Archivio: ottobre, 2003

Iprospect è una delle aziende più note nel settore del search engine marketing e, probabilmente, quella più focalizzata verso le grandi corporation. Importo medio dei suoi servizi: 20.000 dollari al mese (yes: al mese!). Frederick Marckini ne è il fondatore e presidente e da settembre scrive regolarmente su ClickZ.

L’ultimo suo articolo riguarda le modalità di selezione del fornitore a cui affidare la visibilità sui motori di ricerca della propria azienda. È un argomento su cui anch’io ho scritto qualcosa recentemente.

Secondo Marckini, le RFP (Request for proposal), il tradizionale sistema usato nella scelta dei fornitori, non è adeguato ai servizi di search engine marketing. Il principale motivo sarebbe la mancanza di competenze delle aziende di entrare nel merito dei servizi e quindi di non riuscire a compiere la scelta migliore comparando offerte standardizzate.

In gran parte sono d’accordo con Marckini. Omogeneizzare le caratteristiche di un servizio di questo tipo è praticamente impossibile. Purtroppo alcuni uffici acquisti tendono a richiedere le offerte secondo dei criteri uniformi e predefiniti: numero di keyword, quantità di posizionamenti garantiti, numero di pagine ottimizzate, ecc. Il fatto è che tali parametri quantitativi non dicono nulla in merito alla qualità dei servizi erogati, che invece sono normalmente dipendenti dall’esperienza e dalla competenza del fornitore; elementi questi, difficilmente rappresentabili in una offerta standardizzata.

Inevitabile quindi la necessità di approfondire non solo i dettagli tecnici delle proposte, ma soprattutto le caratteristiche delle singole aziende in termini di esperienza, qualità delle persone, referenze, storia, prospettive, ecc.

Non va però sottovalutata l’oggettiva difficoltà delle aziende nell’individuare i partner più adatti a gestire qualsiasi attività legata ad internet, compreso quindi il search engine marketing. A volte, dietro l’affermazione “le aziende non sono preparate”, si nasconde solo un evidente interesse a creare una barriera tra il fornitore super-esperto e il cliente (teoricamente) incompetente. Pur nel rispetto del ruolo e del valore professionale di tutti, le aziende vanno invece supportate proprio nell’aumentare le loro competenze, a patto che tale impegno sia riconosciuto e che contribuisca a sviluppare un rapporto cliente-fornitore davvero collaborativo.

Avere clienti preparati ed informati è sicuramente più impegnativo e non permette di barare. Però è un sano obiettivo che dovrebbe essere sempre perseguito. Non è bellissimo parlare di sé stessi, però un esempio concreto di questa strategia, riguarda proprio Ad Maiora, la mia azienda. Quando iniziammo nel 1997 ad erogare servizi di visibilità sui motori di ricerca, partì contestualmente un sito divulgativo (motoridiricerca.it) che è poi rimasto uno dei riferimenti del settore in Italia.

Sull’argomento “voglio clienti informati” ritornerò sicuramente in futuro.


Ad Maiora boys :)Eppure ero già capitato sulla pagina con le foto del party di Google al Search Engine Strategies. Poi oggi Massimo (a sinistra) mi ha segnalato che hanno immortalato anche gli Ad Maiora boys ed Emiliano (a destra) fa notare che… siamo entrati nella storia!
Sulla mia espressione nella foto… stendiamo un velo pietoso…

Passando alle cose serie, del Search Engine Strategies ne ho parlato qui, qui, qui e qui. Altre foto sono invece qui.


L’idea geniale
Serata svogliata davanti alla TV. Di quelle da cui non mi aspetti nulla, specie dopo aver consultato la guida ai programmi ed aver scoperto che, anche stasera, non troverò nulla di memorabile in nessuno dei cento canali che ho a disposizione. Alla fine mi piazzo su una di quelle emittenti che interrompe i film con delle sequenze di spot pubblicitari piuttosto lunghe, così posso fare un po’ di sano zapping.
  Intento a saltare da un canale all’altro, penso a quanti altri telespettatori apatici passino il loro tempo rimbalzando da un programma all’altro e come il marketing possa sfruttare questa situazione. Naturalmente vedo ogni cosa con gli occhi del pubblicitario, di quelli con la funzione creativa sempre su “ON”, di quelli che sono sempre pronti a colpi di genialità incontrollabili.
  Allora, pensiamoci un attimo. Migliaia, anzi, milioni di persone giocano ogni giorno con il loro telecomando alla caccia di canali. In genere non è una ricerca verso qualcosa di specifico, ma solo un espediente per passare il tempo, per illudersi in questo modo di poter aggirare gli spot. Si dovrebbe inventare qualcosa per loro, una funzione che riempia i momenti dei break pubblicitari. Qualcosa da vendergli come innovazione irrinunciabile o semplicemente come fatto “di tendenza”… Sento che sto per inventare qualcosa di straordinario.
  Ci sono: i telecomandi potranno avere il tasto per lo zapping. O meglio: lo “zapkey”!
  Grande idea! Premendo lo zapkey, la TV si mette a saltare in modo casuale tra una serie di canali. Rimane su ognuno non più di una decina di secondi e poi passa al successivo. Schiacciando di nuovo lo zapkey si ritorna al programma originale.
  La genialità sta nel prestabilire la sequenza dei canali in modo che si finisca per vederne sempre uno dove c’è un determinato spot che, a quel punto, il telespettatore non riesce più ad ignorare.
  Bello! Si crea una nuova concessionaria di pubblicità che vende la presenza degli inserzionisti nella zaplist, cioè la lista dei canali scelti (apparentemente) a caso dallo zapkey. Si possono chiedere delle commissioni alle emittenti televisive, specie quelle minori, per poter essere incluse nella zaplist. Nondimeno interessante le royalty sul brevetto dello zapkey che dovranno versare i produttori di apparecchi e telecomandi.
  La promozione del sistema sarebbe facilissima. Basterebbe lasciare che qualche opinionista (di quelli che sono ospiti nei talk-show per capirci) si metta a sparlare dello zapkey additandolo come l’ultimo degli strumenti di rincretinimento di massa. Qualche psicologo di grido testimonierebbe senz’altro su come sia nocivo per i bambini perché distrae le loro coscienza e li indirizza in modo incontrollato verso programmi inopportuni. E poi si potrebbe aizzare qualche regista o qualche attore che si ergano a paladini dell’opera d’arte vituperata da quel volgare aggeggio dotato di bottoni tra i quali svetta lo zapkey. Vedo già i titoli delle prime pagine: “Il tasto che sconvolge le menti”, “Il bottone verso l’ignoto”, “Dal telecomando al caos”.
  Nel contempo partirebbe in modo spontaneo una reazione opposta. Lo zapkey verrebbe interpretato come strumento di difesa contro le major televisive, un segno di indipendenza del consumatore nei confronti dei brand opprimenti e globalizzati, uno schiaffo al potere dei mass media. Si possono assoldare due o tre paladini portatori del messaggio “Zapkey: la libertà parte da qui” ed il gioco è fatto. Se ne potrebbero vendere almeno dieci milioni e fare più di 400 milioni di euro di fatturato nel primo anno. Niente male! Davvero niente male!
  Ho solo un dubbio. Ma un pubblicitario come me, che interessi ha nel diffondere strumenti che allontanano gli utenti dagli spot? Si, certo, con lo zapkey si possono fare un sacco di soldi, ma ai miei clienti poi che gli racconto?
  È bene dormirci su. Anche perché il film è terminato e ho fatto zapping su tutto quello che potevo. E poi non voglio fare tardissimo stasera: domani ho un meeting importante in ufficio proprio con uno dei miei migliori clienti. Chissà se un giorno gli potrò proporre una pianificazione sulla zaplist
  Ok, buonanotte.

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L’idea geniale
Serata svogliata davanti alla TV. Di quelle da cui non mi aspetti nulla, specie dopo aver consultato la guida ai programmi ed aver scoperto che, anche stasera, non troverò nulla di memorabile in nessuno dei cento canali che ho a disposizione. Alla fine mi piazzo su una di quelle emittenti che interrompe i film con delle sequenze di spot pubblicitari piuttosto lunghe, così posso fare un po’ di sano zapping.
  Intento a saltare da un canale all’altro, penso a quanti altri telespettatori apatici passino il loro tempo rimbalzando da un programma all’altro e come il marketing possa sfruttare questa situazione. Naturalmente vedo ogni cosa con gli occhi del pubblicitario, di quelli con la funzione creativa sempre su “ON”, di quelli che sono sempre pronti a colpi di genialità incontrollabili.
  Allora, pensiamoci un attimo. Migliaia, anzi, milioni di persone giocano ogni giorno con il loro telecomando alla caccia di canali. In genere non è una ricerca verso qualcosa di specifico, ma solo un espediente per passare il tempo, per illudersi in questo modo di poter aggirare gli spot. Si dovrebbe inventare qualcosa per loro, una funzione che riempia i momenti dei break pubblicitari. Qualcosa da vendergli come innovazione irrinunciabile o semplicemente come fatto “di tendenza”… Sento che sto per inventare qualcosa di straordinario.
  Ci sono: i telecomandi potranno avere il tasto per lo zapping. O meglio: lo “zapkey”!
  Grande idea! Premendo lo zapkey, la TV si mette a saltare in modo casuale tra una serie di canali. Rimane su ognuno non più di una decina di secondi e poi passa al successivo. Schiacciando di nuovo lo zapkey si ritorna al programma originale.
  La genialità sta nel prestabilire la sequenza dei canali in modo che si finisca per vederne sempre uno dove c’è un determinato spot che, a quel punto, il telespettatore non riesce più ad ignorare.
  Bello! Si crea una nuova concessionaria di pubblicità che vende la presenza degli inserzionisti nella zaplist, cioè la lista dei canali scelti (apparentemente) a caso dallo zapkey. Si possono chiedere delle commissioni alle emittenti televisive, specie quelle minori, per poter essere incluse nella zaplist. Nondimeno interessante le royalty sul brevetto dello zapkey che dovranno versare i produttori di apparecchi e telecomandi.
  La promozione del sistema sarebbe facilissima. Basterebbe lasciare che qualche opinionista (di quelli che sono ospiti nei talk-show per capirci) si metta a sparlare dello zapkey additandolo come l’ultimo degli strumenti di rincretinimento di massa. Qualche psicologo di grido testimonierebbe senz’altro su come sia nocivo per i bambini perché distrae le loro coscienza e li indirizza in modo incontrollato verso programmi inopportuni. E poi si potrebbe aizzare qualche regista o qualche attore che si ergano a paladini dell’opera d’arte vituperata da quel volgare aggeggio dotato di bottoni tra i quali svetta lo zapkey. Vedo già i titoli delle prime pagine: “Il tasto che sconvolge le menti”, “Il bottone verso l’ignoto”, “Dal telecomando al caos”.
  Nel contempo partirebbe in modo spontaneo una reazione opposta. Lo zapkey verrebbe interpretato come strumento di difesa contro le major televisive, un segno di indipendenza del consumatore nei confronti dei brand opprimenti e globalizzati, uno schiaffo al potere dei mass media. Si possono assoldare due o tre paladini portatori del messaggio “Zapkey: la libertà parte da qui” ed il gioco è fatto. Se ne potrebbero vendere almeno dieci milioni e fare più di 400 milioni di euro di fatturato nel primo anno. Niente male! Davvero niente male!
  Ho solo un dubbio. Ma un pubblicitario come me, che interessi ha nel diffondere strumenti che allontanano gli utenti dagli spot? Si, certo, con lo zapkey si possono fare un sacco di soldi, ma ai miei clienti poi che gli racconto?
  È bene dormirci su. Anche perché il film è terminato e ho fatto zapping su tutto quello che potevo. E poi non voglio fare tardissimo stasera: domani ho un meeting importante in ufficio proprio con uno dei miei migliori clienti. Chissà se un giorno gli potrò proporre una pianificazione sulla zaplist
  Ok, buonanotte.

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Giuro che ha fatto tutto la tastiera del mio laptop. È partita di slancio inventando una storia semiseria, senza rendersi conto che il suo proprietario di mestiere non fa lo scrittore. Questi attrezzi informatici stanno davvero prendendo il sopravvento e non hanno più rispetto…

Però abbiamo fatto un patto. Io pubblico questo breve racconto (“La pubblicità che ho sognato”) che però sarà distribuito in più parti su questo blog: oggi alle 12 esce l’introduzione e domani il primo capitolo. Poi, ogni giovedì delle prossime quattro settimane, pubblico gli altri pezzi della storia. In questo modo i lettori (bontà loro) avranno la possibilità di commentare le singole parti reiterando, se del caso, gli insulti e le pernacchie.

Ribadisco: ha fatto tutto la tastiera del laptop, non prendetela con me!
The piano has been drinking, not me, not me (Tom Waits)”

Buona lettura.
Mauro


  Non ho nulla contro i pubblicitari. Però questo breve racconto, scritto di getto in un paio di nottate, è finito per essere un po’ acido ed ironico. In fondo, anch’io mi occupo di pubblicità, ma non c’è nulla di autobiografico in questa storia. Così come sono completamente inventati tutti i nomi di persone e aziende che ho usato.
 Non voglio mettermi a fare lo scrittore: non ho il tempo e credo non sia il mio mestiere. In realtà, un libro già l’ho scritto un paio di anni fa ma, in quel caso, si è trattato principalmente di un documento divulgativo.
 Questo testo invece prende spunto da un intervento che ho tenuto a IAB Forum, un convegno sulla pubblicità on-line tenutosi a Milano lo scorso 25 settembre. Inizialmente volevo solo scrivere il testo di quella relazione, dato che le diapositive che ho utilizzato contenevano principalmente degli elementi emotivi e non descrittivi. Invece, quando ho iniziato a mette giù la storia, i personaggi mi hanno preso la mano ed è uscito questa specie di romanzo in miniatura.

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  Non ho nulla contro i pubblicitari. Però questo breve racconto, scritto di getto in un paio di nottate, è finito per essere un po’ acido ed ironico. In fondo, anch’io mi occupo di pubblicità, ma non c’è nulla di autobiografico in questa storia. Così come sono completamente inventati tutti i nomi di persone e aziende che ho usato.
 Non voglio mettermi a fare lo scrittore: non ho il tempo e credo non sia il mio mestiere. In realtà, un libro già l’ho scritto un paio di anni fa ma, in quel caso, si è trattato principalmente di un documento divulgativo.
 Questo testo invece prende spunto da un intervento che ho tenuto a IAB Forum, un convegno sulla pubblicità on-line tenutosi a Milano lo scorso 25 settembre. Inizialmente volevo solo scrivere il testo di quella relazione, dato che le diapositive che ho utilizzato contenevano principalmente degli elementi emotivi e non descrittivi. Invece, quando ho iniziato a mette giù la storia, i personaggi mi hanno preso la mano ed è uscito questa specie di romanzo in miniatura.

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Amazon sta mettendo in piedi un motore di ricerca che sarà in grado di analizzare il testo contenuto in 120.000 libri (oltre 33 milioni di pagine).

A me invece piace sottolineare la proverbiale attenzione di Amazon per i propri clienti, segnalando l’ennesimo caso di conversione di un utente (e Tombolini è anche un utente di un certo peso ) da arrabbiato a fan.

Certe aziende, dietro l’email dove ti regalano qualcosa hanno la schietta consapevolezza di orientarsi al cliente semplicemente perché è conveniente e non tanto (o non solo) perché è giusto recuperare delle situazioni. A volte viene il sospetto che lo facciano apposta a sbagliare una spedizione e poi a riconquistare la fiducia con qualche simpatico trucco. Hey, potrebbe essere una strategia!


Tutto il web è invaso dalle news sulla probabile quotazione di Google nei prossimi mesi. Ho commentato anche un post su Network Games.

Contemporaneamente l’annuncio di Primedia della vendita del network pubblicitario online Sprinks a Google, con il quale ha poi fatto un accordo esclusivo sul contextual advertising su About.com.

Sprinks non mi è mai piaciuto e colleghi americani mi dicono che non dà prestazioni esaltanti agli inserzionisti. La sua collocazione è sempre stata anche invasiva per i miei gusti. Credo che a Google interessi di più la sua base di clienti ai quali vendere il contextual advertising, oltre all’importante accordo con About.com che è un grande portale editoriale.


Al di là di tutte le ricerche di mercato, il modo più semplice per dimostrare l’assurdo sottoutilizzo di internet nelle pianificazioni pubblicitarie, è una banale calcolatrice.

Facciamo due conti. Pianificare qualche spot televisivo durante una fiction “di grido” sulle reti nazionali, può costare alcune centinaia di migliaia di euro. A questi costi vanno aggiunti quelli dell’agenzia, della produzione, del testimonial, ecc. da spalmare su tutta la campagna. Il risultato è che per una manciata di secondi, lo spot è visto da qualche milione di telespettatori, realisticamene da 4 a 8 milioni.

Passiamo ad internet. In Italia si spendono ogni anno cento milioni di euro circa in pubblicità online. Il che significa 270.000 euro al giorno più o meno.

Teoricamente, al posto di pochi secondi di visibilità davanti ad un distratto o assonnato telespettatore, possiamo avere 24 ore di totale copertura su tutti gli spazi pubblicitari online venduti in Italia, raggiungendo almeno 5 milioni di utenti. Ve l’immaginate? Per un giorno intero, tutta l’internet italiana avrebbe un solo inserzionista. E questo costerebbe all’advertiser come i pochi secondi di uno spot in TV.

Naturalmente, si tratta di uno scenario impossibile da realizzare (magari qualcuno ci sta pensando); però lo squilibrio attuale tra i media tradizionali e internet è davvero evidente.


Quando mi sono avvicinato al mondo dei weblog, Rebecca Blood è un nome che ho sentito ripetere e segnalare da più parti. Così, non appena ho notato il suo libro dell’anno scorso, appena tradotto dalla Mondadori Informatica, l’ho preso subito.

Non ho mai visto una foto di Rebecca, ma me la immagino come una tipica robusta donnona americana, generosa nei rapporti con gli altri, un bel sorriso e tanta voglia di fare da mamma al resto del mondo. Ecco, il suo lavoro mi ricorda lo stereotipato atteggiamento yankee che trova indispensabile farti da guida, che ritiene che tu sa la persona più ottusa che esista e che necessiti di qualcuno che ti illustri le cose da fare fin nei minimi dettagli.

Questo approccio non è sbagliato di per sé. Mettere a disposizione la propria esperienza è senz’altro auspicabile. Quello che trovo esagerato è dettagliare elementi ovvi e scontati. Nel caso del libro in questione, almeno un terzo del lavoro potrebbe essere sostituito da una sola pagina con scritto: “usate il buon senso”. Punto. E invece, ancora una volta, ritornano gli inviti a “non insultare nessuno”, “non copiare materiale riservato”, “non scrivere un blog se non ti va” e altre amenità del genere.

A volte mi chiedo se davvero esistono persone che, leggendo queste cose, pensano: “Hey, è proprio giusto non diffamare nessuno on-line; sai che non ci mi era mai venuto in mente?”

Torniamo al libro. Confermando che un terzo è riassumibile in una frase (“usate il buon senso”), il resto è una interessante disamina del rapporto tra il fatto di tenere un blog e sé stessi. Anche qui ci sono parecchie ovvietà, però emerge qualche riflessione sulla novità di questo strumento e di come si relaziona alla vita quotidiana ed alle proprie aspirazioni.

Condivido con l’autrice il concetto che un weblog può aiutare a migliorare nel tempo la propria scrittura, nonché a stimolare la curiosità per argomenti o persone che non ci rendeva conto di avere.

Infine, una nota di demerito all’editore. Ci sono almeno tre o quattro immagini sbagliate e comunque l’impostazione grafica generale è decisamente approssimativa. L’esempio della scarsa cura messa nell’opera è l’inserimento di una videata di un sito web che non esiste. Probabilmente l’opera originale conteneva un link che i curatori dell’edizione italiana hanno comunque inserito, anche se il risultato è un pagina web con scritto “File not found”. Anch’io quando pubblicai il mio libro ebbi problemi simili con un paio di immagini errate e la cosa mi sembrò assurda. Non sono paranoico, ma certi sbagli in un libro accadono solo per evidente negligenza. Nessuna scusa.

In definitiva: non è un capolavoro ma si può regalare a quell’amico a cui sentite dire “Non vedo l’ora di aprire un blog. Non so perché, ma sento di doverlo fare”.


Il rapporto tra blog e giornalismo è una delle cose più discusse negli ultimi anni. Non se ne può più, me ne rendo conto.

Stavo solo rifettendo su quanto sia fluida la situazione. Quanto negli ultimi anni siano cambiati determinati ruoli. Lo stesso giornalismo è cambiato, anche se lo spirito corporativo della categoria, mi sembra testimoniare che vorrebbero non cambiasse mai.

Il mutamento dei mezzi di comunicazione trasforma i mestieri di chi ci gravita attorno. Cambiamo anche noi come fruitori di tali mezzi, figuriamoci chi ci vive e lavora.

Pensare al giornalismo come esclusiva figura della catena “ricerche / interviste / verifica dell’editore / pubblicazione” mi sembra ormai riduttivo. I casi sono due. O associamo alla parola giornalismo un significato più ampio, oppure serve un nuovo termine per identificare le figure che scrivono sul web e attraverso i weblog, fanno ricerche, intervistano (a volte) e pubblicano. L’apparente differenza la farebbe la mancanza di un editore (caporedattore o direttore che sia) ma, in realtà, è il pubblico di internet il vero giudice e controllore.

Non posso incidere più di tanto nella scelta dei singoli giornalisti di un quotidiano, ma senz’altro posso decidere di leggere i blog dei soli autori che mi piacciono. Uno di questi? AlwaysOn. Pensatela come volete: i redattori di weblog del genere li chiamo giornalisti.


Alcune cose le trovo davvero comode. È il caso di Photocity, un servizio a cui mi collego con un software facile e veloce, attraverso il quale inoltro le foto digitali scattate con la mia Hp Photosmart 735. In due giorni ho le mie belle stampe recapitate comodamente in ufficio.

Mi sa che il negozio abituale a cui portavo i rullini tradizionali non vi vedrà più, anche se adesso stampa da supporti digitali pure lui. E poi sta pure in centro…

POST COLLEGATI:
Fotografia digitale: ho scelto l’Hp Photosmart 735


Avventurarsi nel discorso “cosa è internet” è decisamente inopportuno, specie su un weblog come questo. Però volevo ribadire un concetto di fondo, utile nell’approccio alla Rete sia dell’utente finale che delle aziende che ne fanno argomento di business.

Ciò che noto con insistenza, è una visione di internet come puro fenomeno tecnologico. Questo lo trasforma immediatamente in qualcosa di complicato e che necessità di apprendimento specifico. Me lo sento ripetere continuamente: “Internet? Lo so che è utile, ma io con i computer non ci so fare…”

Mi viene da rispondere di getto: “E internet con i computer che c’entra?” Però mi rendo conto che una risposta del genere va spiegata e motivata. E allora ci provo adesso.

(continua…)


Avventurarsi nel discorso “cosa è internet” è decisamente inopportuno, specie su un weblog come questo. Però volevo ribadire un concetto di fondo, utile nell’approccio alla Rete sia dell’utente finale che delle aziende che ne fanno argomento di business.

Ciò che noto con insistenza, è una visione di internet come puro fenomeno tecnologico. Questo lo trasforma immediatamente in qualcosa di complicato e che necessità di apprendimento specifico. Me lo sento ripetere continuamente: “Internet? Lo so che è utile, ma io con i computer non ci so fare…”

Mi viene da rispondere di getto: “E internet con i computer che c’entra?” Però mi rendo conto che una risposta del genere va spiegata e motivata. E allora ci provo adesso.

(continua…)


Per un paio di settimane ho usato Bloglines in parallelo con FeedReader, in modo da capire il sistema più comodo per leggere i nuovi post sui blog che seguo con regolarità. Ed alla fine… ho optato per Bloglines.

È semplicissimo da usare, gratuito, e non bisogna scaricare nessun software perché si utilizza dal browser. In pratica, una volta registrati su Bloglines.com, si aggiungono tutti i blog che si intende seguire, indicandone il relativo file RSS. Et voilà: tutte le volte che accederemo a Bloglines, saranno evidenziati i nuovi post dei blog a cui siamo iscritti.

Rispetto ai feed aggregator software, Bloglines non storicizza i post, ma trovo che non sia una grossa mancanza, tranne nel caso in cui si desideri leggere i post quando si è disconessi dalla rete. In compenso, ci sono alcune comode funzioni per ordinare le iscrizioni e per attivare degli alert quando vengono pubblicati nuovi post.

Il bottone in alto a destra (Sub Bloglines) permette di attivare direttamente l’iscrizione a questo blog.

Nota a margine: se un purista della lingua italiana capitasse per caso da queste parti, io credo che il titolo di questo post (e probabilmente anche il resto del testo) lo farebbe inorridire! Ma che lingua parleremo tra qualche anno?


È successo ancora! Deve proprio suonare male “Mauro Lupi” perché moltissime volte vengo trasformato in “Mario Lupi”; più raramente in “Marco” o “Maurizio”. Però “Mario” è in top position.

Non è che la cosa mi crei particolari problemi di indentità o altro, anche perché anch’io sbaglio spesso i nomi delle persone. L’unico l’imbarazzo è proprio quando devo segnalare che mi stanno chiamando o linkando in modo sbagliato (anzi, a volte non lo dico neanche). Però, il fatto di essere ricordato e associato spessissimo con una variante di “Mauro” mi incuriosisce: succede con una frequenza davvero eccessiva per essere una coincidenza.

Questa la devo raccontare: tempo fa ho conosciuto un altro “Mauro Lupi”. Non ho resistito: la prima cosa che gli ho chiesto è stata: “ma a te ti chiamano mai Mario Lupi o in un modo comunque diverso dal tuo nome?”. E lui, candidamente: “No, non mi ricordo sia mai successo”.

Quindi il problema sono io: si vede che avrò una faccia da “Mario”

(Voce fuori campo: “Ma con tutto quello che succede nel mondo, guarda questo che problemi si pone”)


Si parla sempre di più di RSS come nuova frontiera del marketing online e trovo la cosa intrigante perché va nella direzione del permission marketing, dato che i feed RSS possono essere letti solo su esplicita richiesta degli utenti ma, nel contempo, possono essere veicolo di comunicazione pubblicitaria.

Faccio un raffronto con l’e-mail: ormai la percentuale di messaggi spam ha superato quella dei messaggi ordinari, e parliamo di 200 messaggi al giorno. Personalmente ho cancellato tutte le iscrizioni alle newsletter distribuite via mail da quelle fonti che hanno implementato i feed RSS (e sono già una decina).

Il buffo è che già dal 1996 c’era qualcosa di simile, anche se inizialmente venne inteso solo per l’aggregazione di news, scegliendo altresì il peggior nome possibile: “push technology”. Io avevo un account con NewsPage, poi diventato Individual.com, che possiamo rivedere attraverso archive.org. Altra azienda che mi ricordo era PointCast che mi pare non esista più. Era il periodo dei cosiddetti “canali” su Explorer e Netscape (li ricordate?) e di Wired che titolava “Kiss your browser goodbye” a proposito della tecnologia push.

Però il concetto era simile rispetto ai feed RSS, nel senso che l’utente poteva scegliere una sorta di aggregazione di fonti, ottenendo in tempo reale l’aggiornamento dei singoli contenuti.

Sono sicuro che ne vedremo delle belle in futuro sotto questo aspetto. Non voglio fare come Wired e ipotizzare la morte della e-mail o dei browser, però attraverso il formato RSS cambierà il modo di accedere a determinate fonti. Ci scommetto!

Oggi la brava Martina su Adverblog segnala, tra l’altro, un bell’articolo di MediaPost che descrive il formato RSS come un vero e proprio nuovo canale di comunicazione.


MediaPost ha intervistato 500 manager americani che si occupano di pianificazione pubblicitaria, chiedendogli una stima della suddivisione del budget per il 2004. Ecco i risultati:

Channel 2004 Ad Budget vs 2003
Broadcast Television $5,234,000 10.00%
Cable Television $2,299,000 -2.00%
Spot Television $4,782,000 -1.50%
Magazines $2,006,000 -3.40%
Newspapers $1,072,000 -1.00%
Interactive/Online $1,573,000 20.90%
Email Marketing $191,000 16.10%
Search Engine $229,000 41.00%
Direct Mail $582,000 5.70%
Outdoor $353,000 -3.10%
Radio $1,646,000 -2.80%
Other $120,000 -2.90%
Total $20,086,000 3.30%

Source: MediaPost Forecast 2004 survey conducted in September 2003 by InsightExpress. Base = 469 media planning/buying executives. I dati sono stati pubblicati dalla newsletter The Silk Road

Mi sembra evidente sottolineare la crescita prevista dell’advertising on-line e l’ulteriore enorme incremento del search advertising (41%).

Proprio ieri AdAge riportava le interviste al presidente di Ford Direct (è la divisione on-line della Ford) e all’internet marketing manager di United Airlines: il primo destina attualmente ai motori di ricerca tra il 20% ed il 25% del suo budget pubblicitario complessivo, mentre il secondo tra il 25% ed il 50% del budget on-line.


La settimana scorsa Google ha introdotto un sistema per analizzare il ROI (Return of Investment) delle campagne pubblicitarie pianificate sul motore di ricerca, e ciò potrebbe rappresentare un momento importante nel settore del web marketing.
Di per se, l’applicazione di Google non ha nulla di innovativo o rivoluzionario. Prodotti di questo tipo ne esistono già da tempo e anche Overture, l’altro leader nel settore del keyword advertising, ne sta rilasciando uno analogo.

Semmai, la novità può essere rappresentata dall’attenzione che inevitabilmente beneficerà questo tipo di funzione in virtù della popolarità raggiunta da Google. Potrebbe succedere come per il marketing attraverso i motori di ricerca, praticamente ignorato fino a un paio di anni fa e poi finito sulle copertine del New York Times quando si sono iniziati a vendere gli spazi in testa ai risultati.

Vuoi vedere che oltre a scoprire quando sia semplice, conveniente e produttivo posizionarsi in testa ai motori di ricerca, le aziende scopriranno quanto sia utile e facile valutare il ROI dei loro siti web?

In effetti, durante il Search Engine Strategies di agosto, ho avuto la sensazione dell’enorme interesse per questo tipo di analisi, anche se le stime più recenti indicano che negli USA meno del 50% delle aziende ha in piedi un sistema di analisi del ROI sulle attività online. Però potremmo essere al giro di boa.

Internet comunque continua a stupirmi ancora: ma come è possibile che siano gli stessi media a fornire dei tool per valutare la loro efficacia? È come se un quotidiano fornisse ai suoi inserzionisti un’indagine di mercato per analizzare i dati di lettura e di gradimento della pubblicità. Sono consapevole che su internet è più facile controllare tali informazioni partendo dal punto iniziale da misurare (il click) e quindi dai siti dei portali e dei motori di ricerca. Però il fatto che l’analisi dei risultati venga demandata ai soggetti utilizzati come canali di comunicazione, è secondo me segno di immaturità del settore.

Sarà inoltre interessante verificare se e come questi strumenti di misurazione riusciranno a decollare anche in Italia, paese dove tradizionalmente i manager non sono portati e stimolati a mettersi sotto osservazione.


Le leggi del WebHo comprato questo libro in aeroporto perché non mi era rimasto niente da leggere ed in aereo non so proprio stare senza far niente. E poi si presentava bene: un sottotitolo serioso (“Elementi strutturali dell’ecosistema dell’informazione”), 100 pagine soltanto, scritto da uno scienziato dell’HP e pubblicato nel 2001 dal MIT. Preso!
Accomodato in un bel “corridoio – avanti” (ebbene si, sono di quelli che al momento di fare il check-in si mette a negoziare con l’addetto/a per spuntare i posti migliori) ho iniziato a leggere “Le leggi del Web”. Si tratta di un libro scritto da Bernardo A.Huberman, un matematico che promette nella sua prefazione di evitare tecnicismi e linguaggi complicati. Così mi concentro sul testo e scopro che si tratta dell’analisi scientifica della relazione tra la numerosità dei siti web e la quantità di pagine di cui si compongono e di link ad altri siti. Si tratta di una cosa che mi interessa molto in questo periodo e naturalmente le prime 50 paginette sono volate via durante l’ora di volo Milano-Roma.

In effetti il linguaggio è basato su elementi di matematica e statistica e l’obiettivo di renderlo fruibile ai non-matematici è (in parte) raggiunto mediante degli esempi. Però alcuni paragrafi li devo rileggere due o tre volte prima capirci qualcosa.
Un primo risultato che mi aspetto durante la lettura di un libro, oltre a quello di aggiungere conoscenze ed informazioni alla mia materia grigia, è quello di ottenere degli stimoli a sviluppare idee e congetture e “Le leggi del Web” in questo mi è stato utile. Sarà che mi sto interessando sempre di più a capire la Rete osservandone i suoi utenti (vedi anche un altro post), ho trovato l’analisi scientifica di Huberman in linea con questo atteggiamento e lo stesso autore sottolinea la possibilità (inesplorata, in gran parte) di conoscere internet attraverso l’esame analitico dei suoi elementi: le pagine dei siti, i link e, aggiungo io, i comportamenti degli utenti sui siti e nelle attività di ricerca online.

Arrivo a Roma, 50 pagine lette, qualche spunto, un paio di elementi concreti derivati dalla ricerca scientifica dell’analisi dei siti web. Inizio a pensare che il valore aggiunto delle pagine rimanenti possa non aggiungere molto altro.
La seconda parte del libro analizza il fenomeno delle “tempeste web” e quindi dell’intasamento della Rete, mettendo addirittura in relazione ad alcuni dilemmi sociali delle moderne comunità. Interessante, ma speravo che il testo andasse a parare altrove.

In definitiva: un testo breve e, come tale, decisamente parco di argomenti e temi esaminati in dettaglio. Ho avuto come l’impressione che nel tentativo dello scienziato di semplificare il suo linguaggio, sia rimasta solo la superficie e la sostanza sia andata persa.


A testimonianza di quanto internet, anche in Italia, sia diventato un importante influenzatore degli acquisti off-line, volevo segnalare due dati emersi dall’ultima ricerca di Eurisko presentata a IAB Forum 2003:

  • il 53% degli utenti si è informata su internet in merito a servizi e prodotti che poi ha acquistato off-line (era il 42% nl 2002)

  • il 62% è propenso ad utilizzare internet in futuro su prodotti e servizi da acquistare off-line (era il 57% nel 2002)

Interessante anche il fatto che l’aggettivo con il quale viene più spesso identificato internet è “utile” (77% degli intervistati).
Sul sito di IAB Italia sono disponibili le slide di alcuni relatori e le registrazioni audio/video di tutti gli interventi, seppur relative ai primi 5 minuti.