Archivio: marzo, 2014

Seth Godin

Piacevole intervista concessa da Seth Godin a Inc. Non mi entusiasma il punto di partenza giornalistico che parte dagli errori anziché dalle best practices, ma Godin ci mette del suo.

Un piccolo estratto:

What would you say is the greatest mistake that marketers are making today?

Godin: The big mistake is thinking that their job is to spend money to get attention. If they think that that is what their job is, they will never ever succeed in marketing.

How can companies get marketing right?

Godin: Start by understanding that no one cares about them. People care about themselves. Anyone who tweets about a brand or favorites a brand is doing it because it is a symbol of who they are–it is a token, it is a badge. It’s about them, it’s not about the brand.

E ancora:

Commitment is what is required to change minds. We change our minds because we have made a commitment because something moves us.


Le aziende in Europa continueranno ad aumentare il budget destinato al CRM. E’ quanto emerge dall’analisi di Gartner aggiornata a Febbraio di quest’anno.

Ricerca Gartner CRM

L’articolo di TechEconomy da cui ho appreso della news, riporta anche quella che risulta essere il principale ostacolo nella relazione verso i clienti, ossia:

La maggioranza schiacciante dei partecipanti ha citato la mancanza di una strategia complessiva di CRM chiaramente definita.

Siamo alle solite: “mancanza di strategia”. Ma è davvero così complicato? E’ un problema di leadership ed incapacità di prendere le decisioni, magari per colpa della lentezza con cui si muovono le organizzazioni?

Oppure è un problema oggettivo dovuto all’incertezza di un ambito, quello della relazione persone-aziende, drasticamente cambiato negli ultimi anni?

O magari è qualcos’altro ancora?


Un po’ di cose attorno ai tema della trasformazione delle aziende e – strettamente collegato – della customer experience.

Partiamo da Luca De Biase ed il suo post E le aziende scoprono che internet impone un cambiamento strategico nel loro dialogo con la società. Interessante, tra l’altro, la riflessione sulla relazione tra piattaforme e conversazioni; scrive Luca:

Le piattaforme si impongono sulla conversazione, perché la loro forma ha conseguenze sulla qualità dei comportamenti delle persone. E la raccolta di dati che consentono di realizzare è un valore in più che nessun mezzo di comunicazione tradizionale consentiva di sviluppare. (…)

E’ un altro motivo per pensare che una tendenza strategica fondamentale sia quella di ripensare le piattaforme, non subirle. Il design dell’azienda è contemporaneamente il design della sua organizzazione e della sua comunicazione, che a quel punto è essenzialmente la dichiarazione della sua identità. La comunicazione è pensata come parte integrante dell’organizzazione. L’azione comunica e la comunicazione efficace agisce. La convergenza tra “fatti” e “parole” è una strategia.

Marketing, Customer Service Get Engaged on Social Media è invece un articolo con interessanti link, tra i quali un e-book realizzato dal team di Microsoft Dynamics CRM.

Infine un modello molto interessante realizzato da Keikendo che identifica il livello di maturità delle aziende rispetto alla user experience.

Keikendo Maturity Model

La logica dei modelli evolutivi è molto utile perché permette di definire una strategia che si evolve nel tempo attraverso dei passaggi intermedi. In OpenKnowledge, ad esempio, abbiamo creato il modello SPOK (Social Path by OpenKnowledge) che identifica cinque differenti stadi di implementazione della social media strategy. Attraverso SPOK si definisce in pratica la roadmap strategica e operativa, avendo già ben chiari gli obiettivi di ogni fase, i relativi KPI e le risorse necessarie.


Un post in stile weekend che prende spunto da Techcrunch. Il personaggio è Sergey Brin, cofondatore di Google, che quando pubblicò il curriculum online, ci infilò una chicca da vero geek.

objects

In pratica, all’interno del codice HTML della pagina web ha infilato i suoi veri obiettivi professionali: un grande ufficio, tanti soldi e poco lavoro. Un benefit potrebbero essere viaggi pagati in luoghi esotici.

Obiettivi che penso abbia raggiuto abbondantemente!

Visto che siamo in vena di cose semi-serie, ripesco quella che fu una mia scoperta casuale, più di dieci anni fa e che riguarda sempre Brin, ossia una sua bella foto vestito da donna.

Ennesima conferma che il web non dimentca… Buona domenica!


Social selling e la metafora dei partyVendere attraverso i social? Perché no, ma non come obiettivo primario ma come naturale effetto di una partecipazione coerente e ben organizzata: “social first, selling second”. Questo è in sintesi l’approccio che si suggerisce da tempo e su cui torna Martin Kihn, un analista di Gartner, con il post The Social Science of Social Selling.

Prendendo spunto dalle analisi di Gartner, vengono suggerite quattro implicazioni:

  1. People are more likely to buy (convert) if they’re already part of the community
  2. They’re more likely to join a community if they believe a friend or peer is already a member
  3. Anticipate that any sale will happen after a period (perhaps a long period) of simply getting comfortable with the community
  4. Communities need an identity — they can’t be generic

La metafora del party è quella da cui parte il post di Gartner:

Since we’re comparing digital life to a dance party — and why not? — by now it’s clear that most marketers know:

  • They need to attend the party (social presence)
  • It’s polite to respond when spoken to (community management)
  • It’s neighborly to invite people into conversation on topics they might find interesting (social marketing)

Questo mi permette di ricordare che ne scrissi anni fa identificando proprio nel blog (nel 2006 non c’erano ancora Facebook e Twitter) l’equivalente delle “feste in città”. Scrivevo una cosa del genere (ancora attuale per chi, rispetto ai social, è ancora ad una fase di studio):

Ok, care aziende, credo proprio che i passi da fare saranno:

  • informarsi sui party: chi li organizza, di che si parla e, molto importante, se e come si parla della propria azienda – tradotto: capire il fenomeno dei blog, seguire le discussioni, analizzare le citazioni sul proprio brand e sui prodotti dell’azienda
  • farsi invitare alle feste: iniziare a partecipare ai party più interessanti, conoscere i padroni di casa, ascoltare e conversare – tradotto: intervenire nei blog, commentare e rispondere
  • organizzare un party: guidare la festa, esporsi e ricevere regali, scegliere il tema della festa – tradotto: avviare un blog


Bel post di Giovanni Gentili che suggerisce un quadro a due dimensioni (ICT e Politiche digitali) per l’Agenda Digitale.

Concordo in particolare sul rischio di trasformare l’Agenda Digitale in una lista della spesa di materiale informatico per la PA. Peraltro l’abbiamo già visto fare; ad esempio i finanziamenti per l’e-commerce che in realtà permettevano di acquistare computer…

Scrive Giovanni:

(…) il grosso rischio che corriamo è quello di ridurla ad una semplice questione di "informatizzazione", ovvero introduzione di tecnologie nella PA (primo avviso e-gov) e finanziamenti alle imprese per l’acquisto di "macchinari" informatici.

Chiaro lo schema che propone:

Tuttavia, ho voluto commentato il post con un punto di vista disincantato e non certo ottimista:

(…) Trovo che alcuni degli assi su cui si muovono le istituzioni di questi tempi sono le infrastrutture e quindi l’informatica (muovono tanti soldi) e le startup (probabilmente muovono voti e forniscono il look da innovatori).
Delle PMI NON ancora "abilitata dal digitale" (…) e cioè la maggioranza, sembra non importare molto… :(


Condivido il pensiero di Michael Maoz, un analista di Gartner, quando afferma:

Marketing has done a good job of seeing the power of Social Media, and ran fast to seize the initiative andengage customers in new ways. (…) And now something else is happening. As marketing engages more deeply with customers, you move beyond the ‘dating phase’ and sort of settle into a relationship. Who picks up the laundry, and did you take the dog to the vet?

Esperienza personale recente: ho passato il mio cellulare da un operatore (Vodafone) ad un altro (TIM). Ben fatta la procedura tutta online, ma la portabilità del numero non sembrava andata a buon fine. Beh, non sono riuscito a trovare un telefono, una mail, un indirizzo a cui chiedere cosa fare. Allora ho scritto ad uno dei canali di customer care che ha TIM su Twitter ed il giorno dopo la procedura è andata a buon fine.

Tutto a posto dunque? Ho qualche dubbio. Penso a chi non sa neanche cosa sia Twitter (dovrebbe essere a spanne il 90% della popolazione italiana); oppure a chi Twitter proprio non gli viene in mente dato che in nessuna parte dell’area “Assistenza Clienti” è segnalato.

Mi rendo conto che è complicato servire clienti sempre più informati, esigenti, influenti (e pure rompiscatole, a volte). Ma saper gestire bene il customer care non più che essere un asset strategico per chiunque. Occorre raccordare marketing e customer care, bisogna unificare le informazioni sul cliente e sviluppare piattaforme (tecnologiche e organizzative) di Social CRM. E poi, naturalmente, saper risolvere i problemi!

Chiudo ancora con Maoz che riporta un commento di un ipotetico utente:

“I told you that I was unhappy with your service on Twitter, but when I called in, or logged in, there was no knowledge of my Tweet. What’s up? Or, you saw my post on Facebook (or in a forum, or in a community), and you said how sorry you were, but the same problem is still there. What are you doing about it?”


Interessante questo articolo su Forbes sul tema della customer experience da cui ho preso spunto per il titolo del post e di cui riporto le raccomandazioni (riprese a sua volta dal libro Summit di F. Scott Addis):

  • Listen to the individual customer
  • Exploit your product and service differences
  • Demonstrate the value of your offering
  • Show your passion and creativity in every solution
  • Demonstrate your personal commitment
  • Shoot for the customers’ hearts

Alcuni punti sono mero buon senso, altri sono complessi da realizzare in maniera compiuta, specie in determinati settori o per talune classi di prodotti.

Idealmente si dovrebbe riuscire a valutare (e governare) il consumatore rispetto alla somma di esperienze rispetto al brand e non solo analizzando i singoli touchpoint. Perché d’altronde è così che le persone valutano le aziende.

Non a caso, il pezzo su Forbes segnala un articolo dell’anno scorso sull’Harvard Business Review (scritto da due analisti di McKinsey), tutto concentrato sul “customer’s end-to-end journey”. Ne cito un piccolo brano:

Most customers weren’t fed up with any one phone call, field visit, or other interaction—in fact, they didn’t much care about those singular touchpoints. What reduced satisfaction was something few companies manage—cumulative experiences across multiple touchpoints and in multiple channels over time.


Aiutatemi a capire. Ieri AGCOM fa un comunicato stampa sulla valorizzazione del SIC (Sistema Integrato delle Comunicazioni), nel quale rileva per la pubblicità online un passaggio da 672 milioni nel 2011 a 1.503 milioni di Euro nel 2012.

Evidentemente il fatturato online NON è triplicato in un anno, per cui penso si applichi la nota (un po’ criptica in verità) che dovrebbe stare a significare che nel 2011 alcuni valori non erano stati considerati. Mi domando che senso abbia rappresentare dati così macroscopicamente incongruenti, ma pazienza.

SIC Sistema Integrato delle Comunicazioni 2012

 

Ciò che trovo strano è che l’anno scorso AGCOM pubblicò la prima edizione dell’Osservatorio sulla Pubblicità, in cui stimava per il 2011 tutt’altro valore, ossia 1.578 milioni di Euro (grafico di seguito).

 

AGCOM - Ricavi pubblicitari

 

Più recente invece il documento “Indagine conoscitiva sul settore dei servizi internet e sulla pubblicità online” sempre di AGCOM (dati di seguito), il quale presenta ancora altri numeri per il 2011 (1.408 milioni di Euro) mentre per il 2012 il dato di 1.503 milioni è quello dell’ultimo SIC (evviva!)

 

image

Ripensavo al convegno di qualche giorno fa del Politecnico che ha annunciato una collaborazione con IAB per analizzare il valore del mercato della pubblicità online perché finora non si erano mai parlati…

E’ una storia vecchia: sembra che in Italia si faccia di tutto per tirare ad indovinare quando si tratta dei numeri di internet…


Puntuale come al solito, Robin Good apre un capitolo nuovo nel valutare le piattaforme per gestire e organizzare i siti web. Si tratta dei cosiddetti CMS (content management systems) che hanno un compito sensibilmente diverso rispetto a qualche anno fa.

imageOggi difatti, il compito delle moderne piattaforme non può essere focalizzato solo sul sito web, ma deve preoccuparsi di organizzare e gestire tutti gli asset e canali digitali (web, social, email, ecc.), tenendo conto peraltro dei differenti device (pc, smartphone, tablet, smart-TV, ecc.).

Le moderne piattaforme, come sottolinea Robin, curano elementi differenti e tutti rilevanti: dalla gestione di canali digitali multipli, al supporto della content curation; dal governo degli strumenti di monetizzazione, alla programmazione della pubblicazione dei contenuti.

Per quello che vedo io nelle organizzazioni più strutturate, dove il digital sta investendo tutti i dipartimenti, le aree funzionali più innovative (e che abitano nuovi modelli organizzativi) sono quelle che riguardano la collaborazione ed il controllo dei workflow. Quindi la gestione di calendari editoriali condivisi, dei ruoli e delle autorizzazioni legate alla pubblicazione, fino ad arrivare a sistemi di social networking pensati appositamente a supporto del content marketing.

Tonando all’articolo su MasterNewMedia, oltre alle numerose piattaforme segnalate, vorrei aggiungerne alcune più orientate a soluzioni enterprise e quindi di maggior complessità, ed in particolare Sprinklr (molto completa ma anche con pricing a partire da 70 mila dollari l’anno), Kapost (ottimo per la gestione dei calendari editoriali) e Falcon Social (una piattaforma tuttofare compreso un tool di listening delle conversazioni online).

Naturalmente anche i big player non stanno a guardare (penso in particolare a Microsoft, IBM e Oracle), molti dei quali stanno via via integrando un set di funzionalità e piattaforme per governare “il digital” a 360°.

Chiudo mettendo benzina su una discussione che genera fuoco ormai da tempo: la scelta e l’implementazione di queste piattaforme nelle organizzazioni, sono nel territorio del CMO o del CTO?


Il tono con cui Forrester si rivolge ai business leaders è perentorio: “Your company is likely to face an extinction event in the next 10 years. And while you may see it coming, you may not have enough time to save your company”.

L’occasione è il nuovo report “The Future Of Business Is Digital” appena pubblicato da Forrester, in cui si analizza come il mondo degli affari nel sui complesso è trasformato dal digital.

Vorrei sottolineare innanzitutto l’evidente contraddizione tra due affermazioni degli executive intervistati:

  • 74% of business executives say their company has a digital strategy (il dato è riportato nel post che annuncia l’analisi)
  • 21% say “We have the right people to define our digital strategy” (vedi figura in basso)

Ora mi chiedo: ma allora la digital strategy chi l’ha fatta nel rimanente 79% dei casi?

Presumo (lo spero per le aziende) che si siano avvalsi di consulenti o partner esterni. E qui il primo tema è: quali sono i soggetti giusti per aiutare le aziende (specie le medie e grandi) ad impostare una digital strategy? Che non significa (solo) scegliere i canali web e social da utilizzare, come ci ricorda anche Forrester. Nè riguarda solo come pianificare l’advertisinig online…

Forrester data on digital readiness

Inoltre, solo il 15% dei manager ritiene che in azienda ci siano persone con gli skill necessari per eseguire la digital strategy. Un gap che ritengo sempre meno conveniente risolvere con l’outsourcing, specie per quanto riguarda i contenuti e le relazioni con l’esterno.

Forrester titola uno dei paragrafi del report con un concetto chiave: “Digital Business is a Journey, Not a Destination”. Aggiungo che il journey è un viaggio che non finisce, anzi, che è appena iniziato. E allora non basta un biglietto, serve una mappa, un programma del viaggio e, possibilmente, una buona guida.

Chiudo solo segnalando che anche nel sample della ricerca è possibile trovare degli molti spunti su cui impostare una vera digital strategy, nella quale è centrale il tema della customer experience su cui ho scritto di recente (qui e qui).

Forrester - The Future Of Business Is Digital


Come disse Steve Jobs nell’ispirata lecture a Stanford, si possono unire i punti solo guardando all’indietro, avendo però fiducia che i punti in cui si crede prima o poi si collegheranno.

A me pare che ci sono alcuni temi di business che attualmente non si incrociano del tutto (al massimo si sfiorano) e che invece si dovranno collegare nel breve futuro. Li sintetizzo:

  • Customer Satisfaction
  • Customer Journey
  • Customer Engagement Marketing (che affianca il CRM)
  • Content Strategy

Un paio di articoli che connettono questi punti:

  1. CEM vs CRM: Which Platform Is Better?
    cemcrm
  2. The three Cs of customer satisfaction: Consistency, consistency, consistency


L’anno scorso feci una “presentazione rock” al Social Business Forum (It’s only Socal Strategy but I like it) nel quale utilizzai titoli e versi di brani rock per identificare i punti principali dell’intervento.

Nel frattempo mi son venuti in testa altri titoli che magari userò in un prossimo speech (aggiungendo anche “Tweet and shout” come mi ha suggerito Alberto).

Intanto oggi ho scoperto una bella infografica realizzata da Aidalicius che racconta l’e-commerce attraverso le canzoni dei Beatles. Enjoy!


Hai presente quando leggi un post che fa accendere una serie di pensieri vaganti fino a quel momento? Ecco, mi è successo con “Within Five Years Call Centres Will Be Run By Marketing” incrociato qualche giorno fa.

Si parte dai temi della consumerizzazione, riprendendo un dato di una ricerca svolta da Accenture nel 2012:

“At the turn of the millennium, companies spent twice as much on IT hardware per employee as consumers spent. By 2008, the two sides had reached parity.”

Solo che le opportunità per le aziende nel relazionarsi con questi “consumatori digitali”, sono complicate dalla multicanalità e da molteplici varianti di customer journey:

No surprises then we’ve invented the language of ‘cross-channel’ and ‘omni-channel’ to point beyond the utter failure of traditional point solutions to keep up. (…) This becomes all the more apparent when we look through the re-architecting eyes of CX (customer experience) professionals who map those wiggly customer journeys across the badlands of functional silos. They know that the mapping part of their mission is the easy bit. Bending the organisation like origami into an outside-in shape is quite another matter!

Situazione che merita una dose di sano realismo:

At the centre of the issue is a set of conflicting beliefs that keep organisations locked into a certain shape and pattern of behaviour. One belief holds there is more money in existing customers. The other bets on finding a constant stream of new ones. The former is what everyone goes to conferences to feel uplifted by; like a good Southern Baptist Sunday morning does for the soul. The latter is what is dictated by the governance of annual planning and the assumptions that sit behind ‘how to make the numbers this year’.

E l’attenzione ai nuovi clienti è suffragata dai dati:

At a global level we invest $500bn in Marketing compared with just $9bn in Service. (source: G-force 2013). And of that marketing budget, organisations spend just 2% on actively maintaining relationships with existing customers (source: Adobe Digital Index)

È Forrester con un report sulla customer experience  del 2013 che riporta l’attenzione sui nuovi customer journey e sulla loro rilevanza:

All those connected devices allow consumers to adopt new patterns of engagement that spread experiences across multiple touch points. However organisations are so behind the curve that consumers are slowed down and limited in their channel options. All of which degrades the brand’s value.  The answer is to plan and deliver seamless experiences starting with real time reporting of these new, multi device, cross channel customer journeys.

Poi l’articolo cita due ricerche (“Foresee Experience Index Q4 2013” e “Amex’s 2012 Global Customer Service Barometer”) che dimostrano quanto una buona customer experience genera un evidente aumento della propensione all’acquisto e dell’advocacy.

Da ciò ne deriva che il marketing deve fare un passo indietro:

Marketers needs to cultivate the habit of listening before talking. A habit that will take some practice before becoming natural since their current instinct is to conduct an ongoing monologue with customers.

Perché, come evidenzia anche lo studio JD Powers Survey svolto negli Stati Uniti (Q1 2013):

So many companies jump to the marketing piece, but consumers are looking more and more to social channels for support.

Ed il marketing può “pescare” dal customer support numerose opportunità e insight, riassunti in tre punti (rimando all’articolo per la loro descrizione):

  1. Customer Inspired Topics
  2. Expectation Management
  3. Service Triggered Stories

Questa la visione per un prossimo futuro:

All customer facing functions will operate under a single plan and budget. As by far the richest and most influential budget holder, Marketing has taken command under the united remit of ‘Customer Engagement’.

Ma se le organizzazioni vogliono davvero arrivare a questo, è adesso che devono iniziare a strutturarsi per abbattere gradualmente i silos, per coordinare i touchpoint interessati dal customer journey, per passare dal CRM al CEM (Customer Experience – o Engagement – Management).

Lo dimostrano anche alcune esperienze che stiamo facendo in OpenKnowledge insieme ai nostri clienti, nelle quali i processi di cambiamento e orientamento al consumatore, richiedono tempi oggettivamente lunghi e piani strategici e di implementazione approfonditi e trasversali rispetto ai dipartimenti dell’azienda. Cose non banali, ma decisamente necessarie.