzione del mondo della comunicazione online. Ed i numeri esplicitano ancora meglio il trend che risulta essere in ulteriore crescita. Negli ultimi tre anni il numero degli utilizzatori dei motori di ricerca è cresciuto del 34%, mentre la quantità di sessioni di ricerca mensili a testa è aumentata del 64%. In termini di valore assoluti parliamo di 16,4 milioni di persone in Italia che rappresentano il 79% degli utenti internet attivi[1].

Dal punto di vista delle strategie di comunicazione delle aziende, il search marketing offre numerose opportunità, non solo dal punto di vista prettamente pubblicitario mediante il keyword advertising, ma assumendo altresì forte rilevanza per iniziative più legate al brand. In effetti, se da un lato il 43% degli investitori pubblicitari ha come principale obiettivo delle loro attività di search marketing la generazione immediata di vendite online, per oltre un terzo la motivazione che spinge all’investimento è invece la generazione di brand awareness[2]. Difatti, numerose ricerche testimoniano quanto il comparire in modo preminente nei risultati di motori di ricerca, venga associato a valori decisamente positivi. Il 57% degli utenti internet in Italia, ritiene che se un’azienda compare ai primi posti significa che è leader del settore; al contrario, per il 62% dei navigatori online, se un’azienda non figura in testa ai risultati, probabilmente non offre quello che si sta cercando[3].

In merito al valore del search marketing come strumento di business più diretto, cresce in modo significativo l’impatto dei motori di ricerca nell’influenza sulle decisioni di acquisto. L’88% delle persone che usano internet in Italia, dichiara di utilizzare sempre o spesso i motori di ricerca per trovare informazioni su prodotti o servizi che sta valutando da acquistare (era l’83% nel 2006). La stessa ricerca rileva che il perfezionamento di tali acquisti avviene esclusivamente online solo nel 34% dei casi, mentre il resto è concluso sia online che nei punti di vendita offline[4].

Eppure, gli investimenti riservati in Italia al search marketing, seppur in costante aumento, rimangono sostanzialmente contenuti. Difatti solo il 31% degli inserzionisti riserva al search un budget superiore a 50.000 Euro l’anno; il 40% addirittura destina meno di 5.000 Euro. Tuttavia, il 62% dei marketers ritiene che incrementerà il budget nei prossimi 12 mesi (il 23% pensa di aumentarlo di oltre il 25%)[5].

Nel contempo, il mondo dei motori di ricerca si sta sensibilmente modificando, soprattutto per la moltiplicazione dei canali di ricerca e delle funzioni di personalizzazione. Alcune aree stanno avendo una crescita esponenziale nelle preferenze degli utenti, in particolare per quanto riguarda le news, le immagini ed i video. Su Virgilio, ad esempio, le ricerche inerenti al settore “video”, hanno un peso sul totale che è cresciuto del 460% nell’ultimo anno; le richieste di immagini sono aumentate addirittura di cinque volte dal 2004[6]. E naturalmente i marketers contano di seguire questi trend, dichiarando che svolgeranno sempre di più delle campagne di Local Search (43%), Mobile Search (18%), Video Search (14%)[7].

La sfida rimane quella di affrontare la polverizzazione dei canali di ricerca da una parte, seppure concentrata attualmente in larga misura attorno all’offerta di Google, con l’impatto che stanno avendo i singoli individui, non solo come produttori di contenuti in grado di influenzare le decisioni di altre persone, ma anche come risolutori diretti di istanze di ricerca attraverso servizi come Yahoo! Answer il quale, in meno di un anno, ha già conquistato in Italia oltre due milioni di persone.


[1] Nielsen/NetRatings, NetView casa+ufficio, Marzo 2007
[2] JupiterResearch/SEMPO survey, advertiser, France, Italy and Spain, 01/2007
[3] Sems/Nextplora, Maggio 2007
[4] Sems/Nextplora, Maggio 2007
[5] JupiterResearch/SEMPO survey, advertiser, France, Italy and Spain, 01/2007
[6] Virgilio/Telecom Italia, analisi interna, Maggio 2007
[7] JupiterResearch/SEMPO survey, advertiser, France, Italy and Spain, 01/2007


Nei prossimi giorni desidererei tanto sdoppiarmi. Qualcuno per caso sa come si fa?

Tra le cose che vorrei fare, ci sarebbe la visita ad una splendida mostra/galleria organizzata da Il Piccolo, un’azienda milanese che fa architettura d’interni con cui stiamo collaborando per lo sviluppo del loro blog. Purtroppo non potrò essere a Milano dal 6 al 10 Giugno, i giorni in cui si tiene questa mostra, e me ne dispiace non solo perché adoro i tappeti antichi, ma perché in questo caso si tratta di elaborazioni e sperimentazioni fatte su tappeti pregiati kilim, patchwork, decolorazioni e altre tecniche sperimentali che producono risultati unici, dei veri e propri quadri.

Ho visto le foto di alcuni tappeti che saranno esposti, e sono stato pure contagiato dalla passione e dalla competenza di Andrea Galimberti che è anche colui che gestisce il blog. A proposito, anche l’evento ha un blog che raccoglierà alcune testimonianze dei partecipanti e che porta il titolo della mostra: Carpet Reloaded. Qui trovate anche tutte le info: luogo, orari, ecc.

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Non faccio mai caso alle monete che mi danno di resto (anzi, meno sono e meglio è) ma oggi mi è caduto l’occhio su un "quarter" sospetto che in effetti erano invece 10 pence. Ho chiesto lumi, ed la tipa con un bel sorriso mi ha detto: "It’s perfect for MUNI!" (MUNI è il servizio bus di San Francisco).

Aveva ragione… ;-)


Praticamente questo post l’ho scritto via istant messenger utilizzando imified (http://www.imified.com)

Può essere utile per dei post “al volo”. L’interfaccia ricorda il caro vecchio telnet o i server FTP quando si interrogavano con le linee di comando…