Customer journeyUn paio di giorni fa ho incrociato l’articolo Marketing Can No Longer Rely on the Funnel sul blog dell’Harvard Business Review.

Correttamente, gli autori mettono in discussione alcuni concetti centrali del marketing degli ultimi anni, ossia il Funnel ma anche il Customer Decision Journey proposto da McKinsey omai nel 2009. Riporto un paio di passaggi molto interessanti dell’articolo:

One of the most critical weaknesses of the Customer Decision Journey is the connection between purchase and advocacy. Almost every marketer we spoke to described how social media has disconnected advocacy from purchase. (…)

In today’s marketing landscape, people can experience a brand in many ways other than purchase and usage of a product. These include live events, content marketing, social media, and word-of-mouth. (…) In today’s digital age, advocates aren’t necessarily customers. Marketers who think that advocacy comes after purchase are missing the new world of social influence.

L’articolo suggerisce nuovi modelli, tra i quali il Customer Engagement Journey utilizzato da Visa. Ricordo che anche Brian Solis aveva elaborato un intelligente Dynamic Customer Journey già due anni fa.

Eppure vedo molti marketers elaborare le loro strategie facendo ancora riferimento a modelli piatti, lineari, in cui non vedono altro che un percorso cronologico che va dalla fase di consideration a quelle della loyalty e dell’advocacy. Evidentemente non è più così: il customer journey è dinamico, fluido, anche molto differente in funzione dei diversi tipi di consumatori.

Una cosa è certa: ogni strategia di marketing e comunicazione non può che partire dalla mappatura del customer journey e, per ogni touchpoint del journey, andranno realizzati contenuti verticali e iniziative coerenti con la fase in questione.

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4 commenti per “Marketers ancora fermi al funnel”

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  1. Marino Baccarini scrive:

    Interessante punto di vista. Domande: i modelli accennati poggiano su fondamenta solide come analisi dei risultati di azioni di web marketing? Quale valenza hanno le procedure “testate” su mercati culturalmente diversi? Possiamo affermare che i modelli adottati abbiano valore per mercati formati da milioni di utenti per cui se le azioni di marketing non raggiungono alcune migliaia di persone, va bene lo stesso perchè comunque il retro della medaglia è il mercato globale?
    Avendo lavorato nella vendita di spazi pubblicitari su mezzi stampa nazionali, so che i dati “statistici” servono a vendere nononstante “tutti” i giocatori coinvolti nella trattavita/gioco, sono consapevoli che si tratta “solo” di statistiche e non di dati certi. Questo vale per la stampa come per la comunicazione esterna e, ovviamente per i media radio/tv. Per la prima volta nel settore dell’advertising, abbiamo la possibilità di ragionare su numeri, grandi o piccoli, che si avvicinano grandemente alla realtà. Le conversioni non sono statistiche, sono dati certi, almeno fino a un certo punto. Tuttavia mi resta il dubbio: i modelli nascono da dati empirici o scientifici? Come siamo arrivati a rendere noto il “viaggio” di un utente verso l’acquisto, soprattutto nelle molteplici fasi che collegano il pensiero/desiderio all’uso della carta di credito?
    Grazie,

  2. Mauro Lupi scrive:

    Marino, grazie del commento. I modelli relativi al customer journey sono affidabili o meno in base a come li si imposta, a mio modo di vedere.

    La mia esperienza è ogni azienda ha delle peculiarità e delle varianti cruciali nell’identificare i touchpoint con i consumatori.

    Non è opportuno impostare dei modelli troppo complicati perché alla fine sono 6 o 7 i passaggi chiave, ma è fondamentale identificarne anche le ragioni che interrompono il journey, mentre troppo spesso ci si sofferma solo su come influenzare il passaggio allo stadio successivo.

  3. Alessia Di Domenico scrive:

    Ciao Mauro,

    Non ci conosciamo personalmente, ma ti leggo con piacere.

    Mi permetto di segnalarti sull’argomento un interessantissimo post che ho letto proprio oggi su Linkedin e che secondo me può fornire diversi spunti di riflessione, proprio su questo argomento.
    In pratica analizzando il successo di casi come quello di Airbnb e di Uber, emerge come una relazione “di valore” tra brand e persone al giorno d’oggi sia quella basata sul “capitale sociale”. Ovvero l’unica in grado di creare advocacy perché crea al tempo stesso connessioni e collaborazione. Una relazione che fa saltare in un certo senso però l’approccio utilizzato sinora da quasi tutti i brand e i settori merceologici.
    Magari l’articolo lo hai già letto anche tu, nel caso, scusa lo spam involontario.
    Ciao ciao e buona serata
    Alessia

    http://linkd.in/1kMkvqu

  4. Mauro Lupi scrive:

    Alessia, molto interessante l’articolo che non avevo incrociato. Grazie mille per la segnalazione

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