Il grande inganno del Web 2.0 - Fabio Metitieri Sono decisamente in imbarazzo nello scrivere queste note perché, purtroppo, l’autore è scomparso recentemente proprio dopo aver pubblicato questo Il grande inganno del Web 2.0. Per di più, il fatto che mi trovi in quasi totale disaccordo con i concetti espressi, non mi facilità il compito. Avrei davvero tanto sperato nel poter sviluppare un contraddittorio con Metitieri il quale nel libro esplode il suo pensiero critico su blog e web 2.0, peraltro già ripetutamente esposto negli anni attraverso i suoi interventi su alcuni dei principali blog nostrani.

Ho comunque sempre osservato con attenzione le persone “fuori dal coro”: aiutano a sbirciare lì dove si presume non ci sia nulla, a porsi domande mai pensate prima. Magari, dopo un confronto del genere, ci si ritrova a pensarla esattamente come prima, ma i “bastian contrario” sono una manna per stimolare la riflessione. E questo è il primo merito di questo libro che, a parer mio, ne colleziona pure un altro, di cui ne parlerò più avanti. Ora passo alle mie di critiche.

I limiti dell’intero Metitieri-pensiero sono di voler generalizzare su alcune categorie di persone a cui lui attribuisce i peggiori mali del mondo internet, in primis quel gruppo di blogger popolari che proprio non sopporta (i VIB, very important blogger). Si tratta di un’impostazione che i fatti stanno dimostrando evidentemente inesatta, sia perché la fluidità della Rete fa nascere e morire star digitali nello spazio di pochi mesi e chi rimane alla ribalta è solo perché continua a guadagnarsi credito. Sia perché l’individualismo dei blogger tanto odiato da Metitieri, specie quando confrontato con i professionisti della comunicazione, non è rappresentativo di un gruppo omogeneo, ma di una serie di persone che semplicemente generano contenuti in un modo inedito almeno rispetto a qualche anno fa.

Ed è proprio l’attaccamento forzato a vecchie regole di analisi, l’altro punto di partenza del libro che non condivido affatto. In pratica si cerca di tradurre un mondo della comunicazione che vive mille stravolgimenti da diversi anni, con logiche evidentemente superate, a partire dai criteri di gestione e classificazione delle biblioteche che facevano parte del bagaglio professionale di Metitieri. Su questo argomento specifico mi sarebbe davvero piaciuto un confronto: anch’io venti anni fa circa mi sono occupato di biblioteche, sviluppando programmi per PC, ed oggi non posso che ammettere che è inutile e forviante rimanere su quei paradigmi e su quelle metriche per analizzare l’oggi.

Alla fine il libro prende troppo sul serio un gruppo di persone salite alla ribalta in modalità e tempi che Metitieri trova inopportuni. Capisco che costatare un impoverimento dei contenuti digitali possa infastidire un professionista della comunicazione, ma è il classico errore che fanno gli immigrati digitali, abituati a scegliere tra un numero limitato di fonti, mentre in Rete il lavoro è esattamente il contrario e cioè selezionare i contenuti filtrando il rumore, la cui esistenza è il prezzo da pagare per accedere all’abbondanza di materiale disponibile.

Quello che invece sposo sicuramente è il richiamo alla necessità di diffondere una una computer literacy e di una information literacy, ossia la divulgazione di informazioni, modalità operative e best practice per sapersi districare nella miriade di nuove tecnologie con cui accedere alla montagna di contenuti digitali. L’importante è farlo in maniera attualizzata e non con l’orologio fermo a venti anni fa.

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6 commenti per “Il grande inganno del Web 2.0 – Fabio Metitieri”

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  1. cosimo accoto scrive:

    Salve Mauro,
    in genere, non leggo la letteratura nazionale e divulgativa su questi temi, ma facendo ricerca in questi mesi intensamente sui temi dei cd. “social media” (e avendo beneficiato di uno sconto del 40% ;-) )), ho deciso di fare un’eccezione e dedicare del tempo alla lettura del libro in questione. Volevo approfittare del tuo post per scambiare in sintesi senza esaustività due pensieri in merito alle idee espresse dall’autore.
    Dirò con rispetto per l’autore e in trasparenza che le tesi espresse nel libro mi appaiono, nel complesso, concettualmente deboli e, in prospettiva, poco feconde. E, direi, anche e soprattutto se osservate dal versante della “bastiancontrarietà”. Infatti, il “discorso critico” sulle nuove tecnologie e sulle loro ricadute può contare, oggi, su speculazioni di spessore condotte con impianti disciplinari e approcci analitici molto avanzati (cito, per brevità, il filone dei cd. “software studies”, ma ce ne sono molti altri, in giro per il mondo cui si può attingere), in cui la critica è condotta serratamente attraverso l’impiego proprio di un pensiero digitale e di rete (e quindi, si direbbe, iuxta propria principia) e non con un pensiero e una prospettiva, direi in ultima istanza, di natura pre-digitale e pre-reticolare Non così facendo, ideologicamente, si cade vittima, di volta in volta, delle hype-nosis negative o positive senza addentrarsi a discutere seriamente “su cosa e su chi stiamo divenendo”.
    Il richiamo alla promozione delle cd. “new literacies”, correttamente segnalato, delle competenze e di un’educazione all’informazione digitale di rete è condotto, dall’autore, in modalità anche qui un po’ debole e di retroguardia, concordo. Le new literacies sono questione complessa (capisco anche che in un saggio divulgativo non possa darsene conto e non era l’oggetto del saggio), ma possiamo almeno dire che coinvolgono, al loro fondamento, questioni che vanno al di là della capacità di selezionare le fonti o le best practice, cose pur rilevanti. E coinvolgono, tra le altre, la capacità di analisi della documentalità digitale, delle disciplinarità dei dispositivi protocollari, dell’economia degli ipertesti e delle ipersocialità, delle matematiche e delle politiche algoritmiche computazionali impiegate, ad esempio, nell’information retrival e così via. Su questi territori occorrerà rapidamente, anche nel nostro paese, approfondire insieme la discussione.
    Temo, tuttavia, anche che crescerà una limitata consapevolezza scientifica intorno a queste nuove literacies così come non c’è stata e non c’è molta consapevolezza intorno alle vecchie. Quanti sarebbero in grado, secondo rigorose logiche ricostruttivo-storiografiche di valutare l’autenticità di un documento storico cartaceo o di una fonte documentale orale, fotografica, filmica o di altra natura???
    cosimo ;-) ))

  2. Mauro Lupi scrive:

    Ciao Cosimo e grazie per il tuo commento. Sul discorso delle nuove literacies io sono per una versione più approssimativa, nel senso che il rigore nella contestualizzazione di un documento, o comunque la sua validazione, andrebbero scalate in relazione al modo col quale si fruiscono i contenuti all’epoca di Twitter.
    Non dico di considerare tutto il digitale come un polpettone in live streaming, ma l’education dovrebbe partire dal come gestire questo nuovo caos contenutistico. Utilizzando quindi nuove regole, più tolleranti in fatto di validazione e più orientate alla soddisfazione dei bisogni operativi fatti di velocità, sintesi, tecnologie che si evolvono velocemente.

  3. cosimo accoto scrive:

    Ciao Mauro,
    posso concordare con te a condizione che riconosciamo l’esistenza di livelli e ambiti diversi e forse necessità diverse di literacy (livelli che teniamo per comodità distinti).
    Sono d’accordo che l’educazione alle nuove literacies per le aziende possa avere un grado di approssimazione maggiore (causa velocità, frammentazione, …). Mi sembra però che le new literacies per una “cittadinanza” digitale consapevole e adeguata (che mi sembra un po’ il rilievo critico del metitieri-pensiero) richiedano un rigore civile maggiore e di sicuro, come dici giustamente, l’aggiornamento degli strumenti di verifica, validazione, controllo dell’informazione che hanno, finora, supportato, più o meno efficacemente, le democrazie moderne.
    In sintesi, posso approssimare la ricostruzione del senso di una conversazione online sulla mia azienda, prodotto, ecc considerato che, poi magari, devo attivare rapidamente delle strategie di reputation management in tempi rapidi,.ecc.. Direi, però anche, che non posso approssimare (oltre un certo grado e nel medio-lungo periodo) le competenze della cittadinanza digitale e quindi mi devo attrezzare per verificare, con nuovi approcci disciplinari, appunto l’attendibilità delle fonti, delle informazioni, della conoscenza di ciò che costituisce il sistema nervoso di una democrazia ai tempi di twitter ;-) )))
    cosimo

  4. Mauro Lupi scrive:

    Si, certo, giusto distinguere. Anzi, la Rete ci sta abituando ad una moltiplicazione delle risposte, quasi nel rendere ogni cosa come relativa; ma questo è un altro discorso.
    Il distinguo aziende/cittadini è corretto. Ma un atteggiamento generale che trovo sensato, almeno rispetto ai canoni passati, è quello di essere maggiormente “di bocca buona” rispetto ai contenuti, considerando il rumore, le sciocchezze, lo spam, i troll, ecc. semplicemente come il prezzo che dobbiamo pagare per usufruire della Rete. Ecco, anche questa consapevolezza dovrebbe far parte delle litreracies per come le vedo io :)

  5. cosimo accoto scrive:

    ciao mauro,
    concordo. Naturalmente poi, come argomenta Kosko in un recente volume (“Noise”, 2006) ora tradotto anche in italiano, il rumore è un concetto molto complesso ;-) ))
    ciaoo

  6. Luigi scrive:

    pensa che ho scoperto grazie a questo Post che è morto…
    pazzesco: ogni tanto penso a chi resta oggi e deve gestire l’eredità digitale di una persona con grande presenza online

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