Archivio: “Riflessioni”

Le scorse due settimane sono state un concentrato di convegni, master formativi e meeting vari. Dal Summit UPA, a lezioni che ho tenuto per IULM e IlSole24Ore, dai convegni sulla Web Analitycs e sui Social network ad un incontro riservato alle aziende UPA insieme a IAB.

In particolare in occasione del WAS, è tornato fuori l’opinione riguardo al formato che dovrebbero avere determinati eventi per favorire la diffusione della conoscenza della Rete e delle sue opportunità per il business. Ho sentito e letto diversi pareri (tra gli altri Alessio, Marco, Tommaso) secondo cui sarebbero da preferirsi gli eventi gratuiti come IAB Forum perché altrimenti le aziende non sono motivate a partecipare. Non sono d’accordo e cerco di sintetizzare il perché.

Premesso che ho sempre cercato di fare education in tutti i modi che ritenevo coerenti e produttivi, c’è un limite che talvolta si supera che è quello di regalare del tutto competenze e professionalità. Ecco, l’evento gratuito rischia di accentuare ulteriormente una situazione tutta italiana in cui il valore professionale è sottovalutato (o non pagato affatto). IAB Forum ha senso ma riesce a fornire un equilibrio anche per via delle decine di sponsor che finanziano il tutto attraverso un grande Expo.

Trovo invece che ci sia qualcosa che non va se i professionisti del settore per promuovere i propri servizi, debbano investire sponsorizzando eventi gratuiti e per di più che proporre gratuitamente dei contenuti formativi di qualità. Il risultato è quello di dover ricaricare tali investimenti sui clienti, col rischio di apparire fuori mercati o di favorire altre organizzazioni.

Ma il vero problema, che poi penso sia uno di quelli che è alla base del ritardo italiano rispetto ad internet, è quello di abbassare e di molto la percezione del valore dei professionisti della Rete. Il valore attribuito ad una cosa regalata è sempre basso, così come non paga mai nel lungo termine ogni logica di mercato che fa leva sul prezzo dei servizi.

Che ne pensate? Non trovate che l’investimento in eventi di qualità sia da preferire a momenti che invece, se gratuiti, rischiano di “sapere di poco” o, peggio, finire per essere una passarella di autopromozioni?


Via Giuseppe in casa IMLI, scopro la trascrizione di un bellissimo speech di Clay Shirky, autore del libro Here Comes Everybody: The Power of Organizing Without Organizations.

Si parla del Social Surplus, per capire da dove proviene il tempo che le persone dedicano ad attività online e che per molti continuano a rimanere “tempo perso”. Credo sia capitato a tutti di sentire additare come perditempo gli utenti delle community online così come i contributori di Wikipedia o gli sviluppatori di open source. Ecco, l’articolo tira fuori alcuni numeri interessanti:

  • Per costruire l’intero progetto Wikipedia (considerando il tempo necessario a sviluppare l’infrastruttura ma anche a tutti i contenuti), sono state necessarie complessivamente circa 100 milioni di ore.
  • Di converso, solo negli Stati Uniti si passano 200 miliardi di ore l’anno a guardare la televisione (equivalenti a 2.000 progetti Wikipedia) e da numeri di questa magnitudo va identificato il surplus dal quale attingono le persone.

Rivelatrice la storia finale che racconta di una bimba di quattro anni che, mentre guardava un DVD, a metà del film si è messa a trafficare tra i fili dietro la TV: cercava… il mouse. In pratica gli sembrava innaturale rimanere passiva e cercava uno strumento per interagire.

Certo, non significa che la nostra dieta mediatica debba essere sempre votata all’interattività, ma in base alla logica del continuo passaggio di testimone nel dedicare tempo alla produzione e condivisione di contenuti (scrissi un post su questo), la Rete continuerà ad assorbire momenti del nostro tempo che fino al giorno prima erano dedicate ad attività passive. Con buona pace dell’interlocutore di Giuseppe che a proposito dei navigatori online ritiene chi sia solamente “gente che ha un sacco di tempo libero”.


Giustamente Luisa sottolinea come molti giovani ritengano semplicisticamente che attraverso la Rete possano fare qualsiasi cosa più facilmente. Naturalmente sono il primo a pensare che internet faciliti la vita di chiunque sappia usarla, ma credo altresì che sempre di mezzo si tratti, e quindi non basta da solo per raggiungere il fine, qualsiasi esso sia.

C’è ad esempio da considerare che l’abbondanza delle informazioni richiede di sviluppare una capacità di filtro. Tale capacità cozza con la diffusa superficialità che mi pare accompagni i nostri tempi (e che non riguarda solo i più giovani).

Si perde spesso la considerazione dell'importanza della riflessione, intesa come momento dedicato a guardare idealmente da una posizione più alta faccende private e non, e quindi a considerare e valutare il contesto di fatti e contenuti. Dimentichiamo di riservare del tempo a riflettere perché siamo dentro un vortice ove i minuti che scandiscono la nostra vita sono utilizzati disordinatamente.

Ricordo l'intelligente domanda di Lele a Joi Ito quando venne a Milano per il Meet the guru a proposito del “dove trovare il tempo”. Condivido la risposta di Ito che raccontò la sua gestione bifronte, fatta da momenti di convulso multitasking e di processi mentali paralleli, alternati a periodi di massima concentrazione su un soggetto unico.

Prima o poi mi decido a mettere su un percorso formativo per “gestire il tempo nell’era di internet”. Non c’entra nulla (o quasi) con quello che fa la mia azienda, ma è un tema che, applicato al mondo del lavoro, studio da una ventina d’anni. Beh, non sarebbe male avere un “Personal Time-saver”, no?


Giustamente Luisa sottolinea come molti giovani ritengano semplicisticamente che attraverso la Rete possano fare qualsiasi cosa più facilmente. Naturalmente sono il primo a pensare che internet faciliti la vita di chiunque sappia usarla, ma credo altresì che sempre di mezzo si tratti, e quindi non basta da solo per raggiungere il fine, qualsiasi esso sia.

C’è ad esempio da considerare che l’abbondanza delle informazioni richiede di sviluppare una capacità di filtro. Tale capacità cozza con la diffusa superficialità che mi pare accompagni i nostri tempi (e che non riguarda solo i più giovani).

Si perde spesso la considerazione dell'importanza della riflessione, intesa come momento dedicato a guardare idealmente da una posizione più alta faccende private e non, e quindi a considerare e valutare il contesto di fatti e contenuti. Dimentichiamo di riservare del tempo a riflettere perché siamo dentro un vortice ove i minuti che scandiscono la nostra vita sono utilizzati disordinatamente.

Ricordo l'intelligente domanda di Lele a Joi Ito quando venne a Milano per il Meet the guru a proposito del “dove trovare il tempo”. Condivido la risposta di Ito che raccontò la sua gestione bifronte, fatta da momenti di convulso multitasking e di processi mentali paralleli, alternati a periodi di massima concentrazione su un soggetto unico.

Prima o poi mi decido a mettere su un percorso formativo per “gestire il tempo nell’era di internet”. Non c’entra nulla (o quasi) con quello che fa la mia azienda, ma è un tema che, applicato al mondo del lavoro, studio da una ventina d’anni. Beh, non sarebbe male avere un “Personal Time-saver”, no?


Beh, a me questo pensiero di Luca Director De Biase è piaciuto moltissimo. Qui solo un assaggio:

Poi parole diventate un messaggino su Twitter. Assorbite da FriendFeed. Approvate o più spesso ovviamente ignorate. E ripetute qui. Forse in vista di andare altrove. In nuove conversazioni, in nuovi messaggi, in nuovi media. Bit a specchio. Intelligenza collettiva.


Basta, non riesco più a sentir ripetere di “cose lette su Facebook”, oppure di “quello che ho visto sui blog”, come se si trattasse di ambienti unici, uniformi, standardizzati. È forse questo il principale equivoco che genera la disinformazione a proposito di internet e dei social network.

Non c’è “un Facebook”, così come non ci sono “i blog”. Ci sono tanti singoli individui che, grazie a Dio, sono diversi e che scrivono, fotografano, filmano, cose diversissime. Con obiettivi, stili e risultati altrettanto differenti. Che poi stringono le loro relazioni digitali secondo molteplici strumenti e consuetudini.

In questo momento sono circa sei milioni gli italiani iscritti a Facebook, con il quale gestiscono la loro piccola casa virtuale, invitano gli amici che vogliono, scrivono e fotografano ciò che gli pare.

Riferirsi a Facebook stigmatizzandone i suoi contenuti è come affermare di poter capire un’intera città passeggiando in una decina di strade. O come disquisire dei contenuti della stampa periodica in generale sfogliando qualche rivista in un’edicola, magari fermandosi nel settore dei fumetti.

Il punto è sempre lo stesso. Si continua a identificare internet alla stregua dei media tradizionali, i quali sono sempre prodotti da un numero finito e ben indentificato (anche professionalmente) di persone. La Rete è invece uno spazio in cui gli ambienti digitali come Facebook sono solo strumenti e non media: loro ospitano e aggregano tanti singoli individui, per cui non possono che rappresentare migliaia di facce ed espressioni differenti e non un’identità unitaria come semplicisticamente in molti tendono a pensare e, quindi, a giudicare.


Ho sempre cercato di vivere i cambiamenti pensando a cosa si guadagna rispetto a cosa si perde, per cui ho letto con piacere il bel post di Giampaolo Fabris che ricorda come in lingua cinese il termine crisi (weiji) è composto da due due ideogrammi: pericolo ed opportunità.

E di opportunità, Fabris ne elenca alcune, tutte di largo respiro, tra le quali segnalo:

  • prendere le distanze dall’idolatria del PIL
  • ricostruire un rapporto sano tra economia finanziaria e produttiva
  • presa di distanza del gigantismo come paradigma da seguire
  • sottolineare che crescita deve essere sinonimo di benessere non di crescita economica fine a se stessa
  • cogliere la drammaticità dei problemi ambientali

Mi viene spontaneo affiancare il punto di vista di Fabris con quello di Robin Good (peraltro appena citato da Business Week come “voce dell’innovazione”) che invece tocca più la sfera personale. Ebbene Robin per Natale si è concesso il post Come Diventare Felici Senza Diventare Santi: 10 Cose Che Puoi Cambiare Per Riprendere il Controllo Della Tua Vita. Queste le “10 cose”:

  1. Smetti di Essere Dipendente Dai Vecchi Media
  2. Rendi il Tuo Spazio di Lavoro un Luogo Confortevole
  3. Abbandona i Falsi Amici
  4. Regala Qualcosa di Bello ai Bambini. Ogni Giorno.
  5. Ascolta
  6. Diventa un Talent Scout
  7. Non Incolpare te Stesso
  8. Non ti Arrendere
  9. Divertiti in Maniera Seria e Professionale
  10. Non ti Omologare

Tanti auguri per un 2009 e buon cambiamento a tutti!


Ho sempre cercato di vivere i cambiamenti pensando a cosa si guadagna rispetto a cosa si perde, per cui ho letto con piacere il bel post di Giampaolo Fabris che ricorda come in lingua cinese il termine crisi (weiji) è composto da due due ideogrammi: pericolo ed opportunità.

E di opportunità, Fabris ne elenca alcune, tutte di largo respiro, tra le quali segnalo:

  • prendere le distanze dall’idolatria del PIL
  • ricostruire un rapporto sano tra economia finanziaria e produttiva
  • presa di distanza del gigantismo come paradigma da seguire
  • sottolineare che crescita deve essere sinonimo di benessere non di crescita economica fine a se stessa
  • cogliere la drammaticità dei problemi ambientali

Mi viene spontaneo affiancare il punto di vista di Fabris con quello di Robin Good (peraltro appena citato da Business Week come “voce dell’innovazione”) che invece tocca più la sfera personale. Ebbene Robin per Natale si è concesso il post Come Diventare Felici Senza Diventare Santi: 10 Cose Che Puoi Cambiare Per Riprendere il Controllo Della Tua Vita. Queste le “10 cose”:

  1. Smetti di Essere Dipendente Dai Vecchi Media
  2. Rendi il Tuo Spazio di Lavoro un Luogo Confortevole
  3. Abbandona i Falsi Amici
  4. Regala Qualcosa di Bello ai Bambini. Ogni Giorno.
  5. Ascolta
  6. Diventa un Talent Scout
  7. Non Incolpare te Stesso
  8. Non ti Arrendere
  9. Divertiti in Maniera Seria e Professionale
  10. Non ti Omologare

Tanti auguri per un 2009 e buon cambiamento a tutti!


Sarà che ho appena finito di cercare di dissuadere l’ennesimo cliente che ci ha chiesto di fare seeding (lo spiego dopo) e di pianificare una serie di interventi nei “blog dove c’è il nostro target”, che mi prendo due minuti per scrivere.

Banalizzando il concetto: se ci riferiamo ai social network, allora anche comunicazione deve essere sociale. Quindi accantoniamo i target, la pubblicità, la campagna. Occorre partire dall’ascolto, e poi capire cosa possiamo dare/dire ai nostri interlocutori di veramente utile e/o interessante e/o divertente. Accendendo nel frattempo un canale di ritorno votato davvero al dialogo. Tutto qui.

Sembra facile, ma è semplicemente un modo totalmente nuovo di fare comunicazione d’impresa. Ecco perché le [mini]tesi di Gianluca sono piacevoli da leggere, ma (ancora) impraticabili di fatto nella maggiore parte delle aziende. D’altronde iniziamo a vedere sprazzi di realismo del popolare Cluetrain Manifesto dopo dieci anni dalla sua pubblicazione (Davide fa una bella comparazione tra Cluetrain e le [mini]tesi usando wordle)

È evidente che per molte realtà, la strada da perseguire è quella della conversazione, ma passando necessariamente per step intermedi. Altrimenti il rischio è quello di mantenere lo status quo sbilanciandosi però in iniziative estemporanee (che tentano anche le agenzie più quotate come segnala Andrea), che non funzioneranno mai (da Alessio: perché falliscono i blog aziendali), oppure che rischiano di fare danni irrecuperabili.

In quest’ultima categoria ci metto la cosiddetta infiltration (chiamata anche seeding che sembra più nobile), ossia l’inserimento arbitrario (leggi “falso”) di interventi positivi su blog e forum. La mia indicazione è netta: l’unica certezza di queste attività è di mettere a rischio la reputazione e quindi il business dell’azienda, oltre che il proprio posto di lavoro: ne vale la pena?

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Arrivare dopo gli altri, talvolta, riserva svariate opportunità.

È questo il concetto che ho fatto mio sin da quando iniziai ad occuparmi di informatica e successivamente di internet. Il ritardo di cui parlo, è quello nel nostro Paese rispetto sia agli Stati Uniti ma anche a molte altre nazioni europee. Ritardo che penso non colmeremo mai: e allora non ci resta che coglierne le opportunità!

Interessante è leggere il nuovo report di Forrester, “Time To Rethink Your Corporate Blogging Ideas” che riporta una recente indagine negli Stati Uniti secondo cui molti blog aziendali non risultano particolarmente credibili, soprattutto per il loro approccio tipicamente autoreferenziale e promozionale. L’analista di Forrester, Josh Bernoff, elenca alcuni suggerimenti tra i quali ne ho selezionati tre:

  • Blog to your hordes of fans
  • Blog about issues at the core of a community
  • For B2B companies, get your employees in on the act

Insomma, negli Stati Uniti già sono all’analisi di quello che non va nei corporate blog e di quello che invece funziona. Qui in Italia di blog aziendali se ne contano ancora pochissimi. L’opportunità che vedo riguarda chi parte adesso con un progetto di business blog, perché sicuramente ha una base ancora più completa di informazioni ed esperienze.

Sempre che ci si decida a partire. Altrimenti il ritardo diventerà davvero incolmabile.

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Arrivare dopo gli altri, talvolta, riserva svariate opportunità.

È questo il concetto che ho fatto mio sin da quando iniziai ad occuparmi di informatica e successivamente di internet. Il ritardo di cui parlo, è quello nel nostro Paese rispetto sia agli Stati Uniti ma anche a molte altre nazioni europee. Ritardo che penso non colmeremo mai: e allora non ci resta che coglierne le opportunità!

Interessante è leggere il nuovo report di Forrester, “Time To Rethink Your Corporate Blogging Ideas” che riporta una recente indagine negli Stati Uniti secondo cui molti blog aziendali non risultano particolarmente credibili, soprattutto per il loro approccio tipicamente autoreferenziale e promozionale. L’analista di Forrester, Josh Bernoff, elenca alcuni suggerimenti tra i quali ne ho selezionati tre:

  • Blog to your hordes of fans
  • Blog about issues at the core of a community
  • For B2B companies, get your employees in on the act

Insomma, negli Stati Uniti già sono all’analisi di quello che non va nei corporate blog e di quello che invece funziona. Qui in Italia di blog aziendali se ne contano ancora pochissimi. L’opportunità che vedo riguarda chi parte adesso con un progetto di business blog, perché sicuramente ha una base ancora più completa di informazioni ed esperienze.

Sempre che ci si decida a partire. Altrimenti il ritardo diventerà davvero incolmabile.

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Durante lo scorso IAB Forum ricordavo con Paolo Barberis un prodotto che avevamo confezionato nel 2000 o giù di lì. Si chiamava Superclick e probabilmente fu il primo servizio di advertising online basato sulle performance proposto in Italia. In pratica si poteva acquistare un certo numero di visite al sito e noi sviluppavamo i click da un mix di strumenti: motori di ricerca (non esisteva ancora Google ma c’era Overture), banner sui siti Dada, email attraverso una serie di partner.

Superclick fu un mezzo flop: probabilmente era troppo in anticipo sui tempi. In compenso (si fa per dire) suscitammo un po’ di irritazione da parte degli editori online, specie quelli tradizionali, che videro nel “pay per performance” un affronto alla valorizzazione dei loro spazi pubblicitari. Poi sappiamo come è andata.

Questa storia solo per introdurre l’argomento delle complessità della Rete. Con Superclick tentavamo di rendere comprensibile e semplice una pianificazione online che avesse un obiettivo di visite al sito. Così come già dal 1997 inventai “Motore Garantito” un servizio di posizionamento sui motori di ricerca che forniva dei risultati certi (in quel caso, invece, fu un grande successo).

Ebbene, col passare del tempo e con l’evoluzione della Rete, ho modificato in parte il mio punto di vista su complessità e semplificazione. Ho provato a spiegarlo con un articolo pubblicato lo scorso giovedì su Nòva che si può riassumere con un paragrafo:

“io penso che la ricerca di semplificazione e omologazione non solo non sia possibile, ma rischia di appiattire le principali potenzialità della Rete, la quale proprio nelle pieghe della sua oggettiva complessità, nasconde le opportunità migliori”

Trovo infatti che le richieste di facilitare, di creare standard e metriche che siano assimilabili con quelli precedenti, ecc. siano una tentazione per appiattire i progetti online solo perché diventino comparabili con i media tradizionali.

In aggiunta all’articolo per Nòva, ci sono altre riflessioni che vorrei condividere:

  • Se è vero che internet è complessa, è giusto auspicare che ci siano professionisti capaci di facilitarne l’utilizzo da parte delle aziende. L’importante è che si accetti di pagare il costo che questa semplificazione richiede, sapendo peraltro che è l’unico modo per cogliere tutte le opportunità disponibili.
  • A volte si confonde la semplificazione con la riduzione dell’inefficienza. Mi è tornato in mente lo speech che feci ad aprile da Microsoft in occasione dell’evento The Next Web Now!. In quell’occasione presentai uno scenario di un ricercatore americano di Microsoft, il quale immagina il mercato dell’advertising online futuro come una sorta di stock exchange, in cui la tecnologia semplifica l’operatività ma accresce la necessità di analisti. Una visione intrigante e per chi volesse approfondire c’è ora il webcast con slide e audio del mio intervento (oltre 40 minuti).

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Durante lo scorso IAB Forum ricordavo con Paolo Barberis un prodotto che avevamo confezionato nel 2000 o giù di lì. Si chiamava Superclick e probabilmente fu il primo servizio di advertising online basato sulle performance proposto in Italia. In pratica si poteva acquistare un certo numero di visite al sito e noi sviluppavamo i click da un mix di strumenti: motori di ricerca (non esisteva ancora Google ma c’era Overture), banner sui siti Dada, email attraverso una serie di partner.

Superclick fu un mezzo flop: probabilmente era troppo in anticipo sui tempi. In compenso (si fa per dire) suscitammo un po’ di irritazione da parte degli editori online, specie quelli tradizionali, che videro nel “pay per performance” un affronto alla valorizzazione dei loro spazi pubblicitari. Poi sappiamo come è andata.

Questa storia solo per introdurre l’argomento delle complessità della Rete. Con Superclick tentavamo di rendere comprensibile e semplice una pianificazione online che avesse un obiettivo di visite al sito. Così come già dal 1997 inventai “Motore Garantito” un servizio di posizionamento sui motori di ricerca che forniva dei risultati certi (in quel caso, invece, fu un grande successo).

Ebbene, col passare del tempo e con l’evoluzione della Rete, ho modificato in parte il mio punto di vista su complessità e semplificazione. Ho provato a spiegarlo con un articolo pubblicato lo scorso giovedì su Nòva che si può riassumere con un paragrafo:

“io penso che la ricerca di semplificazione e omologazione non solo non sia possibile, ma rischia di appiattire le principali potenzialità della Rete, la quale proprio nelle pieghe della sua oggettiva complessità, nasconde le opportunità migliori”

Trovo infatti che le richieste di facilitare, di creare standard e metriche che siano assimilabili con quelli precedenti, ecc. siano una tentazione per appiattire i progetti online solo perché diventino comparabili con i media tradizionali.

In aggiunta all’articolo per Nòva, ci sono altre riflessioni che vorrei condividere:

  • Se è vero che internet è complessa, è giusto auspicare che ci siano professionisti capaci di facilitarne l’utilizzo da parte delle aziende. L’importante è che si accetti di pagare il costo che questa semplificazione richiede, sapendo peraltro che è l’unico modo per cogliere tutte le opportunità disponibili.
  • A volte si confonde la semplificazione con la riduzione dell’inefficienza. Mi è tornato in mente lo speech che feci ad aprile da Microsoft in occasione dell’evento The Next Web Now!. In quell’occasione presentai uno scenario di un ricercatore americano di Microsoft, il quale immagina il mercato dell’advertising online futuro come una sorta di stock exchange, in cui la tecnologia semplifica l’operatività ma accresce la necessità di analisti. Una visione intrigante e per chi volesse approfondire c’è ora il webcast con slide e audio del mio intervento (oltre 40 minuti).

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I vecchiotti della Rete (come il sottoscritto) sono tutti mediamente affezionati a Yahoo!. Penso abbia rappresentato meglio di chiunque altro lo spirito informale e innovatore che ha animato la prima parte della storia di internet vissuta finora.

Incontrai velocemente Jerry Yang a Milano dieci anni fa. Era il periodo in cui questi neo-miliardari in pieno “periodo dot.com” esaltavano un look sbarazzino in mezzo a tanti incravattati che cercavano di capire che stava succedendo. Marco Ottolini fa un interessante flashback su Yang, arricchito pure da una suggestiva ipotesi su come andarono le cose.

Adesso che il leader di Yahoo! esce di scena, spero che l’’azienda riesca a riprendersi da un momento oggettivamente complicato. Magari finalmente confluire dentro Microsoft, alla quale penso non farebbe male un po’ del colorito viola di Sunnyvale.

Purtroppo molte figure chiave hanno lasciato l’azienda: ancora non posso credere che si siano persi per strada gli ideatori di cose come Flickr, Delicious, ecc. Eppure dentro Yahoo! ci sono ancora tante potenzialità, tanta passione, e ne ho avuto conferma un paio di settimane fa durante una piacevole cena a cui ha partecipato anche uno dei manager europei. Certo, l’entusiasmo non basta a tenere in piedi un business. Ora serve una strategia chiara (Gianluca, fai qualcosa!). E penso possa tornare utile all’intero mercato.

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Ho messo online l’articolo uscito ieri su Nòva e dedicato a come decifrare il web. Il titolo di questo post, riprende uno dei quattro punti che ho indicato:

La quantità di contenuti digitali è un mare in piena: meglio analizzarlo dall’alto perché a concentrarsi troppo sui particolare o con eccessiva minuzia, fa rischiare solamente di essere travolti dall’onda. Inutile è anche cercare di mettere argini e costruire dighe: meglio imparare a fare surf.

L’espressione “sta arrivando un’onda travolgente: anziché nasconderti, impara a fare surf” la sentii un po’ di anni fa ad un convegno (non ricordo proprio quale) e poi la utilizzai in un meeting aziendale per suggerire il modo per gestire il continuo cambiamento che caratterizza la comunicazione online.

Fare surf per me significa riservarsi dei momenti per guardare ciò che succede in modo distaccato e il più possibile “out of the box”. Significa anche prendere atto di tutto quello che avviene (positivo o meno che sia) e regolarsi di conseguenza provando a fare la nostra parte, rassegnandosi peraltro che non esistono più posizioni di rendita. E questo vale sia che ci si riferisca alle quote di mercato oppure al posizionamento nei motori di ricerca.


In veloce carrellata alcune delle parole chiavi che secondo me hanno contraddistinto lo IAB Forum di quest’anno:

  • Complessità. Si è preso atto che la comunicazione digitale si complica e si rinnova la richiesta agli operatori del settore di semplificare i messaggi, le metriche, le soluzioni. Beh, non sono d’accordo. Penso che le opportunità della Rete siamo proprio dovute alla sua articolazione. Su questo tema proverò a spiegarmi meglio in un prossimo post.
  • Creatività. Lo constato anch’io tutti i giorni: la classica richiesta delle aziende è di ricevere proposte innovative, originali, fuori dagli schemi. E sono istanze non sempre soddisfatte dai loro interlocutori tradizionali.
  • Fiducia. È la parola con cui Layla ha chiuso la seconda sessione plenaria. Fiducia tra aziende e operatori del settore, elemento indispensabile per una reale efficienza dei progetti. Che poi viaggia in parallelo con la fiducia che i brand sono tenuto a (ri)conquistare ogni giorno sul mercato nei confronti dei consumatori.
  • Impatto zero. Vale la pena ricordarlo: IAB Forum è stato un evento a impatto zero per l’ambiente. Un momento speciale quello di Roveda di Lifegate che si emoziona durante il suo speech.
  • Da una slide di Vernocchgi di Accenture a IAB Forum 2008 Barriere al successo. Notevole il lavoro di Accenture che insieme a IAB sta cercando di “mappare” l’intero mercato digitale, sicuramente sottostimato se si guarda solo la parte della pubblicità online. Memorabile la chart di Vernocchi, capo di Europa e Sud America di Accenture, sulla contrapposizione tra Barriere all’ingresso e Barriere al successo (evidenziata anche da Andrea), così come quella tra Analog dollars e Digital cents.
  • Crisi. Non ho trovato del tutto coerente l’analisi da Binaghi di OMD (qui le sue chart) partendo dalle due ultime crisi della pubblicità. Il semplice elemento distintivo di oggi, è che mentre in passato tutti mezzi hanno subito decrementi importanti, nel momento attuale la Rete continua con un segno positivo a due cifre.
  • Obama. Inutile negarlo: il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha dimostrato con i fatti cosa può scatenare un uso intelligente di internet. È vero che lo ha fatto investendo molti soldi, ma nel contempo il primo consulente che ha ascoltato è stato il fondatore di Facebook!
  • Branding. Quasi tutte le case history presentate avevano al centro obiettivi i branding, compresa quella di Expedia interessata in genere solo ad attività direct. Nulla di male, specie pensando che nei media tradizionali quella è la parte più corposa dello spending. Forse è mancata una maggiore attenzione all’e-commerce e all’infocommerce che penso meritino maggiore spazio.
  • 20%. È la percentuale di crescita della pubblicità online che IAB stima per il 2009 rispetto al 2008 (che chiude con un +23,3% a 843 milioni di Euro).
  • Formazione. La chiedono le aziende, la auspica Duranti di Nielsen, la propongono molti operatori del settore. A me sembra che si confonde la formazione/informazione su tool, strumenti e tecnologie, con un approccio più strategico che invece è quello che spesso manca. Ad esempio, è inutile spiegare Facebook a chi non ha voglia o capacità di sviluppare davvero la conversazione con le persone.

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Anch’io come Alessio sopporto sempre meno la categorizzazione dei blogger, specie ora che anche un Premio Nobel ha il suo bel “diario online”. Posso capire chi non è avvezzo della Rete, ma suvvia, siamo solo gente che usa uno strumento di comunicazione; il quale, peraltro, diventa sempre più mainstream.

Notavo che anche il Ministro Zaia ha appena aperto un blog (anche se contiene solo due post in due mesi e ha qualche technicality da migliorare), così come il Presidente Formigioni ne ha uno da diversi mesi (strano che la maggior parte dei post sia senza commenti


Anch’io come Alessio sopporto sempre meno la categorizzazione dei blogger, specie ora che anche un Premio Nobel ha il suo bel “diario online”. Posso capire chi non è avvezzo della Rete, ma suvvia, siamo solo gente che usa uno strumento di comunicazione; il quale, peraltro, diventa sempre più mainstream.

Notavo che anche il Ministro Zaia ha appena aperto un blog (anche se contiene solo due post in due mesi e ha qualche technicality da migliorare), così come il Presidente Formigioni ne ha uno da diversi mesi (strano che la maggior parte dei post sia senza commenti


Riprendo la frase conclusiva di Giuseppe Granieri in un suo post a proposito dell’impatto dei media sulla percezione dell’attuale crisi economica:

“I media andrebbero "serviti" con un’educazione alla comprensione dei media, che dovrebbe essere materia di insegnamento nelle scuole”

Se è vero che la fruizione dei media in generale andrebbe insegnata, penso sia sempre più necessario aiutare le persone non solo ad interpretare i contenuti ma a saperli cercare, filtrare, elaborare e condividere. E questo vale soprattutto a proposito dei contenuti digitali.

Ribadisco un concetto a proposito dell’ormai classico disagio delle persone verso la quantità eccessiva di informazioni che ci si trova da gestire: io spero che le informazioni disponibili aumentino ancora! Il vero obiettivo è quello di riuscire a filtrare e organizzare queste informazioni e qui penso che abbiamo tutti ancora tanto da capire e imparare

Di fatto ci viene richiesta una maggiore proattività nei confronti dei media, ma anche delle competenze tecnologiche (i giusti tool, ad esempio, per filtrare le informazioni) e operative (saper gestire il proprio tempo, organizzare i documenti, ecc.). Hey, chi se la sente di impostare un percorso accademico all’uopo?

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A tutte le persone che in azienda si occupano di capire come sta cambiando il rapporto tra aziende e individui (interni ed esterni), suggerisco di:

  1. recarsi sul blog di Luca De Biase;
  2. leggere il suo post Carrefour e le persone;
  3. ripartire dal punto 2. fino a che non si definisce una strategia operativa per poter affrontare e gestire questa nuova relazione.

Il caso Carrefour dimostra alcune cose:

  • Le opinioni delle persone si alimentano indipendentemente da quello che piace alle aziende e, talvolta, coinvolgono i brand molto più di quanto sia dovuto (su questo caso specifico sono d’accordo con Enrico).
  • Occorre ricordare quanto tali opinioni si sviluppino velocemente per mezzo della Rete e quanto siano influenti.
  • I dipendenti o collaboratori di un’azienda sono l’azienda stessa; si dà (giustamente) per scontato che rappresentino i valori del gruppo per cui lavorano.

Se qualcuno decidesse di fare la task list a cui accennavo prima, propongo un paio di punti:

  • Aprire un canale di comunicazione vero. Adesso. Che sia un blog, una community online, un forum (in casa Carrefour, ad esempio, mi è sembrato utile e tempestivo un intervento sul forum), ecc. Ma fa fatto adesso. Pensate se Carrefur (così come le altre aziende interessate) avessero avuto un adeguato canale già aperto: senz’altro avrebbero potuto affontare la situazione molto meglio (pur rimanendo, ovviamente, di fronte ad un fatto grave e negativo)
  • Se è vero, come detto prima, che i dipendenti sono l’azienda, occorre farglielo sapere! Occorre farglielo sentire.

Fin qui le chiacchiere da uno che si occupa di comunicazione. Come individuo posso solo esprimere tutta la mia solidarietà a Barbara. In una sola frase che gli è stata detta c’è tanta di quella superficialità e, direi, cattiveria, che continua ad insinuarsi nella società d’oggi.

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Osvaldo Adinolfi racconta una delle relazioni dell’ Edelman Summer School, in particolare quella di Rick Murray, presidente di Edelman Digital. Condivido i tre concetti espressi:

  • Continuità: la comunicazione digitale (e non solo quella, aggiungo io) va pensata per durare nel tempo e non strutturata come un flight pubblicitario)
  • Centralità dei contenuti prima che della creatività
  • Diffusione di una “cultura digitale” in luogo del “reparto digitale”

Che poi a dirlo è facile mentre applicarlo sulle realtà aziendali, specie quelle più grandi e complesse, è un’altra storia. E qui sta la vera sfida: non solo comprendere il cambiamento (che sarà sempre di più un’attività on-going), ma saperlo applicare.

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Osvaldo Adinolfi racconta una delle relazioni dell’ Edelman Summer School, in particolare quella di Rick Murray, presidente di Edelman Digital. Condivido i tre concetti espressi:

  • Continuità: la comunicazione digitale (e non solo quella, aggiungo io) va pensata per durare nel tempo e non strutturata come un flight pubblicitario)
  • Centralità dei contenuti prima che della creatività
  • Diffusione di una “cultura digitale” in luogo del “reparto digitale”

Che poi a dirlo è facile mentre applicarlo sulle realtà aziendali, specie quelle più grandi e complesse, è un’altra storia. E qui sta la vera sfida: non solo comprendere il cambiamento (che sarà sempre di più un’attività on-going), ma saperlo applicare.

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Anche se il numero di iscritti al feed oggi mi segnala un impietoso 1961, che poi è il mio anno di nascita…

Anche se ieri sono entrato in una community online e nell’accogliermi la moderatrice mi ha scritto: “Ciao, non rimanere deluso se siamo tutti piccini!” (non pensate male: mi sembra che il più giovane  faccia l’università!)…

Insomma, anche se il quotidiano non si risparmia a ricordarmi che il tempo passa (il titolo del post è una m3zza parafrasi di “spero di morire prima di diventare vecchio” che cantavano gli Who), adesso ho voglia di parlare di giovani.

  • Francesca Casadei (aka LaFra). Brava! Ha vinto il Young Lions media competition a Cannes. Servono casi di successo come il tuo. Servono esempi che testimoniano quanto sappiamo competere nel mondo.
  • Laura Premoli. Laura mi ha scritto per parlarmi del suo blog, ma qui voglio segnalare la sua presentazione in cui sembra trasparire una carica positiva ma equilibrata; tra l’altro scrive:

Sono una ragazza molto energica, sicura dei miei obiettivi, adoro la compagnia ma non rinnego i momenti di solitudine, adoro la lettura e non vivo senza musica, mi piacciono le sfide e non mi tiro mai indietro, sono molto ambiziosa anche se consapevole della mia giovane età.

Dateci sotto!

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Anche se il numero di iscritti al feed oggi mi segnala un impietoso 1961, che poi è il mio anno di nascita…

Anche se ieri sono entrato in una community online e nell’accogliermi la moderatrice mi ha scritto: “Ciao, non rimanere deluso se siamo tutti piccini!” (non pensate male: mi sembra che il più giovane  faccia l’università!)…

Insomma, anche se il quotidiano non si risparmia a ricordarmi che il tempo passa (il titolo del post è una m3zza parafrasi di “spero di morire prima di diventare vecchio” che cantavano gli Who), adesso ho voglia di parlare di giovani.

  • Francesca Casadei (aka LaFra). Brava! Ha vinto il Young Lions media competition a Cannes. Servono casi di successo come il tuo. Servono esempi che testimoniano quanto sappiamo competere nel mondo.
  • Laura Premoli. Laura mi ha scritto per parlarmi del suo blog, ma qui voglio segnalare la sua presentazione in cui sembra trasparire una carica positiva ma equilibrata; tra l’altro scrive:

Sono una ragazza molto energica, sicura dei miei obiettivi, adoro la compagnia ma non rinnego i momenti di solitudine, adoro la lettura e non vivo senza musica, mi piacciono le sfide e non mi tiro mai indietro, sono molto ambiziosa anche se consapevole della mia giovane età.

Dateci sotto!

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Sapevate che Yahoo! fu uno dei primi finanziatori di Google? Poi rivendettero (e bene) le quote che detenevano, restando comunque decisivi per il lancio di Google che implementarono come funzione di ricerca in quella che allora era solo una directory. Cose di 6 anni fa circa. L’ultimo accordo (Google esporrà i suo inserzionisti nei risultati di ricerca di Yahoo!) è l’ennesimo favore, seppur ben pagato.

image Google nel frattempo ha dimostrato di saper monetizzare le ricerche meglio di chiunque altro, ed ora Yahoo! cerca di valorizzare il search con questo accordo perché da soli hanno inanellato solo una lista di errori: ricordate l’inclusion? ricordate Panama? ricordate 360? E pensare che avevano in casa chi ha inventato il keyword advertising (Overture). Vabbè è andata. In un intervista ad Affari Italiani parlo di resa di Yahoo!: ovviamente mi riferisco al search, perché spero davvero che l’azienda possa rilanciarsi su tutto il resto: e lo dico per i dipendenti di Yahoo!, per il business legato ad internet e per gli utenti della Rete.

Su cosa significa per la Rete in generale questo accordo, ci pensa Vittorio Zambardino a fare una perfetta e giustamente allarmata disamina.

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